Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le colonie britanniche nel continente americano e nei Caraibi rappresentano nel Settecento la componente più dinamica, dal punto di vista demografico, economico e politico, della presenza europea nel Nuovo Mondo. Le colonie inglesi presentano comunque fra loro forti differenze, in particolare fra quelle settentrionali, dove la popolazione è costituita da piccoli coltivatori indipendenti ma dove si verifica anche una forte crescita artigianale e commerciale, e quelle del sud e dei Caraibi, fondate su di un’economia di piantagione schiavistica. La guerra dei Sette annisancisce il predominio inglese anche in America ma, a causa dei suoi alti costi e delle divergenze sulla gestione dei territori conquistati, avvia una grave crisi fra coloni americani e governo britannico che sfocerà nella rivoluzione.
Lo sviluppo demografico delle colonie inglesi
All’inizio del Settecento l’Inghilterra è, per numero di abitanti, la seconda potenza coloniale europea nelle Americhe. Nel 1713, con il trattato di Utrecht, che conclude la guerra di successione spagnola, l’Inghilterra espande e rafforza ulteriormente la sua presenza, soprattutto a spese della Francia che cede agli Inglesi Terranova, la Nuova Scozia (Acadia per i Francesi) e la baia di Hudson. La Spagna, inoltre, cede all’Inghilterra l’asiento, il monopolio della tratta degli schiavi neri dall’Africa.
Nel corso del secolo la popolazione delle colonie dell’America settentrionale, dal New England alla Georgia, aumenta a ritmi molto rapidi, soprattutto grazie all’afflusso di immigrati dall’Europa attratti dalle prospettive economiche ma anche dalla maggiore libertà personale di cui godono i coloni. Solo tra il 1690 e il 1750 si trasferiscono nelle colonie del continente circa 250 mila persone. La popolazione delle colonie – 13, dopo il distacco del Delaware dalla Pennsylvania nel 1702, la separazione del Nord e Sud Carolina nel 1730 e la costituzione della colonia della Georgia nel 1732 – passa da poco più di mezzo milione nel 1710 a 2 milioni nel 1760 per raggiungere i 4 alla fine del secolo, negli Stati Uniti ormai indipendenti.
Ad alimentare la crescita, più ancora degli Inglesi, sono gli immigrati provenienti dalle aree più povere del Regno Unito, la Scozia e l’Irlanda, ai quali si uniscono anche Tedeschi, che si sovrappongono alle comunità olandesi, danesi e ugonotte. A differenza di quella delle colonie spagnole, compattamente iberica e cattolica, la popolazione bianca delle colonie britanniche si presenta quindi estremamente variegata dal punto di vista etnico, linguistico e anche religioso.
Al nord le quattro colonie che formano il New England (Massachusetts, Rhode Island, Connecticut e New Hampshire) sono società fondate sul modello delle comunitàpuritane, etnicamente e culturalmente omogenee, improntate al radicalismo religioso. Al centro le colonie di New York, Pennsylvania, Delaware e New Jersey, popolate in origine da Svedesi e Olandesi e in seguito da Inglesi e Tedeschi, sono società più tolleranti e pluraliste di quelle del New England, dove si diffondono ordinamenti giuridici più liberali (Pennsylvania). Al sud si trovano le cinque colonie più ricche: Virginia, North e South Carolina, Maryland e Georgia. Quest’ultima popolata, come la Louisiana francese, da emarginati ed ex carcerati.
La crescita demografica e lo sviluppo economico si riflettono anche nell’aumento di dimensioni delle principali città, Boston, Philadelphia, New York che con poco più di 10 mila abitanti nel 1740, nel 1800, con oltre 80 mila, è la più importante città del nuovo Stato.
Sviluppo economico e società: le colonie settentrionali
Le colonie della corona britannica in America sono tra loro molto diverse anche per quanto riguarda la fisionomia economica e la struttura sociale.Le colonie del New England e del centro, sviluppatesi in un ambiente e in condizioni climatiche non troppo diversi da quello dell’Europa, sono fin dall’inizio colonie di popolamento. Se in origine si trattava soprattutto di piccole comunità di agricoltori indipendenti o di affittuari, nel corso del secolo l’importanza del settore manifatturiero e commerciale cresce rapidamente.
La crescita frenetica delle imprese commerciali permette ai mercanti più intraprendenti spettacolari ascese sociali e provoca altrettanto spettacolari cadute. Fonte di enorme ricchezza per i porti del centro e del nord sono i traffici di contrabbando con le Antille, grandi produttrici di zucchero, per aggirare i dazi doganali imposti dall’Inghilterra. Ma è fiorente anche il commercio che coinvolge triangolarmente le colonie, i Caraibi e l’Inghilterra: i prodotti del Sud (tabacco, riso, indaco), il rhum distillato nelle città della Nuova Inghilterra e lo zucchero delle Antille vengono scambiati in patria con manufatti inglesi. Nella traversata di ritorno le navi attraccano lungo le coste dell’Africa occidentale per comprare schiavi da rivendere nelle piantagioni. Le colonie devono molta della loro ricchezza al fatto di aver goduto dei privilegi del sistema economico inglese in espansione; nei primi tempi, infatti, la madrepatria ha garantito uno sbocco sicuro ai loro prodotti agricoli e ha coperto i loro eventuali debiti sui mercati europei. Nonostante i lacci della legislazione mercantilistica, l’economia coloniale è fiorente proprio grazie al suo inserimento nell’area di influenza inglese. Ma con il passare del tempo diventa insostenibile ed economicamente controproducente l’obbligo di intrecciare relazioni commerciali esclusivamente con gli Inglesi. Ancor più intollerabile è il divieto di produrre localmente manufatti che possono essere acquistati nella madrepatria. Numerosi provvedimenti presi dalla corona nel corso del secolo sono finalizzati alla difesa delle manifatture inglesi dalla concorrenza americana: nel 1718 viene proibito alle maestranze specializzate di emigrare nelle colonie; nel 1732 l’Hat Act proibisce l’esportazione in Europa di cappelli confezionati in America. Anche la maggiore importanza del mercato interno, le nuove acquisizioni territoriali e soprattutto l’espansione dell’industria americana mutano l’atteggiamento dei coloni. La Pennsylvania diventa una delle principali produttrici di ghisa di alto forno; l’industria cantieristica del Massachusetts, dove sono più bassi i costi del legname e del trasporto, rivaleggia con successo con quella britannica, il 30 percento della flotta inglese è di fabbricazione americana.
Le colonie di piantagione e la tratta degli schiavi
Le colonie più meridionali, e ancor più le isole dei Caraibi di cui gli Inglesi si sono impadroniti nel corso del Seicento, offrono un quadro completamente diverso, simile per molti versi a quello delle colonie portoghesi dell’America meridionale o a quelle spagnole di Cuba e Venezuela. Si tratta infatti di colonie la cui base economica sono le piantagioni di prodotti tropicali da esportare soprattutto inEuropa – zucchero, tabacco, cotone – che richiedono un massiccio ricorso al lavoro degli schiavi africani. Nel corso del Settecento le esportazioni dalle colonie inglesi verso la madrepatria quasi decuplicano e ad esse i prodotti di piantagione e lo zucchero in particolare contribuiscono in misura assolutamente preponderante.
La crescita della produzione e delle esportazioni si riflette in quella della popolazione di schiavi, sia in termini assoluti che relativi. Nel 1700, per esempio, nelle Indie Occidentali britanniche si trovano 115 mila schiavi a fronte di 32 bianchi. Un secolo dopo i coloni bianchi – soprattutto piantatori, militari e funzionari – sono circa 45 mila ma gli schiavi africani poco meno di mezzo milione. La proporzioni sono meno drammaticamente squilibrate nelle più meridionali delle 13 colonie – Georgia, Virginia, Carolina e Maryland – ma anche qui il numero di schiavi è in fortissimo aumento. Nella seconda metà del secolo nel complesso delle colonie continentali si contano oltre 600 mila schiavi neri, pari a un quarto della popolazione totale e sono quasi tutti concentrati nelle quattro colonie del sud. Del resto, gli Inglesi, che dal 1713, con la pace di Utrecht, alla metà del Settecento sono titolari dell’asiento – ovvero del monopolio della tratta degli schiavi destinati alle colonie spagnole –, sono i protagonisti della tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico, surclassando Olandesi, Francesi e Portoghesi. Si calcola che durante il Settecento i negrieri europei abbiano deportato nelle Americhe più di sei milioni di individui con conseguenze demografiche, economiche e politiche gravissime per il continente africano. Nelle colonie inglesi, in particolare in quelle continentali, l’afflusso di schiavi ha conseguenze sociali e demografiche diverse da quelle che si hanno nelle colonie spagnole. Anche se le nascite di mulatti, risultato di varie forme di concubinaggio o di puro e semplice sfruttamento sessuale nell’ambito delle piantagioni, sono numerose, non si forma un gruppo etnico e sociale distinto. I mulatti sono semplicemente riassorbiti nella popolazione servile di colore. E molto rari, anche a causa del fatto che la popolazione indigena declina rapidamente, sono le unioni fra neri o bianchi e indiani. Laddove la società coloniale spagnola e portoghese è costituita da una gradazione pressoché continua di caste, risultato di unioni fra bianchi, indiani e neri, quella inglese è fortemente polarizzata in due gruppi contrapposti e impermeabili.
Istituzioni politiche, vita religiosa e cultura nelle 13 colonie
Nelle forme di governo e negli aspetti costituzionali le 13 colonie presentano una forte omogeneità. A un’assemblea elettiva con funzioni legislative sono affiancati un consiglio e un governatore che amministrano il potere esecutivo in nome del re. Governatore e consiglio sono entrambi di nomina regia, fatta eccezione per il Rhode Island e il Connecticut, dove vengono eletti dall’assemblea, e per il Massachusetts, dove solo il governatore viene nominato dal re. Le assemblee sono elette con criteri variabili a seconda dei luoghi: al sud votano in pratica solo i ricchi proprietari, al nord il diritto al voto è allargato a più settori della comunità. Lungo tutto il XVIII secolo le élite locali cercano in ogni modo di ampliare i poteri delle assemblee per sottrarre la gestione degli affari interni all’autorità imperiale e assumere così il controllo della politica economico-finanziaria delle colonie. Alla vigilia del conflitto con la madrepatria queste istituzioni costituiscono di fatto forme di governo rappresentativo, secondo la migliore tradizione inglese di autogoverno locale. Non è certo la ricchezza della madrepatria l’obiettivo per cui lavorano i coloni, che cominciano a considerare consuetudini inalienabili i privilegi politici strappati nel corso degli ultimi decenni. Negli anni Trenta e Quaranta del secolo un nuovo slancio religioso e un profondo fermento rinnovatore caratterizzano la partecipazione dei fedeli alla vita comunitaria, mentre la predicazione dei pastori e dei missionari è accompagnata ovunque da manifestazioni di esaltazione popolare. La vita religiosa americana viene scossa in profondità dal fenomeno del great awakening (“grande risveglio”), che coinvolge migliaia di coloni sparsi sul territorio. Anche in ambito culturale e scolastico gli anni centrali del secolo rivelano alcuni segnali di forte cambiamento. Il modello educativo al quale i coloni fanno inizialmente riferimento è quello della vecchia Inghilterra, ai cui sistemi si ispirano i ricchi proprietari del Sud nello scegliere i precettori dei loro figli. Ma i grandi college universitari del Nord, per esempio Yale (Connecticut), fondato nel 1701, e Princeton (New Jersey), fondato nel 1746, sono il prodotto dei desideri della comunità, che vede nell’istruzione e nell’educazione superiore un veicolo di ascesa sociale e di potenziale rinnovamento. Sono entrambi momenti assai significativi per la società americana del tempo, che costruisce intorno al fenomeno della mobilità delle sue gerarchie sociali uno dei suoi miti più duraturi.
La competizione franco-inglese nell’America settentrionale
Nella prima parte del XVIII secolo è la Francia la principale antagonista della Gran Bretagna in America settentrionale. La Francia possiede gli immensi territori del Canada e della Louisiana – diventata ufficialmente una colonia francese nel 1731 –, che si estende a ovest dei monti Appalachi, nel bacino del Mississipi, dalla regione dei Grandi Laghi fino al golfo del Messico. I coloni francesi sono però poco numerosi: tra il 1700 e il 1760 la popolazione del Canada passa da 15 a 70 mila abitanti e l’intera Louisiana conta solo poche migliaia di Francesi, in gran parte cacciatori di pellicce (trappeurs).
I Francesi cercano quindi di contenere l’espansione dei coloni inglesi verso l’interno del continente, innalzando una catena di forti e alleandosi con varie tribù indiane, come gli Uroni, che sono in questo modo coinvolti nella competizione fra potenze europee. Da questo momento in poi le azioni di guerriglia si susseguono quasi senza interruzione: prima nella valle dell’Ohio, poi intorno ai forti canadesi sul Mississippi, a sud, e sul San Lorenzo, a nord. All’inizio i Francesi fanno valere la loro superiore organizzazione militare. Nel 1754, ancor prima che si aprissero ufficialmente le ostilità di quella che sarebbe stata la guerra dei Sette anni, una spedizione al comando del giovanissimo George Washington viene duramente sconfitta.
A partire dal 1759, tuttavia, la superiorità numerica dei coloni inglesi e quella navale della flotta britannica, che di fatto isola i possedimenti francesi impedendo alla madrepatria di inviare rinforzi, fa pendere inesorabilmente la bilancia a favore di Londra. La Guadalupa e la Martinica sono conquistate dai Britannici. Nel 1759 cade Québec e nel 1760 si arrende anche Montréal. Neppure il tardivo intervento della Spagna, preoccupata dello strapotere inglese, riesce a ribaltare la situazione. Gli Inglesi riescono anzi a conquistare l’Avana e Manila, snodi nevralgici delle comunicazioni e dei traffici attraverso l’Atlantico e il Pacifico.
Il trattato di Parigi (1763) ratifica la vittoria degli Inglesi,che si impadroniscono della Florida, ceduta dalla Spagna, di tutto il territorio della Louisiana a est del Mississippi, del Canada e di alcune isole delle Antille. I Francesi riescono a recuperare le preziosissime isole dello zucchero –Martinica e Guadalupa – ma cedono quello che resta della Louisiana alla Spagna per compensare la perdita della Florida. La guerra dei Sette anni segna una svolta decisiva nella storia americana e mondiale perché inaugura la lunga stagione dell’egemonia mondiale inglese.
La questione indiana e i difficili rapporti con i coloni
Dopo la sconfitta dei Francesi, si pone il problema della gestione dei vasti territori acquisiti dalla corona britannica a ovest dei monti Appalachi, nella regione dei Grandi Laghi e nella valle dell’Ohio. Il continuo afflusso di coloni alla ricerca di terre da coltivare provoca la reazione delle tribù indiane. Nel maggio del 1763, Pontiac, capo della tribù indiana degli Ottawa, dà vita a un tentativo di insurrezione e assedia Detroit per sei mesi. La ribellione è alla fine soffocata dall’esercito britannico ma il governo inglese e preoccupato per gli oneri finanziari delle guerre con gli indiani e anche per il fatto che i coloni diretti ad ovest si sottraggano di fatto al controllo britannico. Nell’ottobre del 1763 il primo ministro britannico George Grenville promulga la cosiddetta Proclamation Line che vieta ai coloni di oltrepassare gli Appalachi per fondare nuovi insediamenti. Il provvedimento non è l’unico motivo di malcontento fra i coloni. Il territorio canadese, per esempio, che New York eMassachusetts avrebbero voluto annettersi, viene sottoposto al controllo diretto del governo inglese.
Inoltre ci sono gli aspetti finanziari ed economici. Lo sforzo bellico è stato molto oneroso per le finanze britanniche, mentre le colonie hanno contribuito in misura assai limitata e i progetti di difesa delle colonie comportavano costi (400 mila sterline) decisamente sproporzionati al contributo che le colonie stesse versavano alle casse britanniche, pari a circa 80 mila sterline. Il tentativo del governo britannico di indurre i coloni a contribuire maggiormente incontra ovviamente una decisa ostilità, tanto più che una volta rimossa la minaccia francese coloro che ormai sempre più si considerano americani sono meno interessati alla protezione dell’esercito di sua maestà. Inoltre, il rapido sviluppo manifatturiero e commerciale delle colonie accresce l’insofferenza per i provvedimenti di tipo protezionistico che il governo inglese adotta per difendere gli interessi della madrepatria e che ovviamente intralciano l’economia americana, soprattutto nei suoi rapporti con le colonie spagnole e portoghesi. La reazione dei coloni si esprime, oltre che in frequenti tumulti, attraverso il boicottaggio dei prodotti inglesi, in forme di disobbedienza civile e il contrabbando dilagante. Di fronte a una reazione più forte del previsto, le autorità inglesi si dimostrano impreparate e alternano cedimenti a tentazioni autoritarie. Lo Stamp Act del 1765, che imponeva ai coloni l’uso di carta prodotta in Inghilterra recante un apposito marchio, rimane in pratica lettera morta e viene revocato l’anno seguente, quando però il Declaratory Act riafferma la sovranità del parlamento di Londra sui possedimenti americani. Il provvedimento pone un grave problema istituzionale, in quanto uno dei principi fondatori della monarchia britannica uscita dalla Gloriosa Rivoluzione è quello della legittimazione parlamentare del governo e nel parlamento di Westminster i coloni americani non sono affatto rappresentati. Nel periodo successivo alla guerra dei Sette anni dunque, per ragioni politiche ed economiche, il fossato fra la Gran Bretagna e le sue colonie si allarga progressivamente.