europeismo. Il federalismo
Europa unita, integrazione europea, Europa dei popoli, Europa delle patrie: queste espressioni sono frequentemente usate da uomini politici, giornalisti, pubblicisti. Non esprimono lo stesso concetto, ma sono utilizzate negli stessi contesti e vengono lasciate generalmente alla libera interpretazione dei lettori e degli ascoltatori. L’imprecisione non è casuale. I Paesi membri dell’Unione non sanno sempre quale Europa intendano costruire, ma sanno ciò che non vogliono, almeno per il momento, e preferiscono evitare definizioni troppo precise e, quindi, vincolanti. Dietro questo europeismo di maniera che tutti, più o meno, possono sottoscrivere, vi sono quindi diverse idee d’Europa. Il miglior modo per individuarle e probabilmente quello di risalire alla loro origine.
Sin dalla costituzione del Sacro romano impero gli europei hanno il sentimento di appartenere a una grande famiglia. Anche quelli che non riconoscono l’autorità dell’imperatore sono consapevoli dell’esistenza di una comune eredità linguistica, religiosa, istituzionale. I loro re sono «cugini», i loro conflitti sono percepiti come lotte intestine, le loro rivoluzioni politiche o religiose sono eventi in cui tutti vengono, prima o dopo, coinvolti. I movimenti artistici unificano il continente. La popolarità dei Tiepolo, di Tiziano e di Canaletto nelle corti europee, la diffusione del barocco, la voga delle ville palladiane, il melodramma, il neoclassico, il romanticismo, la disputa fra gli antichi e i moderni, il realismo e le avanguardie, dimostrano che le società europee crescono grazie a una continua reciproca imitazione. Quando lasciano il loro Paese, gli esuli non vanno, strettamente parlando, all’estero. Vanno ad alloggiare presso il cugino europeo dove possono meglio coltivare le loro idee e le loro speranze. È il caso dei calvinisti francesi in Germania, di Voltaire, Marx, Engels e Mazzini a Londra, di Heine, Chopin, Mickiewicz e i fuoriusciti italiani a Parigi.
Dopo la guerra dei Trent’anni, questo confuso intarsio europeo, dove un matrimonio può essere più importante di un trattato, ha lasciato il posto a Stati sempre più consapevoli della loro individualità e decisi ad affermare il principio di una sovranità piena e assoluta. Ma è interessante osservare che la lunga marcia verso lo Stato centralizzato e prevalentemente nazionale e accompagnata da un «contrappunto» europeo o internazionalista, vale dire dall’affermazione di ideali che dimostrano l’esistenza di una famiglia comune: il socialismo, l’anarchia e, beninteso, l’europeismo. F. Chabod, C. Curcio, J.-B. Duroselle e altri studiosi hanno ricostruito una sorta di albero genealogico dell’idea d’Europa, dall’abate C.I. Castel de Saint-Pierre a I. Kant, da C. Cattaneo a V. Hugo, da C. Lemonnier ad A. Brofferio. Vi è una idea di Europa, sia pure culturale più che istituzionale, nella Giovine Europa di G. Mazzini. Ma vi era anche, sia pure in termini religiosi e con spirito fortemente conservatore, nel testo del trattato della Santa alleanza.
Nel secolo dei nazionalismi e degli imperialismi il contrappunto europeo viene spesso alimentato da guerre, rivoluzioni e grandi eventi politici. La nascita degli Stati Uniti, la guerra di secessione svizzera del 1848, la guerra franco-prussiana del 1870 e soprattutto la Prima guerra mondiale suggeriscono a molti studiosi e a qualche uomo politico la convinzione che la dimensione nazionale non possa più garantire la pace e lo sviluppo del continente. Le convenzioni internazionali sulla guerra e il disarmo risalgono a una proposta lanciata dallo zar di Russia Nicola II; e il progetto della Società delle nazioni appartiene in buona parte al programma di W. Wilson. Ma lo stesso presidente americano riconosce l’influenza di Mazzini sul proprio pensiero politico e queste proposte trovano una eco immediata nel pacifismo di L. Bourgeois e di altri europei. Pace ed Europa diventano cosi temi paralleli e complementari.
L’unità dell’Europa è percepita come la sola prospettiva capace d’impedire quella che verrà chiamata d’ora in poi, sempre più frequentemente, la «guerra civile europea». Non basta.
Quanto più i progetti, dalle convenzioni di Ginevra alla Società delle nazioni, si dimostrano inefficaci, tanto più spontaneamente sorgono progetti più ambiziosi. Per quanto concerne l’Italia, in particolare, vi sono le interessanti considerazioni di L. Einaudi nelle sue Lettere di Junius, scritte per il Corriere della Sera fra il 1918 e il 1919, e il breve libro di G. Agnelli e A. Cabiati scritto nel 1918 (Federazione europea o Lega delle Nazioni?).
Ma il testo più appassionato e profetico è il Manifesto di Ventotene, scritto da E. Rossi e A. Spinelli all’inizio della Seconda guerra mondiale. In Europa, nel frattempo, un austriaco, R. Coudenhove-Kalergi, ha fondato nel 1923 un movimento che si propone di creare fra gli Stati europei un vincolo quasi federale. Il progetto di A. Briand, ministro degli Esteri francese dal 1921 al 1929, cerca di dare a questo progetto la forma di un trattato internazionale. Alla fine della Seconda guerra mondiale, quindi, esiste già una letteratura che ha studiato il problema dell’unità europea sotto il profilo politico, economico, istituzionale e può fornire agli uomini politici i materiali e gli strumenti di cui avranno bisogno. Ma il fattore decisivo, quello che maggiormente contribuisce a rendere l’unità un ideale concretamente perseguibile, è il sentimento di prostrazione e d’impotenza con cui i maggiori Stati europei escono dal conflitto. Non tutti, naturalmente, sono disposti a sacrificare interamente la propria sovranità, e alcuni Stati, in particolare, sperano che l’europeismo li aiuti a realizzare obiettivi nazionali. È il caso della Francia, decisa a fare dell’unità europea la piattaforma di cui ha bisogno per recuperare la leadership perduta. È il caso dell’Italia e della Germania, convinte che un progetto europeo possa far dimenticare più rapidamente la loro condizione di Paesi sconfitti. È il caso della Gran Bretagna che capisce l’utilità di un concerto europeo, ma non intende avventurarsi al di là del Consiglio d’Europa, nato da una iniziativa di Churchill, e di una grande zona di libero scambio. Queste ambiguità permettono di comprendere meglio gli alti e bassi del processo d’integrazione negli anni successivi, dalla nascita della CECA (Comunità europea per il carbone e l’acciaio) al fallimento della Comunità europea di difesa, dalla firma dei trattati di Roma al veto della Francia gollista contro l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità economica europea, dall’allargamento degli anni Settanta e Ottanta all’elezione diretta del Parlamento di Strasburgo, dalla creazione dell’Unione economica e monetaria alla Convenzione europea, dal fallimento del primo trattato costituzionale alla laboriosa approvazione del secondo.
Dietro ciascuno di questi eventi è facile leggere l’esistenza di numerosi europeismi e soprattutto la sopravvivenza di forti interessi nazionali. Il caso della Comunità europea di difesa è particolarmente interessante. All’inizio degli anni Cinquanta, quando gli Stati Uniti chiedono insistentemente il riarmo della Germania, la Francia è tendenzialmente contraria. Ma capisce di non potersi opporre alla richiesta americana e propone coraggiosamente la creazione di un esercito europeo. Pur di conservare la leadership, quindi, è pronta a rinunciare alla sovranità militare. Ma il trattato cade nel Parlamento di Parigi quando al voto contrario di alcuni deputati della maggioranza si sommano quelli dei comunisti e dei gollisti. Se l’europeismo è accettato e coltivato in funzione di un interesse nazionale piuttosto che supernazionale, le valutazioni possono divergere e il concetto di interesse può variare da un partito all’altro. È più importante conservare la guida del processo d’integrazione o mantenere la libera disponibilità delle proprie forze armate?
Il progetto federalista, chiaramente delineato nel Manifesto di Ventotene, diventa intanto sempre più minoritario. Se ne ebbe la dimostrazione quando A. Spinelli fu eletto al Parlamento europeo di Strasburgo e si dedicò alla redazione di una Costituzione per l’Europa. Il testo fu approvato dai deputati e lodato anche dai governi, ma silenziosamente accantonato. Sopravvive invece il funzionalismo europeo di J. Monnet, vale a dire la convinzione che la progressiva creazione di istituzioni europee concepite per risolvere con strumenti unitari un problema comune (l’agricoltura, la libera circolazione del denaro, della merce, delle persone, domani forse l’ambiente, l’immigrazione, l’energia) possa rimpicciolire gradualmente la sovranità dei governi a vantaggio dell’Unione Europea.
Questo europeismo pragmatico non ha bisogno di essere teorizzato perche si affida a quello che potremmo chiamare il volano dell’integrazione. I membri dell’Unione Europea sanno di non potersi mettere d’accordo sulla natura dell’obiettivo finale. Ma sanno anche, senza ammetterlo esplicitamente, che ogni progresso comporta, insieme alla soluzione di un problema, la nascita di nuovi problemi che non possono essere affrontati con criteri esclusivamente nazionali. Questo è l’europeismo di coloro che sanno di non potere dichiarare pubblicamente la loro fede federalista, ma sperano di riuscire a imprigionare l’Europa in una rete di regole e istituzioni comuni. Conviene riconoscere che il metodo non ha mai smesso di dimostrare una certa concreta efficacia. Ma presenta un inconveniente. Se la creazione di una istituzione o di uno strumento europei (per es. la moneta pubblica) crea inevitabilmente nuovi problemi che occorrerebbe affrontare con nuove regole europee (per es. la crisi finanziaria di un membro dell’Unione), il volano è messo continuamente alla prova da un acceso dibattito fra coloro che sono disposti ad andare avanti e coloro che vorrebbero cogliere l’occasione per tornare indietro. Ecco perche il volano può garantire, tutt’al più, un progresso costante ma lento e continuamente esposto al rischio di un incidente di percorso. Occorrerebbe una nuova fiammata di federalismo. Bisognerebbe che la parola federazione smettesse di essere, come negli scorsi anni, impronunciabile.
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