Vedi European Union dell'anno: 2015 - 2016
(EU)
Unione Europea
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L’idea di un’Europa unita, sebbene ipotizzata già nel 19° secolo, nacque concretamente nel secondo dopoguerra con il principale obiettivo di impedire il riprodursi di un conflitto attraverso la costruzione di uno stretto legame tra Francia e Germania, da sempre al centro delle tensioni tra i paesi europei. La prima iniziativa in questo senso fu la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) nel 1951. La proposta francese per la fusione della produzione carbosiderurgica franco-tedesca sotto una comune Alta autorità, aperta ad altri stati europei, mirava infatti a porre delle basi comuni per lo sviluppo economico e a rendere materialmente impossibile un riarmo segreto. Essa venne presentata dal ministro degli esteri francese Robert Schuman il 9 maggio del 1950, oggi celebrato come ‘Giornata dell’Europa’. Poco dopo, però, il processo di integrazione subì una prima battuta d’arresto, con il fallimento della Comunità europea di difesa, a causa delle resistenze francesi a cedere parte della sovranità in un settore sensibile quale la difesa nazionale. Questo non impedì, alcuni anni dopo, la creazione della Comunità economica europea (Cee) e della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom, 1957), la prima con l’obiettivo di instaurare un mercato comune e la seconda volta a coordinare i programmi di ricerca degli stati membri per l’uso pacifico dell’energia atomica. Membri originari delle comunità erano, oltre a Francia e Germania, anche Italia e i paesi appartenenti al Benelux.
La Comunità economica europea era inizialmente basata sulla libera circolazione delle merci e dei fattori di produzione – lavoratori, servizi e capitali – e su alcune politiche comuni, prime tra tutte la politica agricola e la politica commerciale. Nel 1968 sono stati definitivamente aboliti i dazi doganali tra i membri ed è stata così completata l’unione doganale.
Gli anni Settanta, periodo di crisi economica internazionale, hanno poi contribuito a una maggiore determinazione dei paesi europei circa il raggiungimento di una più profonda integrazione regionale, che ha portato alla creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale nel 1975 e del sistema monetario europeo nel 1979, e all’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Inoltre è negli anni Settanta che avviene il primo allargamento. Negli anni Cinquanta, infatti, il Regno Unito non partecipò ai negoziati poiché non aveva interesse a inserirsi in un quadro di integrazione avanzato, che avrebbe implicato significative rinunce alla propria sovranità. Di conseguenza il Regno Unito promosse inizialmente la creazione di una zona di libero scambio attraverso l’Associazione europea di libero scambio (Efta), insieme ad Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera. Poco tempo dopo però, nel 1961, insieme a Irlanda e Danimarca il Regno Unito presentò domanda di adesione, ma la Francia di De Gaulle pose il veto, in quanto considerava la partecipazione britannica una minaccia rispetto all’obiettivo di usare la Comunità europea per rafforzare la propria influenza esterna. Solo nel 1973 Regno Unito, Irlanda e Danimarca divennero membri delle Comunità.
È poi negli anni Ottanta che il Trattato di Roma, che istituisce la Comunità economica europea, venne modificato per la prima volta con l’Atto unico europeo (1987), attribuendo così alla Comunità nuove competenze in materia di ambiente, trasporti, energia e telecomunicazioni.
Nel 1989, l’assetto politico del continente subì una radicale trasformazione con la caduta del muro di Berlino. In questo contesto, i primi anni Novanta videro un notevole ampliamento del processo di integrazione, suggellato dalla conclusione del Trattato di Maastricht (1992) che istituisce l’Unione Europea (Eu), ponendo la Comunità economica europea come uno dei ‘pilastri’ della struttura, accanto alla politica estera e di sicurezza comune e alla cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni. In tale modo, la precedente cooperazione politica fu istituzionalizzata, vennero ulteriormente ampliate le competenze dell’Eu, che da quel momento includono protezione della salute, protezione dei consumatori, cultura, sviluppo dell’industria, energia e turismo; fu introdotta la cittadinanza europea e avviata l’Unione economica e monetaria.
Accanto a tali importanti sviluppi, nella metà degli anni Novanta presentarono domanda di adesione all’Eu – allora formata da 15 membri – paesi appartenuti al blocco sovietico (Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria) e i tre stati baltici dell’ex Unione Sovietica. Di qui l’esigenza di adeguare il processo decisionale in vista dell’allargamento dell’Unione all’Europa centrorientale, obiettivo del Trattato di Nizza del 2001. Tale processo è proseguito con l’adesione di 8 paesi dell’Europa centrorientale, insieme a Malta e Cipro, nel 2004, seguiti da Bulgaria e Romania nel 2007 e dalla Croazia nel 2013. L’attuale membership a 28 stati è così una realtà completamente diversa da quella della Comunità economica europea, nella quale i pochi membri condividevano concezioni simili circa lo sviluppo dell’integrazione europea. Questo contribuisce anche al fenomeno noto come ‘Europa a più velocità’, nel senso che sono sempre più frequenti forme di cooperazione rafforzate tra un numero limitato di stati membri e differenziate in alcune materie, come è avvenuto per l’abolizione dei controlli alle frontiere interne, per l’euro e per l’Unione bancaria e il correlato sistema di vigilanza bancaria.
Anche per queste ragioni, nel 2001 le istituzioni comunitarie hanno dato vita a un dibattito sul futuro dell’Eu. Il Consiglio europeo di Laeken ha istituito una ‘Convenzione sul futuro dell’Europa’, composta da rappresentanti del Parlamento europeo, della Commissione, dei governi e dei parlamenti nazionali e che ha poi iniziato i lavori sotto la presidenza del francese Valéry Giscard d’Estaing. Essa ha portato all’elaborazione del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma nel 2004. Tuttavia la Costituzione non è mai entrata in vigore poiché ratificata da soli 18 membri su 27. Infatti, nel 2005 i cittadini francesi, seguiti poco dopo da quelli olandesi, hanno espresso tramite referendum la loro contrarietà alla ratifica. Riaperti i negoziati intergovernativi, si è così arrivati alla firma, nel 2007, del Trattato di Lisbona che, nonostante un primo referendum irlandese di esito negativo, è poi stato ratificato da tutti i membri ed è entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Quest’ultimo non include riferimenti alla ‘costituzione’ e ai suoi simboli (sebbene anche la precedente Costituzione non implicasse un’evoluzione federale dell’Unione), ma recepisce la maggior parte delle modifiche sostanziali previste dalla precedente bozza costituzionale, con particolare riguardo alle modifiche istituzionali, al rafforzamento della politica estera e di sicurezza comune e alla cooperazione in materia penale.
Di rilievo anche il fatto che, con il Trattato di Lisbona, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata una prima volta da Consiglio, Commissione e Parlamento nel 2001 e una seconda volta nel 2007, viene ad assumere lo stesso valore dei Trattati. La Carta prevede espressamente il divieto della pena di morte. Infine, scompare la ‘Comunità europea’, sostituita in tutto dall’Unione Europea.
Possono divenire membri dell’Eu gli stati ‘europei’ che rispettino i valori della democrazia e diritti umani e i cosiddetti ‘criteri di Copenaghen’. La procedura prevede che lo stato richiedente trasmetta la propria domanda di ammissione al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo. Tale decisione tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo, con riferimento ai criteri stabiliti dal Consiglio europeo del giugno 1993 tenutosi nella capitale danese. Essi sono:
– il criterio politico: la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani, il rispetto delle minoranze e la loro tutela;
– il criterio economico: l’esistenza di un’economia di mercato funzionante e la capacità di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione;
– il criterio dell’acquis communautaire: l’accettazione degli obblighi derivanti dall’adesione e, congiuntamente, degli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.
La verifica dei criteri va quindi effettuata in una fase preliminare di preadesione nella quale, per prassi, la Commissione svolge un ruolo di rilievo. Essa è fondamentale perché si possa procedere all’apertura dei negoziati di adesione che si concludono con un accordo tra i membri dell’Eu e lo stato candidato che determina le condizioni di ammissione. Tale accordo entra in vigore solo se ratificato da tutti i membri Eu, oltre che dagli stati candidati.
Il Trattato di Lisbona ha apportato numerose modifiche alla struttura istituzionale dell’Eu. La presidenza del Consiglio europeo è oggi affidata a un presidente eletto - con un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una sola volta - che sostituisce il precedente sistema di presidenza a rotazione semestrale e dovrebbe garantire maggiore continuità. Il presidente svolge funzioni di carattere procedurale e strumentale all’attività del Consiglio europeo e garantisce la rappresentanza esterna dell'Eu nell'ambito della politica estera e di sicurezza. Dal primo dicembre 2014 è presidente del Consiglio europeo il polacco Donald Tusk. Il Consiglio dell'Unione Europea, istituzione distinta dal Consiglio europeo, rimane invece a rotazione semestrale, e dal luglio al dicembre 2014 tale carica è stata rivestita dal presidente del consiglio italiano Matteo Renzi. Altra importante novità è la creazione della figura di alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (non 'ministro degli esteri', come prevedeva la Costituzione europea), che dovrebbe rafforzare la coerenza dell'azione esterna dell'Eu. L'alto rappresentante ha un doppio incarico: è il mandatario del Consiglio per la politica estera e di sicurezza comune (Pesc, o Cfsp in inglese), nonché vice presidente di diritto della Commissione. Egli rappresenta l'Eu sulla scena internazionale per le materie che rientrano nella Pesc, contribuisce con le sue proposte all'elaborazione di detta politica e la attua in qualità di mandatario del Consiglìo. A tal fine è assistito da un servizio europeo per l'azione esterna, composto da funzionari del Consiglio, della Commissione e dei servizi diplomatici nazionali. Nel 2014, alla scadenza del mandato della britannica Catherine Ashton, il Consiglio europeo ha nominato alto rappresentante l’ex ministro degli esteri italiano Federica Mogherini. Inoltre, il Trattato di Lisbona prefigurava una novità anche per quanto concerne la Commissione, che dal 2014 avrebbe dovuto essere composta non più da un cittadino per ogni stato membro, ma da un numero di membri - compreso il presidente e l'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza - corrispondente ai due terzi del numero degli stati membri. Tuttavia, le conclusioni della presidenza del Consiglio europeo di Bruxelles del 2008 hanno affermato l'impegno politico a mantenere l'attuale composizione e pertanto, con l'ingresso della Croazia, la Commissione si è allargata a 28 membri.
Negli anni Novanta le formazioni erano 22, ridotte a 16 nel giugno 2000 e infine a 9 nel giugno 2002. ll Trattato di Lisbona definisce 10 formazioni. Tuttavia il Consiglio rimane unico, nel senso che qualunque sia la formazione del Consiglio che adotta una decisione si tratta sempre di una decisione 'del Consiglio'. In particolare il Consiglio ‘Affari generali’ assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio, mentre il Consiglio ‘Affari esteri’ elabora l’azione esterna dell’Eu secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell'azione dell'Unione. Attualmente le formazioni sono:
Affari generali
Affari esteri
Economia e finanza
Giustizia e affari interni
Occupazione, politica sociale, salute e consumatori
Competitività (mercato interno, industria, ricerca e spazio)
Trasporti, telecomunicazioni ed energia
Agricoltura e pesca
Ambiente
lstruzione, gioventù, cultura e sport Metodo
Parlamento europeo. L’Assemblea parlamentare, comune alle tre comunità originarie, nasceva con funzioni consultive. Nel tempo però vi sono stati notevoli passi avanti nell’ambito del processo volto alla riduzione del ‘deficit democratico’ dell’Eu, riferito al fatto che il potere legislativo è stato storicamente esercitato dal Consiglio, un organo formato dai rappresentanti degli esecutivi degli stati membri. Dal 1979 i membri dell’Assemblea sono eletti a suffragio universale e dal 1986 essa è stato denominata ‘Parlamento’. I membri del Parlamento sono eletti per cinque anni con procedure elettorali scelte a livello nazionale, ma sempre secondo il metodo proporzionale. Il numero dei deputati è cresciuto nel tempo, passando dagli originari 142 agli attuali 751.
Oggi il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Se inizialmente esso interveniva nel processo legislativo solo con funzione consultiva, nel tempo il ruolo del Parlamento è divenuto sempre più incisivo nel processo decisionale e oggi, con l’estensione della ‘procedura legislativa ordinaria’ attuata dal Trattato di Lisbona, il Parlamento contribuisce alla formazione degli atti in numerosi ambiti in maniera congiunta con il Consiglio. Generalmente il Parlamento vota a maggioranza. Inoltre, il Parlamento è chiamato a esercitare il controllo democratico sulle altre istituzioni dell’Eu e in particolare sulla Commissione. Infatti, tra le sue principali prerogative vi è la possibilità di approvare una mozione di censura nei confronti della Commissione che porta alle dimissioni collettive dei suoi membri e dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (per quanto concerne le funzioni esercitate nell’ambito della Commissione).
Consiglio europeo. Già negli anni Sessanta i capi di stato e di governo dei membri delle tre comunità si riunivano periodicamente per definire l’indirizzo politico delle attività. Con il vertice di Parigi del 1974 tali riunioni sono state istituzionalizzate. Oggi il Consiglio europeo è composto dai capi di stato o di governo degli stati membri, dal suo presidente di turno e dal presidente della Commissione. L’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori ma non ne fa parte, mentre il presidente del Parlamento può essere invitato. Tale organo è la suprema istanza politica che dà all’Eu gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative. Il Consiglio europeo si riunisce generalmente due volte a semestre su convocazione del presidente. Esso delibera generalmente per consensus, oppure all’unanimità, per delibere particolarmente rilevanti (ad esempio, per la modifica del numero di membri della Commissione o sulla politica estera e di sicurezza comune) o, ancora, a maggioranza semplice o qualificata (come per la nomina dell’alto rappresentante dell’Eu per gli affari esteri e la politica di sicurezza).
Consiglio dell’Unione Europea. Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascun stato membro a livello ministeriale. Esso esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio; inoltre esercita una funzione esecutiva e di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei Trattati. Il Consiglio ha sede a Bruxelles, dove si riunisce varie volte al mese (le sessioni hanno luogo a Lussemburgo ad aprile, giugno e ottobre). Il Consiglio si riunisce in varie formazioni. Nella formazione ‘Affari esteri’ la presidenza spetta di diritto all’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, mentre per le altre formazioni il presidente è stabilito dal Consiglio europeo secondo un sistema di rotazione paritaria semestrale.
Commissione europea. La Commissione è composta da un cittadino di ciascuno stato membro, compresi il presidente e l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, in carica per cinque anni. I componenti sono persone scelte in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e devono garantire la piena indipendenza, infatti essi non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo. La Commissione ha il compito di promuovere l’interesse generale dell’Eu e di vigilare sull’attuazione dei Trattati da parte degli stati (essa è detta anche ‘guardiana dei Trattati’). In tale contesto, essa ha potere quasi esclusivo di iniziativa legislativa, può adottare provvedimenti normativi di esecuzione di atti adottati dal Consiglio, può avviare delle procedure di infrazione nel caso in cui reputi che uno stato membro abbia violato gli obblighi previsti dalle norme dell’Eu affinché la Corte di giustizia dichiari l’esistenza dell’infrazione e, in taluni casi, comminare una sanzione. La Commissione è suddivisa in direzioni generali (Dg) e servizi.
Corte di giustizia dell’Unione Europea. La Corte di giustizia dell’Eu comprende la Corte di giustizia, il Tribunale e i tribunali specializzati. Questi ultimi possono essere istituiti dal Consiglio e dal Parlamento secondo la procedura legislativa ordinaria. Nel 2004 è stato istituito il Tribunale della funzione pubblica dell’Eu, competente sulle controversie tra l’Eu e i funzionari delle istituzioni, delle agenzie e degli organi. Nel 2012 si è infine raggiunto un accordo sulla creazione della Corte europea dei brevetti, accordo firmato a febbraio 2013 ma ancora in attesa di ratifica da parte di molti stati. La Corte di giustizia è composta da un giudice per stato membro ed è assistita da undici avvocati generali, nominati di comune accordo dai governi degli stati membri e in carica per sei anni. La Corte ha il compito di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati. In tale contesto essa si pronuncia, in particolare, su ricorsi circa la legittimità di atti adottati dalle istituzioni presentati da stati, istituzioni dell’Eu e persone fisiche e giuridiche, e su ricorsi circa i casi di inadempimento delle norme comunitarie da parte degli stati membri e delle istituzioni. Inoltre, attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale, la Corte può essere adita da giudici nazionali che, nel corso di un processo nazionale, decidano di porle una domanda circa l’interpretazione o la validità di una norma comunitaria rilevante ai fini del processo. Dal momento che ai giudici interni compete di assicurare l’applicazione del diritto dell’Eu nei rispettivi ordinamenti, i meccanismi di cooperazione tra giudici interni e comunitari rivestono particolare importanza.
Banca centrale europea. La Banca centrale europea, con sede a Francoforte, è un organo indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze sia rispetto alle istituzioni dell’Eu che rispetto ai governi degli stati membri. La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali degli stati membri la cui moneta è l’euro costituiscono l’Eurosistema e conducono la politica monetaria dell’Eu. Viceversa, la Banca centrale europea e le banche centrali nazionali di tutti i paesi membri costituiscono il Sistema europeo di banche centrali (Sebc, o Escb in inglese). I membri che mantengono la propria valuta continuano a gestire la propria politica monetaria, ma sono comunque impegnati a rispettare i principi di una politica monetaria volta alla stabilità dei prezzi e a collaborare con l’Eurosistema con varie modalità.
Corte dei conti europea. La Corte dei conti effettua il controllo contabile e l’esame del bilancio dell’Eu. Essa è composta da un cittadino per ciascuno stato membro. I suoi membri esercitano le loro funzioni in piena indipendenza, nell’interesse generale dell’Unione.
Banca europea per gli investimenti. La Banca europea per gli investimenti ha il compito di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali e alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato e uniforme del mercato interno.
Comitato delle regioni. Il Comitato delle regioni è composto dai rappresentanti delle collettività regionali e locali, che devono essere titolari di un mandato elettorale o responsabili politicamente verso un’assemblea eletta. Esso esercita funzioni consultive in piena indipendenza e nell’interesse generale dell’Eu.
Comitato economico e sociale. Il Comitato economico e sociale è composto dai rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori rappresentativi della società civile organizzata, in particolare nei settori socio-economico, civico, professionale e culturale. Esso esercita funzioni consultive in piena indipendenza e nell’interesse generale dell’Eu.
Mediatore europeo. Il Mediatore tratta le denunce da parte di cittadini, imprese e organizzazioni dell’Eu, contribuendo a scoprire i casi di cattiva amministrazione, ovvero i casi in cui istituzioni, organi, uffici e agenzie dell’Eu abbiano infranto la legge, non abbiano rispettato i principi della corretta amministrazione o abbiano violato i diritti umani. Si tratta di un sistema extragiurisdizionale.
Garante europeo della protezione dei dati. Il Garante europeo della protezione dei dati è stato istituito al fine di garantire il rispetto del diritto alla vita privata nel trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni e degli organismi dell’Eu.
Nell’ambito dell’Eu sono state istituite numerose agenzie specializzate e decentrate, allo scopo di fornire aiuto e consulenza alle istituzioni, agli stati membri e ai loro cittadini. Esse differiscono dalle istituzioni europee e possono essere distinte in agenzie settoriali, agenzie per la politica di sicurezza e di difesa comune e agenzie per la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Le prime sono organismi di diritto pubblico europeo dotati di personalità giuridica che svolgono compiti molto specifici di natura tecnica, scientifica o amministrativa. Le seconde sono agenzie istituite per svolgere compiti molto specifici di natura tecnica, scientifica e amministrativa nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune dell’Unione Europea. Tra queste vi sono l’Agenzia europea per la difesa (Eda), il Centro satellitare dell’Unione Europea (Eusc) e l’Istituto dell’Unione Europea per gli studi sulla sicurezza (Euiss). Infine, sono state create alcune agenzie per il coordinamento degli stati nella lotta alla criminalità organizzata internazionale. Esse sono l’Accademia europea di polizia (Cepol), l’Ufficio europeo di polizia (Europol) e l’Unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea (Eurojust).
Il metodo comunitario poggia su una logica di integrazione ed è caratterizzato dai seguenti elementi: monopolio del diritto d'iniziativa della Commissione, ricorso generalizzato al voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio, ruolo attivo del Parlamento europeo, uniformità di interpretazione del diritto comunitario garantita dalla Corte di giustizia. ll metodo intergovernativo attribuisce maggior importanza agli stati membri e presenta le seguenti caratteristiche: la Commissione condivide il diritto d'iniziativa con gli stati membri, il Consiglio delibera all'unanimità, il Parlamento europeo viene informato e consultato, la Corte di giustizia europea ricopre un ruolo minore.
Nel marzo 2000 a Lisbona i capi di stato europei hanno stabilito una strategia di medio periodo per rendere l'Europa più dinamica e competitiva. Dopo un inizio caratterizzato da risultati poco soddisfacenti, la Strategia di Lisbona è stata rilanciata nel 2005 e focalizzata maggiormente sulla crescita e sull'occupazione. Sebbene la Strategia abbia avuto un'accoglienza positiva, gli obiettivi che si era prefissata non sono stati raggiunti. A seguito della crisi globale del 2009 è stata quindi definita una nuova strategia, la cosiddetta 'Strategia Europa 2020', che punta a rilanciare l'economia dell’Eu nel prossimo decennio. In un mondo che cambia, l'Unione Europea si propone di diventare un'economia intelligente, sostenibile e solidale. Queste tre priorità, che si rafforzano a vicenda, intendono aiutare l'Eu e gli stati membri a conseguire elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. In questo contesto l'Unione si è posta cinque ambiziosi obiettivi, da raggiungere entro il 2020: l'innalzamento al 75% del tasso di occupazione (per la fascia di età compresa tra i 20 e i 64 anni); l'aumento degli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione al 3% del PIL dell'Eu (pubblico e privato insieme); nel campo ambientale, la riduzione delle emissioni di gas serra del 20% (o persino del 30%, se le condizioni lo permettono) rispetto al 1990, il potenziamento delle fonti rinnovabili fino a ricavare da queste il 20% del fabbisogno di energia, l'aumento del 20% dell'efficienza energetica; nel campo dell'istruzione, la riduzione degli abbandoni scolastici al di sotto del 10% e l'aumento al 40% dei trenta-trentaquattrenni con un'istruzione universitaria; infine, ridurre di almeno 20 milioni il numero di persone a rischio o in situazione di povertà ed emarginazione.
Il processo decisionale dell’Eu vede coinvolte più istituzioni: salvo alcune eccezioni, l’iniziativa è affidata alla Commissione europea, che presenta una proposta di atto legislativo al Parlamento e al Consiglio, i quali la esaminano e ne discutono fino al raggiungimento di un accordo.
La procedura di adozione degli atti avviene attraverso varie modalità ed è mutata notevolmente nel tempo, nel tentativo di ridurre il già menzionato deficit democratico dell’Eu. La procedura di regola nei Trattati originari era quella di consultazione, in base alla quale il Consiglio ha l’obbligo o la facoltà di consultare il Parlamento, ma non è tenuto a seguirne il parere nella decisione finale. Tale procedura è ancora applicabile in alcune materie, quali movimenti di capitali, ambiente ed energia. L’Atto unico europeo ha introdotto la procedura del parere conforme, in base alla quale il Consiglio può adottare un atto solo con l’assenso del Parlamento, e la procedura di cooperazione, che prevedeva che in caso di dissenso del Parlamento il Consiglio potesse comunque adottare un atto, ma con decisione all’unanimità. Il Trattato di Maastricht andò oltre, introducendo la procedura di codecisione. Con il Trattato di Lisbona la ‘procedura legislativa ordinaria’, che corrisponde in larga parte alla procedura di codecisione, è ora il meccanismo generale di adozione degli atti in quanto è stata estesa a numerosi ambiti anche di rilievo, come le politiche agricole e lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, i trasporti, il ravvicinamento delle legislazioni per l’attuazione del mercato interno. Essa prevede che l’atto sia adottato solo con il consenso sia del Consiglio che del Parlamento.
Il Parlamento vota generalmente a maggioranza, a meno che i Trattati non dispongano diversamente. Il quorum è raggiunto quando è presente in aula un terzo dei deputati, mentre è necessaria la maggioranza assoluta dei componenti per alcune delibere importanti, quali l’ammissione di nuovi stati o l’elezione del presidente della Commissione.
Il Consiglio invece vota di regola a maggioranza qualificata nel caso della procedura legislativa ordinaria, salvo nei casi in cui i Trattati dispongano diversamente. In un’Unione sempre più ampia risulta difficile riuscire a raggiungere l’unanimità ed è quindi opportuno estendere il voto a maggioranza qualificata. Il Trattato di Lisbona ha ridotto i casi in cui è necessaria l’unanimità che tuttavia è ancora prevista, per esempio, nel caso di ravvicinamento delle legislazioni, per le decisioni in materia di politica commerciale, ambientale, energetica e per la conclusione di alcuni tipi di accordi internazionali. Dal novembre 2014 è entrato in vigore il nuovo sistema di voto a maggioranza qualificata. Secondo i requisiti del nuovo sistema, nel caso di voto su una proposta della Commissione europea, al Consiglio la maggioranza qualificata si intende raggiunta se in senso favorevole vota almeno il 55% dei paesi membri (nell’attuale Unione a 28 sono necessari almeno 16 voti favorevoli) che rappresentino almeno il 65% della popolazione europea. Perché la proposta non sia approvata, tuttavia, il voto contrario deve essere espresso da almeno quattro paesi, in modo da evitare che tre fra gli stati più popolosi dell’Eu possano bloccare da soli l’intero processo decisionale. In caso di voto su proposte che non provengono dalla Commissione europea, è invece necessario il voto favorevole da parte del 72% dei paesi membri (attualmente 21 paesi su 28).
È importante ricordare che, fino a marzo 2017, qualunque stato membro potrà chiedere che si torni a votare con le regole vigenti nel periodo 2003-14, approvate con il Trattato di Nizza e che prevedevano il raggiungimento di una complessa tripla maggioranza (il 50% più uno dei paesi membri, il 74% dei voti ponderati assegnati a ciascun paese, rappresentanti almeno il 62% della popolazione europea).
Giova infine ricordare che, per quanto riguarda la governance economica dell’Eu, il potere della Commissione europea è fortemente rafforzato. Infatti, nel caso in cui la Commissione proponga di imporre una sanzione finanziaria nei confronti di un paese membro che non abbia rispettato i parametri di deficit e debito stabiliti dai Trattati, tale proposta si intende approvata a meno che il Consiglio, a maggioranza qualificata dei suoi membri, la rifiuti.
Nel tempo gli ambiti di competenza dell’Eu sono stati notevolmente estesi. L’attività dell’Eu incide oggi in larga misura sulle politiche nazionali. Di seguito si analizzeranno le principali politiche comunitarie.
La realizzazione di un mercato comune delle merci e dei fattori di produzione – lavoratori, servizi e capitali – ha avuto un ruolo centrale sin dalla creazione della Comunità economica europea. Esso era lo strumento che avrebbe permesso alla Comunità di perseguire i propri obiettivi, in particolare uno sviluppo armonioso delle attività economiche e un miglioramento del tenore di vita dei cittadini.
Inizialmente è prevalsa la logica dell’integrazione negativa ad opera della Corte di giustizia, fondata sull’abolizione degli ostacoli diretti e indiretti agli scambi, cui nel tempo è stata affiancata una sempre maggiore integrazione positiva, che si riflette negli atti di ravvicinamento delle legislazioni nazionali che incidono sul mercato interno. L’unione doganale, ovvero l’eliminazione definitiva dei dazi e delle tasse di effetto equivalente tra i membri e l’adozione di una tariffa doganale comune per gli scambi con i paesi terzi, è stata completata nel 1968. In seguito, le maggiori distorsioni al commercio intracomunitario derivavano prevalentemente dalle cosiddette barriere non tariffarie, quali, per esempio, i requisiti di sicurezza o di imballaggio. A questo riguardo la Corte di giustizia ha avuto un ruolo fondamentale; negli anni Ottanta, poi, c’è stata un’accelerazione al fine di completare il mercato interno entro il 1° gennaio 1993, con l’adozione di numerose direttive di armonizzazione o mutuo riconoscimento, per esempio nel campo della proprietà intellettuale, dato che le merci che circolano nel mercato unico sono in gran parte coperte da diritti di proprietà intellettuale nazionali. Tuttavia, l’integrazione dei mercati nazionali in un unico mercato è un processo ancora in atto. Tra i settori in cui prevale ancora la logica della frammentazione nazionale vi sono quello dei servizi, dei sistemi fiscali e dei servizi finanziari.
Infine, in tutti i paesi dell’Unione Europea (con l’eccezione di Cipro, Irlanda, Regno Unito, Bulgaria e Romania che non aderiscono al Trattato di Schengen) è possibile viaggiare via terra senza sottoporsi al controllo alle frontiere dei documenti di identità. Tale principio è stato in parte messo in discussione da alcuni stati membri come conseguenza dell’eccezionale flusso migratorio che ha interessato l’Europa nel corso del 2015-16.
Inizialmente la politica agricola comunitaria (Pac, o Cap in inglese) mirava alla necessità di produrre cibo sufficiente per un’Europa che usciva da un decennio di carestie dovute alla guerra. Essa prevedeva sussidi alla produzione e l’acquisto delle eccedenze nell’interesse della sicurezza alimentare.
L’attuale politica, sebbene in continua evoluzione, mira a far sì che i produttori di alimenti di ogni genere siano in grado di competere in modo autonomo sui mercati dell’Eu e su quelli mondiali. Tra i principali obiettivi vi sono l’incremento della produttività agricola, attraverso un migliore impiego dei fattori di produzione, e la garanzia di un tenore di vita equo per la popolazione impegnata nel settore agricolo, permettendo nel contempo al settore stesso di modernizzarsi e svilupparsi. Inoltre, lo sviluppo della politica agricola comune è legato a una maggiore attenzione alla qualità del cibo prodotto in Europa, alla sicurezza alimentare, al benessere della società rurale, alla preservazione dell’ambiente per le generazioni future, e alla garanzia di migliori condizioni di salute e benessere per gli animali.
Accanto alla politica agricola si è sviluppata, a partire dagli anni Ottanta, una politica comunitaria per la pesca. Nell’ambito di quest’ultima vengono fissate le norme per garantire che la pesca europea sia sostenibile e non arrechi danno all’ambiente marino, vengono controllate le dimensioni della flotta peschereccia europea per evitare che cresca ulteriormente, vengono aiutati i produttori, le imprese di lavorazione e i distributori a ottenere un prezzo equo per i loro prodotti e garantire al consumatore la qualità del pesce acquistato.
L’agricoltura e la pesca sono due politiche integrate dell’Eu, in cui le decisioni sono adottate a livello europeo dal Consiglio. Il bilancio di ciascuna politica è ‘comunitarizzato’, ovvero il finanziamento delle misure è deciso anch’esso in sede di Consiglio sulla base di un bilancio europeo distinto dai bilanci nazionali. Tuttavia, se negli anni Settanta il bilancio delle politiche agricole e della pesca raggiungeva quasi il 70% del bilancio dell’Eu, nel periodo 2007-13 la quota della spesa agricola è scesa al 42,3%. Inoltre, a partire dal 2013, la Pac è sottoposta a un processo di riforma allo scopo di adeguarsi alla Strategia Europa 2020. L’iniziativa di riforma è stata avviata nel 2010 con una consultazione popolare nella quale i cittadini europei sono stati chiamati a pronunciarsi su alcune questioni tra le quali la desiderabilità di una politica agricola comune e le aspettative sugli obiettivi della riforma; nell’ottobre 2011 la Commissione ha poi presentato una prima proposta, che è stata dibattuta dal Parlamento e dal Consiglio prima di essere approvata definitivamente nel corso del 2013. Tra le principali misure introdotte dalla riforma vi sono la distribuzione più equa delle risorse tra vecchi e nuovi stati membri, la promozione dell’attività agricola per gli agricoltori più giovani, incentivi per un’agricoltura più verde, meno burocrazia e la garanzia di prezzi più giusti per gli agricoltori. Infine, le risorse riservate alla Pac per il periodo 2014-20 sono pari al 38,9% del budget.
Inizialmente non era previsto che accanto al mercato comune vi fosse una forma di cooperazione anche nell’ambito della politica economica e monetaria. Tuttavia, politiche economiche e monetarie autonome rischiavano di compromettere l’integrazione economica europea; di conseguenza venne presto avvertita l’esigenza di coordinare tali politiche e venne avviato un processo che ha portato all’adozione del ‘serpente monetario’ nel 1972 (un accordo per mantenere un margine di fluttuazione predeterminato e ridotto tra le valute comunitarie e tra queste e il dollaro), all’istituzione del Sistema monetario europeo nel 1978 e all’Unione economica e monetaria, sancita con il Trattato di Maastricht (1992). Quest’ultima comprende il coordinamento delle politiche economiche dei membri, il coordinamento delle politiche fiscali tramite vincoli di debito e di deficit, una politica monetaria indipendente gestita dalla Banca centrale europea e la moneta unica, che comporta il trasferimento all’Eu di una tipica funzione sovrana degli stati.
L’Unione economica e monetaria è stata caratterizzata da più fasi: la prima, che ha avuto inizio nel 1990, prevedeva la libertà totale di circolazione dei capitali all’interno dell’Unione (abolizione del controllo sui cambi); l’aumento delle risorse destinate a correggere gli squilibri fra le regioni europee (fondi strutturali); la convergenza economica, grazie al controllo multilaterale delle politiche economiche degli stati membri. Nella seconda fase, avviata nel 1994, è stato creato l’Istituto monetario europeo (Emi), con sede a Francoforte, composto dai governatori delle banche centrali dei paesi dell’Eu; è stata realizzata l’indipendenza delle banche centrali nazionali e sono state introdotte le norme per la riduzione dei deficit di bilancio. Infine, la terza fase, dal 1999, ha visto la nascita della moneta unica: il 1° gennaio 1999, 11 paesi (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna) hanno adottato l’euro. A questi primi 11 paesi ha fatto seguito la Grecia il 1° gennaio 2001. Sempre dal 1999, la Banca centrale europea (Ecb) è subentrata all’Emi, diventando responsabile della politica monetaria dell’Unione. Il 1° gennaio 2002 sono stati messi in circolazione i biglietti e le monete in euro nei 12 paesi dell’eurozona. L’area dell’euro si è poi ingrandita con i successivi allargamenti dell’Eu: tra i paesi dell’allargamento del 2004, la Slovenia è entrata a far parte dell’area dell’euro nel 2007, seguita da Cipro e Malta nel 2008, dalla Slovacchia nel 2009, dall’Estonia nel 2011, dalla Lettonia nel 2014 e dalla Lituania nel 2015. Viceversa Regno Unito e Danimarca hanno negoziato uno status speciale: i protocolli allegati al Trattato che istituisce la Comunità europea conferivano loro il diritto di decidere se aderire o meno alla terza fase ed entrambi i paesi si sono finora avvalsi di questa clausola di esenzione. I rimanenti stati sono considerati membri con ‘deroga’, non avendo ancora soddisfatto le condizioni necessarie per accedere alla terza fase.
Per passare alla terza fase, ovvero l’ingresso nell’area dell’euro, ogni paese dell’Eu deve soddisfare cinque criteri di convergenza: il tasso di inflazione non può superare di più dell’1,5% la media dei tre stati membri con l’inflazione più bassa; i tassi di interesse a lungo termine non possono variare di più del 2% rispetto alla media dei tre stati membri con i tassi di interesse più bassi; il deficit di bilancio deve essere inferiore al 3% del pil; il debito pubblico non può superare il 60% del pil. Quest’ultima condizione si associa alla partecipazione di almeno due anni al meccanismo di cambio (Erm2).
Nel giugno 1997 il Consiglio europeo ha adottato il Patto di stabilità e crescita, che rappresenta un impegno permanente di stabilità di bilancio, obbligando i paesi membri a mantenere un rapporto tra deficit e pil inferiore al 3% e un rapporto tra debito e pil inferiore al 60%. Il 1° gennaio 2013 è invece entrato in vigore il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria, che prevede, tra le altre cose, l’inserimento nelle costituzioni nazionali del pareggio di bilancio e l’obbligo per tutti i paesi di non superare la soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del pil. Tuttavia, sebbene sia stato negoziato da 25 paesi dell’Eu (tutti i membri con l’eccezione di Regno Unito e Repubblica Ceca, mentre la Croazia non faceva ancora parte dell’Eu), l’accordo non fa formalmente parte del corpo normativo dell’Unione Europea. Parallelamente, la necessità di una riforma complessiva del quadro finanziario dell’Eu in risposta alle molteplici crisi ha portato alla creazione dell’Unione bancaria.
L'Unione bancaria rappresenta un indispensabile complemento dell'Unione economica e monetaria (Uru) e del Mercato interno, il cui scopo è di introdurre competenze uniformi in materia di vigilanza, risoluzione e finanziamento a livello dell’Eu e di imporre norme identiche alle banche dell'Eurozona. Tali norme hanno lo scopo di assicurare che le banche assumano rischi calcolati e paghino il prezzo - fino alla chiusura - degli eventuali errori commessi, evitando così che questo ricada sui contribuenti. L'Unione bancaria poggia su tre pilastri: 1) il Meccanismo di vigilanza unico (Ssm), 2) il Meccanismo di risoluzione unico (Sruvr) e 3) le connesse disposizioni in materia di finanziamento, che comprendono il Fondo di risoluzione unico (Srn), il Sistema di garanzia dei depositi (Das) e un meccanismo comune di backstop (linea di credito). I membri dell'area euro partecipano automaticamente all'Unione, ma anche gli altri stati possono aderirvi. Il Meccanismo di vigilanza unico (Ssm), che fa capo alla Bce, è competente per la vigilanza diretta delle 128 maggiori banche dell'area euro, ed è divenuto pienamente operativo a partire dal novembre 2014. Le autorità di vigilanza nazionali continuano tuttavia ad occuparsi della supervisione delle banche minori, ma sotto la responsabilità ultima della Bce. Il secondo pilastro dell'Unione bancaria, il Meccanismo di risoluzione unico (Srm), ha come principale finalità quella di assicurare nell'Unione bancaria una gestione efficiente degli eventuali fallimenti delle banche a un costo minimo per il contribuente e per l'economia reale. L'ambito di azione dell'Srm ricalca quello dell'Ssm: detiene la responsabilità ultima per tutti i casi di risoluzione bancaria nell'Eurozona anche se in pratica vige una distribuzione dei compiti tra Srm e autorità nazionali; l’Srm sarà direttamente responsabile per i casi transfrontalieri e per quelli attinenti alle banche di una certa importanza. Il terzo pilastro dell'Unione bancaria è costituito dal Fondo di risoluzione unico (Srf) - per tutti quei casi in cui né il contributo degli azionisti né quello dei creditori fosse sufficiente - e da un Sistema di garanzia dei depositi (Dgs), volto a tutelare i depositi fino a 100.000 euro.
I tre pilastri dell'Unione bancaria si basano su due serie di norme orizzontali applicabili a tutti gli Stati membri: i requisiti patrimoniali per le banche (pacchetto Crd lV) e le disposizioni della direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche (Brrd). Tali disposizioni recepiscono nel diritto europeo i requisiti prudenziali di capitali basati sui principi internazionalmente condivisi dell’accordo ‘Basilea III’. Nel complesso tali modifiche costituiscono uno dei principali progressi dell'Eu verso un'Unione economica e monetaria più integrata, affrontando in tal modo una delle maggiori debolezze dell'architettura europea evidenziate dalla crisi economico finanziaria.
Nei primi mesi del 2011 migliaia di persone della sponda sud del Mediterraneo si sono dirette verso la sponda nord, esercitando una pressione crescente sui sistemi di protezione e accoglienza di alcuni stati membri dell'Eu. Tali avvenimenti hanno mostrato che la politica di migrazione dell'Eu dispone di mezzi inadeguati ad affrontare alcune situazioni. In questo contesto, il Consiglio europeo straordinario dell'11 marzo 2011 ha richiesto l'invio di maggiori risorse da parte degli stati membri per Frontex e ha espresso la necessità di una fattiva solidarietà per i membri più direttamente interessati dai movimenti migratori. Nell'ottobre del 2013 centinaia di immigrati sono morti a largo di Lampedusa nel disperato tentativo di raggiungere l'Italia, la quale ha dato dunque inizio all'operazione unilaterale Mare Nostrum con l'obiettivo di affrontare l'emergenza umanitaria, salvare vite nel Mediterraneo e assicurare alla giustizia gli sfruttatori dell'immigrazione illegale. A fronte della chiusura dell'operazione a fine ottobre 2014, della sollecitazione dell'Italia e di un flusso eccezionale di immigrati nell'inverno 2014, l'Unione Europea ha dato via all’operazione Triton. coordinata da Frontex, con compiti e risorse molto più limitati della precedente Mare Nostrum. Nell'aprile del 2015 un nuovo naufragio al largo delle coste libiche ha causato più di 900 vittime, mettendo nuovamente in luce l'inadeguatezza delle misure europee. ln una serie di vertici straordinari i paesi Eu hanno quindi approvato un nuovo piano in dieci punti per potenziare Frontex e istituire pattugliamenti più efficaci nelle acque mediterranee. L'operazione Triton è stata immediatamente rafforzata e poco dopo sostituita dalla nuova Eu Navfor Med a guida italiana.
Le divergenze tra i membri dell'Eu hanno però impedito il raggiungimento di un accordo su un sistema di redistribuzione dei migranti in arrivo tra i diversi paesi europei. Solo con il cambiamento della posizione tedesca verso una politica di accoglienza, dovuto alla crescente pressione migratoria sia sul versante del mare Egeo (con una serie di naufragi alla fine dell'estate) sia lungo la rotta dei Balcani (in seguito all'apertura della frontiera macedone) soprattutto dalla Siria, è stato finalmente possibile approvare un piano di quote obbligatorie nel settembre 2015. Il piano prevede lo spostamento di quasi 120.000 rifugiati e richiedenti asilo da Grecia e ltalia verso gli altri paesi europei, inclusi i paesi dell'est Europa, la cui ferma opposizione ad accogliere i migranti è stata superata solamente a fine ottobre dopo ulteriori negoziazioni.
La libertà di circolazione delle persone è una delle quattro libertà su cui la Comunità europea si è sempre basata. Inizialmente mossa dall’obiettivo di consentire ai lavoratori di spostarsi negli stati membri in cui vi era domanda di lavoro, e poi estesa a tutti i cittadini dell’Eu, essa dà la possibilità di muoversi liberamente nell’Unione. Nel 1985 alcuni stati europei (Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi), al di fuori dell’ambito comunitario, hanno concluso l’accordo di Schengen che ha abolito i controlli alle frontiere interne. Contestualmente, per garantire la sicurezza all’interno dello spazio di Schengen, sono state potenziate la cooperazione e il coordinamento tra i servizi di polizia e le autorità giudiziarie. Nel tempo altri stati hanno aderito, tra i quali alcuni paesi extra-Eu come Svizzera, Norvegia e Islanda (con lo status di associati), e con il Trattato di Amsterdam (1997) tale accordo è entrato a far parte del quadro legislativo comunitario, sebbene alcuni paesi abbiano ottenuto di beneficiare di una clausola di opting out (Regno Unito e Irlanda). Durante il 2015 alcuni stati hanno temporaneamente sospeso Schengen e reintrodotto i controlli in virtù dell’ondata di flussi migratori.
Inoltre, a partire dal Trattato di Amsterdam l’Eu ha assunto competenze in materia di immigrazione e asilo. In particolare, la migrazione viene concepita come un’importante risorsa per le esigenze economiche dell’Unione e per i suoi crescenti squilibri demografici. Allo stesso tempo, tuttavia, si poneva la necessità di arginare i flussi irregolari e di gestire in maniera appropriata ed efficiente le molteplici domande di asilo, cresciute esponenzialmente negli anni Novanta a causa dei numerosi conflitti nell’immediato vicinato, in Medio Oriente e in Africa.
Il primo e più importante tassello di una politica comune in materia di migrazione e asilo è stato posto al Consiglio europeo di Tampere, in Finlandia, nel 1999. L’agenda di Tampere proponeva di affrontare in modo congiunto questioni riguardanti l’immigrazione legale e illegale e questioni riguardanti l’ammissione umanitaria. Aspetto cruciale dell’impianto di Tampere era il riconoscimento che questi temi necessitavano di un maggior coinvolgimento degli stati terzi di origine, con i quali istituire partnership che promuovessero un dialogo sulla gestione dei flussi migratori e possibilità di co-sviluppo. Una politica comune in materia di immigrazione irregolare acquisiva sempre maggior rilievo, e veniva strettamente associata alla costruzione di un’area di sicurezza, libertà e giustizia e alla realizzazione di un sistema di asilo e di ammissione legale credibili. Inoltre, dal 2005 l’agenzia Frontex ha rappresentato un importante strumento per la sicurezza dei confini esterni dell’Eu, pensata per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli stati membri con compiti di coordinamento, assistenza nella formazione delle guardie nazionali di confine, preparazione di analisi del rischio e organizzazione di operazioni di rimpatrio. Il potenziamento di misure di controllo al confine esterno dell’Unione avrebbe permesso di affrontare una serie di minacce in grado di oltrepassare i confini degli stati e mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini. Nel 2005 è stata poi elaborata una strategia per la dimensione esterna dell’area di sicurezza, libertà e giustizia che evidenziava le priorità politiche nelle relazioni con stati terzi, i principi e gli strumenti a disposizione per la cooperazione. Particolare enfasi veniva posta in un primo momento sulla cooperazione con il continente africano e in particolare con gli stati a sud del Mediterraneo. Una volta delineati i nuovi confini ad est dell’Unione e valutata l’adozione dell’acquis di Schengen da parte dei nuovi stati membri, l’approccio globale alla migrazione veniva esteso agli stati a est e a sud-est dell’Unione (2007). Data l’importanza della dimensione esterna per la gestione delle opportunità e delle sfide poste dalla migrazione, l’Eu si è dotata di una serie di strumenti e ha creato un network di relazioni a vari livelli.
Come già evidenziato, accanto all’obiettivo di una politica comune in materia di migrazione il Consiglio di Tampere caldeggiava la creazione di un sistema comune di asilo europeo che armonizzasse le politiche degli stati membri in materia. Dati i massicci flussi di persone in cerca di protezione e dato l’obiettivo dell’Unione di promuovere ed essere garante del rispetto di fondamentali diritti umani, lo sviluppo di un sistema di protezione condiviso dagli stati membri rivestiva una particolare importanza. Nel 2010 è stato istituito l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, i cui principali compiti sono quello di intensificare la cooperazione pratica tra i paesi membri in materia di asilo (scambio di informazioni e best practices), di sostenere un paese membro sottoposto a particolari pressioni, dovute all’afflusso massiccio di cittadini di paesi terzi aventi potenzialmente bisogno di protezione, e infine di contribuire alla creazione di un sistema comune europeo di asilo (Ceas), sistema in vigore dal 2013.
La politica regionale rappresenta uno strumento di solidarietà finanziaria e una potente forza di coesione e integrazione economica. Già alle origini del processo di integrazione europea erano previsti alcuni strumenti finanziari e iniziative per affrontare gli squilibri economici e sociali a livello comunitario, ma solo nel 1975 è stato creato il Fondo europeo di sviluppo regionale, mentre con l’Atto unico europeo del 1987 è stata formalmente introdotta una politica di coesione integrata. Nel 1988 il Consiglio adottò un regolamento volto a integrare i fondi strutturali nell’ambito della politica di coesione, introducendo così alcuni principi chiave, come focalizzare il sostegno sulle regioni più povere e arretrate, svolgere una programmazione pluriennale, promuovere un orientamento strategico degli investimenti, coinvolgere partner regionali e locali. In seguito, il Trattato di Maastricht creò un nuovo strumento, il Fondo di coesione, e una nuova istituzione, il Comitato delle regioni, introducendo inoltre il principio di sussidiarietà, in base al quale l’Eu interviene in quei settori che non sono di sua esclusiva competenza solo quando la sua azione è considerata più efficace di quella intrapresa a livello nazionale, regionale o locale, senza andare oltre quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi fissati.
Con l’ingresso di Austria, Finlandia e Svezia nel 1995 venne definito un ulteriore obiettivo, consistente nel promuovere lo sviluppo delle regioni scarsamente popolate nella penisola scandinava. Inoltre, il successivo allargamento ai paesi dell’Europa centrorientale ha comportato un aumento delle disparità di reddito e di occupazione tra i membri (attualmente, una regione su quattro ha un pil pro capite inferiore al 75% della media dell’Eu a 28) e numerosi membri entrati nel 2004 sono stati inclusi nel cosiddetto Obiettivo 1, che li rendeva destinatari del maggior livello di sostegno da parte dei fondi strutturali e di coesione. La politica di coesione per il periodo 2014-20 prevede circa 351 miliardi di euro di risorse da investire nelle regioni e nelle città europee e si concentra sulla creazione di posti di lavoro e sulla crescita economica.
Tra gli strumenti adottati è opportuno menzionare i 'partenariati per la mobilità’, che creano un dialogo tra l'Unione, determinati paesi membri e paesi terzi su questioni legate alla migrazione legale, alla migrazione illegale e al rapporto tra migrazione e sviluppo; i ‘profili migratori', volti a fornire informazioni sulla situazione migratoria di specifici paesi terzi; la 'migrazione circolare' che presuppone una mobilità generalmente temporanea tra paesi di origine e di destinazione, legata ai fabbisogni del mercato del lavoro e proficua per entrambe le parti.
Gli accordi di riammissione rappresentano un altro strumento attraverso il quale l’Unione coordina le sue azioni con quelle di paesi terzi di origine (ma a volte anche di transito) per il rimpatrio ordinato e sicuro di immigrati irregolari in cambio di una politica più flessibile in materia di visti. Ultimi accordi firmati sono stati quelli con la Turchia (2014), Capo Verde, Azerbaigian e Armenia (2014); restano ancora in itinere tra gli altri quelli con Algeria e Cina, la cui negoziazione è già stata autorizzata dal Consiglio. I'Unione ha inoltre cercato dí stabilire un dialogo regolare con partner regionali. Esistono infatti vari contesti in cui vengono trattate le questioni collegate alla migrazione, come per esempio nei Eu-Ecowas Ministerial Troika Meetings, nelle conferenze ministeriali Eu-Africa, nei piani della politica europea di vicinato, nel partenariato Euro-Mediterraneo. La conferenza ministeriale di Praga del 2009 ha inaugurato un dialogo incentrato sulle migrazioni dall’Europa orientale, Lo stesso anno è stato inaugurato un dialogo con America Latina e paesi caraibici (Eu-Lac Dialogue on Migration) e con lAsia (attraverso il contesto Eu-Asem). Sulla scia dei precedenti programmi, nel 2014 il Consiglio dell'Eu ha approvato le linee guida su giustizia e affari interni per il periodo 2015-2019. Proseguendo nella direzione delineata dall’approccio globale alla migrazione, le nuove linee guida insistono sulla necessità di gestire in modo coordinato politiche migratorie, di sviluppo e relazioni esterne dell’Unione.
lnfine, degno di nota è l’accordo raggiunto con la Turchia nel novembre del 2015 proprio per affrontare l'emergenza migratoria. Nel Piano d'azione comune concordato con Ankara è previsto l'invio di 3 miliardi di euro di aiuti al governo turco per l’assistenza umanitaria agli oltre 2 milioni di profughi presenti sul suolo turco.
Originariamente una politica di competenza degli stati membri, a partire dall’Atto unico europeo del 1987 la ‘dimensione sociale’ ha acquistato un’importanza crescente e oggi l’Eu svolge un ruolo propulsivo in campo sociale ed è fautrice di un quadro normativo inteso a tutelare i cittadini europei. L’Eu incoraggia la cooperazione fra gli stati membri, il coordinamento e la convergenza delle politiche nazionali, la partecipazione delle autorità locali, dei sindacati, delle organizzazioni dei datori di lavoro e di tutti gli attori coinvolti. La politica dell’Eu in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente; protezione della salute umana; utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio esprimibile con la massima ‘chi inquina paga’. Oggi le priorità sono la lotta ai cambiamenti climatici, la tutela della biodiversità, la riduzione dei problemi di salute derivanti dall’inquinamento e l’utilizzo responsabile delle risorse naturali. In questo contesto, nel 2008 gli stati membri hanno approvato un ampio pacchetto per la riduzione delle emissioni di CO2 che mira a ridurre le emissioni del 20% (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2020, ad aumentare la quota di energia rinnovabile del 20% e di ridurre il consumo di energia del 20% (rispetto all’andamento atteso). Dal gennaio 2014 l’Unione ha adottato, su proposta della Commissione, un programma d’azione per l’ambiente che guiderà le politiche dell’Eu fino al 2020. Il piano, dal titolo ‘Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta’, fissa un’agenda strategica e individua i principali obiettivi da realizzare entro il 2020, tra cui l’intensificazione degli sforzi tesi a proteggere il capitale naturale europeo, stimolare la crescita e l’innovazione a basse emissioni di carbonio ed efficienti nell’uso delle risorse e salvaguardare la salute e il benessere della popolazione, nel rispetto dei limiti naturali della Terra. Nel lungo termine, l’Eu ha obiettivi ancor più ambiziosi che prevedono una riduzione del 40% di gas serra entro il 2030 e dell’80% entro il 2050 rispetto ai valori del 1990.
L’azione esterna dell’Eu si pone come principali obiettivi la salvaguardia dei valori, degli interessi fondamentali, della sicurezza, dell’indipendenza e dell’integrità dell’Unione; il consolidamento dei principi democratici e dei diritti umani; il mantenimento della pace; la promozione dello sviluppo sostenibile dei paesi in via di sviluppo e di un sistema internazionale basato su una cooperazione multilaterale rafforzata e il buon governo mondiale.
Uno dei pilastri dell’azione esterna è la politica commerciale, comune fin dalle origini, che è andata nel tempo ampliandosi notevolmente. Essa include modifiche tariffarie, la conclusione di accordi tariffari e commerciali, l’uniformazione delle misure di liberalizzazione, la politica di esportazione e le misure di difesa commerciale e, con il Trattato di Lisbona, è stata estesa agli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e agli investimenti diretti esteri. Con l’espansione del commercio internazionale la politica commerciale comune ha assunto un’importanza sempre maggiore: l’Eu a 28, infatti, conta oggi per oltre il 16% delle importazioni ed esportazioni mondiali di beni e servizi, e sebbene tale quota sia diminuita durante lo scorso decennio, l’Eu continua ad essere il primo attore commerciale al mondo. Grazie a tale primato l’Eu ha concluso accordi commerciali bilaterali con numerosissimi paesi e altre zone di integrazione regionale e, potendosi esprimere con una voce unica all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), l’Eu ha un peso determinante sui negoziati commerciali internazionali. Ed è proprio in virtù di questi strumenti, e della propria rilevanza in campo economico e commerciale, che l’Eu è stata in grado di perseguire alcuni obiettivi di politica estera quali l’allargamento ai paesi dell’Europa centro orientale, la stabilizzazione dei Balcani, il consolidamento delle relazioni con i paesi del vicinato.
Anche la cooperazione allo sviluppo e gli aiuti umanitari sono una componente cruciale dell’azione esterna dell’Unione. Tali politiche mirano a ridurre la povertà dei paesi in via di sviluppo, con particolare attenzione ai nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile definiti nel settembre 2015, nonché a promuovere i valori democratici e alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite da crisi o calamità naturali. Attualmente, oltre la metà degli aiuti ai paesi in via di sviluppo proviene dall’Eu e dai suoi stati membri, facendo dell’Unione il maggiore donatore a livello mondiale. Più difficile è stato lo sviluppo di una cooperazione su materie prettamente politiche, sebbene essa sia fondamentale per rendere efficace e consolidare l’avanzata integrazione economica. Già negli anni Settanta i membri dell’allora Comunità economica europea avevano avviato una forma di cooperazione in materia politica. Una politica estera e di sicurezza comune è poi stata introdotta formalmente con il Trattato di Maastricht nel 1992. La politica estera e di sicurezza comune è però soggetta a norme e procedure specifiche: essa risponde a un meccanismo più intergovernativo che comunitario, in quanto è generalmente definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio dei ministri degli Esteri all’unanimità, l’adozione di atti legislativi è esclusa e la Corte di giustizia non ha giurisdizione in materia. Nel Trattato di Lisbona la politica estera e di sicurezza è stata rafforzata, anche per mezzo della creazione dell’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Un’altra novità introdotta dal Trattato di Lisbona è il Servizio europeo per l’azione esterna, una sorta di ministero degli esteri dell’Eu, che ne gestisce la politica estera e l’attività diplomatica. Infine, il Trattato di Lisbona ha recepito gli sviluppi avvenuti nel corso degli anni 2000 nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, che fornisce un quadro di cooperazione grazie al quale l’Eu può svolgere missioni operative in paesi terzi, volte a mantenere la pace e a rafforzare la sicurezza internazionale.
Il bilancio Eu può contare su diverse fonti di finanziamento, costituite, oltre che dai contributi diretti dei paesi membri, anche da dazi all’importazione su prodotti provenienti dall’esterno dell’Unione e da una percentuale dell’iva riscossa da ciascun paese membro. I due terzi del bilancio Eu, tuttavia, sono costituiti dallo 0,73% del reddito nazionale lordo di ogni stato membro. Altre entrate sono rappresentate dalle imposte sui redditi del personale, dai contributi di paesi extra Eu ad alcuni programmi europei e dalle multe inflitte alle imprese che violano la normativa europea. L’approvazione del bilancio è decisa dal Parlamento e dal Consiglio. Uno dei principi fondamentali è che la spesa deve corrispondere a un’entrata e nella prassi vi è un surplus che viene usato per ridurre il contributo dei membri sul bilancio per l’anno successivo.
di Enrico Fassi
Le politiche di vicinato rappresentano forse l'esempio più nitido di quella che è oggi l'azione esterna dell'Unione europea intesa nel suo significato più ampio e al contempo più ambizioso, ovvero come il tentativo dell'Eu di incidere sul contesto internazionale attraverso l'utilizzo di un insieme di strumenti specifici e distintivi. Sin dagli albori del processo di integrazione, e nonostante le rigidità strategiche imposte dalla Guerra fredda, l'Europa delle Comunità ha infatti saputo sviluppare una propria modalità di azione internazionale 'con altri mezzi', basata sulla forza che gli derivava dal successo dell'integrazione economica e che gli è valsa l'appellativo di potenza civile. Sebbene proprio sul terreno della cooperazione alla sicurezza si siano registrati, nell'ultimo decennio, notevoli sviluppi, la politica estera dell'Unione ha continuato a essere marcata da un'impostazione incentrata sull'utilizzo di strumenti 'civili' quali l'assistenza tecnica e umanitaria, la cooperazione economica, la promozione della democrazia e dei diritti umani.
Il grande allargamento del 2004-2002 che ha visto l'ingresso nell'Eu di 12 nuovi membri, ha rappresentato per certi versi l'apice, e ad oggi il maggior successo, di tale strategia: attraverso il processo di europeizzazione dei paesi canditati, I'Unione ha profondamente inciso sulle loro traiettorie di transizione, trasformando un problema di politica 'estera' - l'instabilità causata dal dissolvimento del blocco sovietico - in un problema di politica 'interna' all'Eu. Al contempo, proprio tale allargamento ha avuto l'effetto di avvicinare ulteriormente il limes dell'Unione a un'area geopolitica estremamente complessa, che si estende dal Baltico al Mar Nero ed al Mar Caspio a Est, ed abbraccia l'intera sponda meridionale del Mediterraneo a Sud.
La Politica Europea di Vicinato (Pev), lanciata nel 2003, nasce esattamente per rispondere alle formidabili sfide che si profilavano ai confini della nuova Europa: da un lato, il rischio che l'allargamento creasse nuove e insanabili fratture tra insiders e outsiders; dall'altro, nel contesto della guerra globale al terrorismo lanciata dagli Usa, la necessità per l'Eu di definire e implementare una propria strategia di sicurezza globale ma articolata, innanzitutto, sul piano regionale. Tale iniziativa si rivolge infatti ai nuovi stati confinanti con l'Eu sul versante orientale (Ucraina, Bielorussia, Moldavia) e del Caucaso (Armenia, Azerbaigian e Georgia), così come ai 10 partner mediterranei già coinvolti nel Partenariato Euro-Mediterraneo (dal Marocco alla Siria). Analogamente a quanto avvenuto con l'allargamento, l'obiettivo della Pev era - e rimane - quello di promuovere e assistere le riforme economiche (liberalizzazione) e politiche (democratizzazione) di questi paesi, perseguendo un processo di convergenza che garantisca una sicurezza sostenibile nell'area del Vicinato. Anche i meccanismi sono simili, essendo basati su un'offerta di cooperazione economica ancorata alla logica della condizionalità: sia 'negativa', per cui il mancato raggiungimento degli obiettivi dovrebbe portare alla sospensione del processo, sia 'positiva', per cui a fronte di un maggiore impegno l'Eu è pronta a concedere maggiori benefici. Tuttavia, gli incentivi disponibili appaiono profondamente diversi da quelli dell'allargamento, in quanto la Pev non implica la prospettiva della piena membership, ma vuole anzi porsi come un'alternativa. Nel breve periodo tali paesi possono comunque beneficiare di relazioni rafforzate con l'Eu grazie alla possibilità di partecipare ad alcune attività e godere di una maggiore cooperazione politica, economica e culturale. Nel medio-lungo periodo I'Unione offre poi l'opportunità di una relazione più stretta, che comporti «un livello significativo di integrazione economica e l'approfondimento della cooperazione politica»».
Ad oltre un decennio dal loro avvio, le politiche di vicinato sembrano mostrare diverse debolezze. A Sud, nonostante il tentativo di rilancio tramite l'Unione per il Mediterraneo, sono emersi chiaramente i limiti di una strategia fondata sulla cooperazione a livello di élite, su una concezione imposta dall'alto dei processi di democratizzazione e sulla priorità assegnata de facto alla stabilità nel breve periodo. Se l’obiettivo era quello di una transizione progressiva, controllata e incruenta dei regimi mediorientali, non si può certo affermare che con le primavere arabe tale risultato sia stato pienamente raggiunto. A Est, a tali fattori si aggiungono la maggiore ambiguità rispetto alle prospettive di membership, la competizione con progetti geopolitici alternativi (in primìs quelli di una Russia tornata ad essere forte e assertiva) e soprattutto il parziale scollamento tra il progetto di sicurezza perseguito dall'Eu - progetto di lungo periodo, 'trasformativo', centrato sulle cause strutturali delle minacce - e la dimensione hard della sicurezza, di fatto ancora pienamente appaltata alla Nato. Dopo la crisi Ucraina, forse culminata con l'annessione russa della Crimea, ma certamente ancora lontana dall’essere risolta, l'Eu si trova quindi costretta a ripensare criticamente le proprie politiche verso l'area del Vicinato: conscia che gli strumenti civili saranno senza dubbio parte di una possibile soluzione, ma all'interno di un'equazione probabilmente molto più complessa di quanto a Bruxelles si potesse immaginare un decennio fa.