Europeismo
L'europeismo, inteso come movimento per l'unificazione europea, è nato nell'epoca delle guerre mondiali e ha ottenuto i suoi primi risultati concreti a partire dal 1948. Esso ha però una plurisecolare preistoria nell'idea dell'unità europea, il cui inizio viene generalmente individuato negli scritti di Dante Alighieri (De Monarchia, scritto fra il 1310 e il 1313) e di Pierre Dubois (De recuperatione Terrae Sanctae, scritto dopo il 1308). Da allora, fino all'epoca contemporanea, l'idea dell'unità europea ha il suo filo conduttore nell'esigenza di dare una risposta a un problema cruciale connesso con la formazione dei moderni Stati sovrani, avvenuta fra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna.
Da una parte gli Stati sovrani hanno rappresentato un decisivo progresso, in quanto il monopolio tendenziale della forza ha permesso all'autorità centrale dello Stato di eliminare gradualmente l'anarchia feudale e di garantire, quindi, un efficace ordinamento giuridico interno, che ha costituito la base di un grandioso sviluppo economico, sociale e culturale. Dall'altra, la sovranità statale assoluta ha significato la crisi definitiva delle autorità universali della Chiesa cattolica e dell'Impero e, di conseguenza, una situazione di strutturale anarchia sul piano internazionale con implicazioni chiaramente negative. Il meccanismo dell'equilibrio, che governa il sistema europeo degli Stati, si è rivelato in effetti capace di frustrare i tentativi egemonici messi in atto di volta in volta dai più potenti Stati del continente, ma non di impedire guerre periodiche, che sono diventate sempre più distruttive (e hanno messo in pericolo il progresso e la forza dell'Europa nel suo complesso) proprio perché lo Stato sovrano moderno ha prodotto un rafforzamento ininterrotto della potenza militare.
L'idea dell'unità europea, che propone il superamento dell'anarchia internazionale, ha cercato precisamente di dare una risposta a questo problema e non a caso essa ha avuto le sue più significative espressioni in coincidenza con le più gravi crisi del sistema europeo degli Stati. Individuato il filo conduttore generale della storia dell'idea dell'unità europea, occorre distinguere in essa due fasi: dal Medioevo allo scoppio della Rivoluzione francese e da questa al 1914. Nella prima fase le proposte di unità europea, essendo emerse in tempi in cui non era ancora venuta all'ordine del giorno della storia la realizzazione dei principî della democrazia moderna, concepiscono l'unità non come un'unione fra popoli visti come soggetti politici, bensì come un'unione di principi, vuoi in forma imperiale, vuoi in forma di lega priva di un sovrano superiore. Il momento di rottura rispetto a questa impostazione è rappresentato da Immanuel Kant, il quale, con il saggio Per la pace perpetua (1795), formulò per la prima volta nella storia il progetto di una federazione dei popoli, stabilendo un preciso legame fra la realizzazione del regime democratico all'interno degli Stati (a cui lo scoppio della Rivoluzione francese aveva dato un decisivo impulso storico) e la necessità di superare l'anarchia nei rapporti interstatali attraverso la creazione di un governo democratico soprannazionale. Egli ebbe in effetti una chiara visione delle implicazioni autoritarie dell'anarchia internazionale all'interno dello Stato, implicazioni dovute al fatto che tale anarchia impone il primato della sicurezza esterna dello Stato rispetto a ogni altra esigenza.
Meno chiara fu invece la sua visione del sistema istituzionale attraverso cui realizzare il governo democratico soprannazionale. Infatti, pur parlando di 'federazione', Kant non ebbe una conoscenza precisa dello Stato federale, il cui primo esempio nella storia era stato realizzato qualche anno prima con la Costituzione degli Stati Uniti d'America, redatta nel 1787 dalla Convenzione di Filadelfia, e la cui teoria era stata elaborata da Alexander Hamilton (The federalist, 1787-1788). La teoria dello Stato federale avrà, come vedremo, un'importanza centrale nel movimento per l'unificazione europea, in quanto questo tipo di Stato, concentrando nel governo centrale solo le competenze essenziali per il mantenimento dell'unità politica ed economica e lasciando agli Stati federati un'amplissima autonomia, rappresenta il sistema istituzionale che permette di organizzare la partecipazione democratica su scala continentale e, tendenzialmente, mondiale; permette cioè di unire le democrazie evitando gli inconvenienti dello Stato accentrato.
Pur mancando in Kant una precisa concezione istituzionale del federalismo, dopo di lui, anche se emergeranno ancora progetti di leghe fra principi, diventerà progressivamente dominante nell'idea dell'unità europea il principio dell'unione fra i popoli e, quindi, il legame indissolubile fra democrazia e unità europea, che costituirà una delle opzioni di fondo destinate a caratterizzare l'europeismo contemporaneo. Questo orientamento è chiaramente ravvisabile nei principali esponenti dell'europeismo ottocentesco: Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo e Victor Hugo. Fino al 1914, tuttavia, il discorso sull'unità europea non è destinato a compiere grandi progressi in quanto nell'epoca della formazione e dell'ascesa dei moderni Stati nazionali europei e dell'estensione del dominio coloniale dell'Europa, diventa a poco a poco dominante il nazionalismo.Questo orientamento esaspera i fattori di divisione e di conflittualità fra gli europei non solo sul piano politico, ma anche su quello spirituale; l'ideologia nazionale rappresenta infatti le moderne nazioni come delle comunità di sangue tendenzialmente incomunicabili fra loro e indebolisce quindi l'idea di una comunanza culturale europea legata all'universalismo cristiano e alla sua traduzione laica nell'internazionalismo che caratterizza le grandi ideologie politiche moderne: il liberalismo, la democrazia e il socialismo.
Il passaggio dell'europeismo dalla sfera del pensiero utopistico a quella dell'azione politica effettiva ha la sua fondamentale premessa storica nella crisi definitiva del sistema europeo degli Stati manifestatasi nell'epoca delle guerre mondiali. Questo sistema aveva già vissuto nel corso dell'età moderna gravissime crisi, scatenate dalle mire egemoniche prima degli Asburgo e poi della Francia e conclusesi con il ristabilimento di un sempre precario equilibrio. Le guerre mondiali, dovute alla spinta egemonica della Germania, rientrano in questa tendenza di fondo della storia dell'Europa moderna, ma allo stesso tempo conducono alla sua conclusione a causa delle loro specifiche caratteristiche.
Esse hanno anzitutto un carattere paurosamente distruttivo, in quanto sono combattute dai moderni Stati nazionali, capaci, con gli strumenti offerti dal modo di produzione industriale, non solo di produrre armi sempre più efficaci, ma anche di mobilitare a fini bellici tutte le risorse materiali e le energie spirituali delle società nazionali. Questa tendenza si accentua ulteriormente in seguito all'affermarsi dei regimi totalitari fascisti, i quali, portando all'estremo le caratteristiche più negative del nazionalismo, si traducono in un'esasperazione della distruttività materiale e morale della guerra, che culmina nella pratica del genocidio sistematico.
Ancora più decisivo è il fatto che per la prima volta l'Europa si dimostra incapace di ristabilire con le proprie forze l'equilibrio. Se in effetti nella sconfitta dei precedenti tentativi egemonici avevano avuto un ruolo decisivo potenze relativamente marginali rispetto al sistema europeo, come l'Inghilterra e la Russia, ma comunque facenti parte di esso, la sconfitta del tentativo egemonico tedesco dipende in modo determinante dalla forza di una potenza completamente esterna al sistema europeo, come gli Stati Uniti d'America, e di una potenza, come l'Unione Sovietica, che ha caratteristiche più eurasiatiche che europee.
Inoltre, se le precedenti ricostituzioni dell'equilibrio europeo avevano avuto come prezzo una lenta ma sistematica trasmigrazione del potere dal centro del sistema verso le aree periferiche, questa volta l'indebolimento dell'Europa raggiunge un grado tale da condurre alla perdita della sua stessa autonomia e, quindi, all'assorbimento del sistema europeo nel sistema mondiale degli Stati fondato sull'equilibrio bipolare USA-URSS. Questa situazione, che nel 1945 non era ancora percepita in tutta la sua portata, si chiarifica in modo inequivocabile con la guerra fredda e con la divisione dell'Europa nei due blocchi contrapposti, egemonizzati rispettivamente dalla superpotenza americana e da quella sovietica.
Proprio per queste caratteristiche, nel periodo fra il 1914 e il 1948 si realizza un salto qualitativo nello sviluppo storico dell'idea dell'unità europea. Mano a mano che la profondità della crisi del sistema europeo degli Stati si delinea con sempre maggiore chiarezza, si moltiplicano le prese di posizione a favore dell'unità europea con un crescendo culminante nel periodo della Resistenza, durante la seconda guerra mondiale, nel quale praticamente tutte le forze antifasciste, con l'eccezione dei comunisti (allora strettamente subordinati alla leadership sovietica, che rifiutava qualsiasi ipotesi di unità europea), esprimono un orientamento europeistico. A parte l'europeismo espresso dai partiti o da singole personalità, emergono nell'epoca delle guerre mondiali le prime concrete, anche se inefficaci, iniziative governative a favore dell'unificazione europea e nascono le prime organizzazioni aventi come unico obiettivo la lotta per l'Europa unita. Queste organizzazioni si diffondono in tutta l'Europa occidentale nei primi anni dopo il 1945 e diventano da allora una componente permanente del panorama politico di questa parte del mondo.
L'elemento comune delle prese di posizione e delle iniziative europeistiche nel periodo fra il 1914 e il 1948 è la convinzione che l'eliminazione definitiva delle guerre in Europa e, quindi, il passaggio dall'anarchia dei nazionalismi contrapposti a una situazione duratura di pacifica collaborazione fra gli Stati europei costituiscano la conditio sine qua non della sopravvivenza o della rinascita dell'Europa come entità autonoma e della ripresa non precaria del suo sviluppo civile e democratico. In questo orientamento generale, la cui tendenza di fondo si esprime nella formula "Unirsi o perire" coniata dal ministro degli Esteri francese Aristide Briand nel 1929, si delineano peraltro tre filoni principali ben distinti, che avranno un'influenza effettiva sugli sviluppi concreti del processo d'integrazione europea: il federalismo, il funzionalismo, il confederalismo.
La corrente federalista è quella che ha avuto un ruolo determinante nell'alimentare l'iniziativa dal basso, cioè non governativa, a favore dell'unificazione europea e nello stesso tempo ha fornito il contributo più rilevante alla chiarificazione teorica delle ragioni che rendono necessaria l'unificazione europea e delle strutture istituzionali sulla base delle quali essa può essere concretamente realizzata. Questa corrente ha tra i suoi principali esponenti Luigi Einaudi, la scuola federalista inglese (che ha dato vita, con la fondazione della Federal Union nel 1939, al primo movimento europeistico di chiaro orientamento federalista e i cui rappresentanti più validi sul piano intellettuale sono Lionel Robbins, lord Lothian e Barbara Wooton), e infine i federalisti italiani guidati da Altiero Spinelli.
Quest'ultimo gruppo, che è nato con la diffusione del Manifesto per una Europa libera e unita (elaborato nel 1941 nell'isola di Ventotene - dove erano confinati numerosi antifascisti - da Spinelli con la collaborazione di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni) e che ha fondato nel 1943 a Milano il Movimento Federalista Europeo, ha un'importanza centrale. Esso infatti organizzò durante la guerra vari incontri fra i resistenti europei di orientamento federalista - i quali avviarono il processo che nel dopoguerra portò alla costituzione dell'organizzazione continentale dei federalisti, cioè dell'Unione Europea dei Federalisti - e divenne quindi il nucleo direttivo della lotta federalista a livello europeo in tutto il corso del dopoguerra.
L'elemento distintivo della corrente federalista è costituito da una rigorosa e creativa utilizzazione degli insegnamenti della teoria dello Stato federale nell'analisi delle cause della crisi europea all'epoca delle guerre mondiali e nell'indicazione delle possibili soluzioni. Questa corrente ha il suo punto di partenza nelle critiche di Einaudi alla Società delle Nazioni nel 1918, le quali ne individuano il limite decisivo nel fatto di essere fondata sul mantenimento della sovranità statale assoluta, da lui considerata come la causa strutturale delle guerre. L'affermazione della necessità di avviare rapidamente l'unificazione federale europea si fonda su una visione originale (rispetto alle correnti ideologiche dominanti) del corso storico, che individua nella crisi dello Stato nazionale in Europa - cioè nella contraddizione fra l'evoluzione del modo di produrre, che, realizzando una crescente interdipendenza fra tutte le regioni del mondo, spinge alla creazione di entità statali di dimensioni continentali e, tendenzialmente, all'unificazione politica del genere umano, e le dimensioni storicamente superate degli Stati nazionali europei - la radice di fondo dei mali dell'epoca, cioè delle guerre mondiali e del fascismo. In sostanza, secondo questo punto di vista, le guerre mondiali rappresentano il tentativo di dare una soluzione imperial-egemonica al problema della decadenza dello Stato nazionale in Europa. In questo quadro il totalitarismo fascista appare, oltre che come la risposta antidemocratica di destra alla situazione di caos economico-sociale emergente nei paesi in cui si manifesta in modo più acuto il fenomeno generale della crisi dello Stato nazionale, come la scelta dello strumento indispensabile per una politica estera di esasperato espansionismo, e lo stesso razzismo come l'ideologia funzionale al disegno del dominio permanente di una nazione sulle altre nazioni europee.
Le disastrose conseguenze del sistema delle sovranità nazionali assolute indicano, secondo la corrente federalista, che c'è ormai una inconciliabilità strutturale fra il mantenimento di questo sistema e lo sviluppo in direzione della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Di conseguenza è indispensabile una unificazione europea, che, per essere democratica ed efficace, deve avere carattere federale, deve essere fondata cioè sul trasferimento della politica estera, della difesa, della moneta e dei settori strategici della politica economica a istituzioni soprannazionali, cioè a un governo, a un parlamento e a una corte di giustizia comuni. Soprattutto, la realizzazione della federazione europea diventa il compito prioritario rispetto al perseguimento degli obiettivi indicati dalle tradizionali correnti politico-ideologiche.
Viene pertanto superata l'impostazione propria dell'internazionalismo, che vede la pace e l'unità nei rapporti internazionali essenzialmente come una conseguenza automatica dei successi delle lotte liberali o democratiche o socialiste all'interno dei singoli Stati, e viene individuata - e questa acquisizione è merito soprattutto dei federalisti italiani - una nuova linea di divisione fra le forze del progresso e quelle della conservazione. Essa non si identifica più con la linea tradizionale della maggiore o minore libertà, della maggiore o minore democrazia, della maggiore o minore giustizia sociale da realizzare all'interno degli Stati, ma con la linea che divide i difensori della sovranità nazionale assoluta dai sostenitori del suo superamento attraverso una federazione europea, che deve essere intesa come prima tappa in direzione di una federazione mondiale.
La tesi della priorità dell'obiettivo di una federazione europea rispetto a quelli indicati dalle altre correnti ideologiche è integrata da una riflessione sulla strategia della lotta federalista, sviluppata soprattutto da Spinelli, che costituisce la ragione fondamentale per cui i federalisti italiani hanno saputo in questo dopoguerra assumere nei momenti decisivi un ruolo di guida delle forze federaliste di tutta Europa ed esercitare un'effettiva influenza sullo sviluppo dell'integrazione europea. Il nucleo centrale di questa riflessione è la convinzione che i governi nazionali siano destinati a essere nello stesso tempo gli attori principali dell'unificazione europea - non potendo questa progredire in ultima analisi se non attraverso decisioni dei governi democratici nazionali - e gli ostacoli al suo raggiungimento, tendendo oggettivamente chi detiene il potere nazionale a frenare un processo che implica il trasferimento di una parte sostanziale di tale potere a istituzioni soprannazionali.
Questa tendenza, viene precisato, è destinata a manifestarsi in modo più intenso nei corpi permanenti del potere esecutivo, quali la diplomazia e l'alta burocrazia civile e militare, che nel personale relativamente transitorio, cioè i capi di governo e i ministri. I primi infatti non solo sono i naturali depositari delle tradizioni nazionalistiche, ma, nel caso di trasferimenti di sovranità, subirebbero immediatamente limitazioni sostanziali in termini di potere e di status. Per i secondi la situazione è più complessa, in quanto essi sono espressione di partiti democratici, che hanno nelle loro piattaforme ideologiche una componente internazionalistica e più o meno genericamente europeistica, e in quanto hanno un rapporto diretto con l'opinione pubblica, la quale di fronte all'esperienza delle catastrofi prodotte dai nazionalismi è portata ad accogliere con crescente favore l'idea dell'unità europea.
Da questo atteggiamento strutturalmente contraddittorio, anche se interiormente articolato, dei governi nazionali di fronte al problema dell'unificazione europea discendono due conseguenze fondamentali per la lotta federalista. In primo luogo è indispensabile l'esistenza di una forza federalista autonoma dai governi e dai partiti nazionali, capace di sfruttare le contraddizioni di fronte a cui i governi vengono a trovarsi a causa della crisi storica degli Stati nazionali e dell'inadeguatezza della politica di unificazione europea con cui affrontano questa crisi, e in grado quindi di spingerli a fare ciò che spontaneamente non farebbero. La forza federalista deve avere come unico scopo la federazione europea e proporsi di riunire tutti coloro che accettano questo obiettivo come prioritario indipendentemente dai loro orientamenti ideologici; deve avere una struttura soprannazionale, in modo da imporre un programma e una disciplina comuni a tutti i federalisti d'Europa; deve infine instaurare un rapporto diretto con l'opinione pubblica, pur senza partecipare alle elezioni nazionali. In secondo luogo la costruzione dell'Europa unita deve avvenire attraverso una procedura costituente democratica, affidando cioè l'incarico di definire le istituzioni comuni ai rappresentanti del popolo, tramite la convocazione di un'assemblea costituente europea, e non alle diplomazie nazionali, che eserciterebbero fatalmente un ruolo frenante.
Per completare l'illustrazione della corrente federalista occorre ancora aggiungere che di essa fa parte anche il 'federalismo integrale', che si riallaccia agli insegnamenti di Pierre-Joseph Proudhon e ha i suoi più importanti esponenti nel francese Alexandre Marc, nello svizzero Denis de Rougemont e nell'olandese Henri Brugmans. La caratteristica saliente di questo orientamento è la tesi che le collettività tra cui realizzare legami di tipo federale non devono essere soltanto quelle di carattere territoriale, come gli Stati, le regioni e gli enti locali minori, bensì anche quelle di carattere funzionale-professionale. Il federalismo è cioè inteso come principio generale di organizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale e non semplicemente delle istituzioni politiche. Per quanto riguarda la lotta per la federazione europea, questo orientamento non ha una sua specifica proposta strategica, ma ha sempre oscillato, in sostanza, fra l'adesione alla linea dei federalisti italiani e il sostegno dell'approccio funzionalista.
La seconda corrente dell'europeismo che emerge nel periodo fra il 1914 e il 1948 è quella del funzionalismo, che avrà un'influenza particolarmente rilevante nel processo d'integrazione europea, poiché ispirerà la creazione delle Comunità europee. La teoria funzionalista dell'integrazione soprannazionale ha in comune con quella federalista l'obiettivo del superamento della sovranità assoluta, ma ritiene che, per superare le resistenze nazionali, occorra scegliere la via dello sviluppo graduale della cooperazione internazionale in settori o funzioni limitati, ma via via più importanti dell'attività statale, in modo da realizzare uno svuotamento progressivo e quasi indolore delle sovranità nazionali. I principi basilari di questa teoria sono stati formulati per la prima volta dall'economista romeno David Mitrany (A working peace system, 1943) attraverso una riflessione sull'esperienza organizzativa internazionale realizzatasi con istituzioni di carattere tecnico, quali l'Unione Telegrafica Internazionale, l'Unione Postale Internazionale, la Croce Rossa Internazionale, le istituzioni relative alla proprietà letteraria e industriale, e così via.Secondo questo autore l'integrazione delle attività umane al di là dei confini statali può realizzarsi efficacemente solo tramite la creazione di istituzioni di natura tecnica e non politica, dotate di poteri limitati di carattere amministrativo o economico, e con il compito di risolvere problemi specifici della società internazionale. Il controllo di una funzione dell'attività statale comporta di fatto il trasferimento di una porzione della sovranità a tali istituzioni e l'accumulazione nel tempo di tali trasferimenti parziali provoca, alla fine, il trasferimento della stessa sede dell'autorità.
Se a Mitrany si deve la prima formulazione teorica del funzionalismo, è merito fondamentale di Jean Monnet la sua traduzione in efficaci strumenti d'integrazione soprannazionale. Anzitutto egli fu l'ideatore degli organismi specializzati creati durante le due guerre mondiali per mettere in comune le risorse economiche e militari degli Alleati e rendere così più efficace il loro sforzo bellico. A questi organismi soprannazionali furono delegate competenze molto ampie sul piano economico e militare, ma essi le esercitavano nell'ambito delle direttive politiche ricevute dai governi nazionali e, cessato lo scopo per il quale erano stati creati, furono smantellati. Monnet si rese conto che il metodo da lui applicato durante la guerra avrebbe potuto essere applicato anche in tempo di pace e, in particolare, che il metodo funzionalista, che era stato concepito da Mitrany per far progredire l'integrazione mondiale ma non le integrazioni regionali, poteva essere adattato all'integrazione europea.
Concretamente il metodo da lui proposto nel dopoguerra consisteva nell'affidare l'amministrazione di alcune attività pubbliche a un'apposita amministrazione europea, la quale avrebbe ricevuto le direttive comuni dagli Stati nazionali che le avrebbero formulate in appositi trattati e in ulteriori decisioni intergovernative; questa amministrazione avrebbe dovuto, nell'ambito di tali direttive, essere separata e indipendente dalle amministrazioni nazionali. Le politiche nazionali da mettere in comune erano quelle destinate a produrre i più gravi motivi di rivalità tra gli Stati europei e quindi quelle relative al carbone e all'acciaio (allora considerati i due prodotti base dell'economia dei paesi industrializzati). Mettere la produzione e la distribuzione del carbone e dell'acciaio sotto regole comuni, applicate da un'amministrazione soprannazionale, avrebbe creato una solidarietà d'interessi così profonda e così centrale nella vita economica da spingere all'integrazione graduale del resto delle economie e, successivamente, delle fondamentali attività statali. L'unificazione realizzata dalle varie agenzie specializzate intorno a interessi concreti e a burocrazie soprannazionali efficienti avrebbe trovato alla fine il suo logico coronamento in una costituzione federale.
Nel periodo che stiamo qui considerando il funzionalismo, a differenza della corrente federalista, non ha dato vita a un movimento politico, ma si è espresso essenzialmente attraverso le iniziative individuali di Monnet, il quale divenne dapprima un consulente della classe politica, fu quindi, durante la seconda guerra mondiale, messo dagli Alleati a capo di una delle agenzie soprannazionali da lui ideate, e occupò infine nel dopoguerra l'importantissimo posto di capo del Commissariat du Plan della Francia. Dopo la fondazione della Comunità Europea per il Carbone e l'Acciaio, Monnet esercitò la sua influenza nel processo d'integrazione europea dapprima attraverso la posizione di presidente dell'Alta Autorità della CECA e successivamente attraverso la creazione nel 1955 del Comitato d'azione per gli Stati Uniti d'Europa (cui aderirono i massimi dirigenti e personalità di primo piano dei partiti e dei sindacati di orientamento europeistico), comitato che contribuì in modo sostanziale all'elaborazione dei Trattati di Roma e ai successivi sviluppi dell'integrazione comunitaria, e cessò la sua attività negli anni settanta.
La terza corrente dell'europeismo, nata nel periodo fra il 1914 e il 1948, è rappresentata dal confederalismo. La sua opzione fondamentale è un'unione europea fondata su meccanismi di mera cooperazione intergovernativa, che lascino intatta la sovranità statale assoluta, ma permettano ai governi nazionali di raggiungere decisioni concordate in alcune materie riconosciute di comune interesse. Alla base di questa impostazione c'è una visione del mondo contraddittoria. Da una parte c'è la percezione della novità della situazione storica, che impone il superamento dei metodi tradizionali della politica internazionale; dall'altra, c'è il condizionamento della tradizione nazionalistica, che spinge a concepire gli Stati nazionali forniti di sovranità assoluta come istituzioni storicamente insuperabili.
Vi è quindi la consapevolezza che, nell'epoca dell'ascesa degli Stati di dimensioni continentali, gli Stati nazionali europei non sono più in grado di affrontare in modo isolato e reciprocamente conflittuale i problemi di fondo e devono abituarsi a cooperare stabilmente. Nello stesso tempo non si comprendono le radici più profonde della crisi dello Stato nazionale e, quindi, il fatto che l'unione europea deve essere intesa solo come una tappa verso l'unione dell'intera umanità e non come una via attraverso cui riprodurre su più ampia scala le politiche fondate sull'egoismo nazionale. Inoltre le proposte di unione non solo tengono fermo il dogma dell'intangibilità della sovranità assoluta, ma sono anche generalmente accompagnate, in modo più o meno aperto, dall'idea del primato del rispettivo paese, da realizzarsi però non attraverso il dominio militare, bensì attraverso la guida di un concerto di nazioni indipendenti.
Non è casuale che questa corrente dell'europeismo annoveri fra i suoi più importanti e convinti esponenti alcuni statisti appartenenti ai più antichi e gloriosi Stati europei, in particolare Winston Churchill, Aristide Briand e Charles de Gaulle. E non è neppure casuale che l'idea di una confederazione europea sia congeniale alle diplomazie nazionali, le quali vedono appunto in essa una forma di cooperazione internazionale che non intacca minimamente la sovranità nazionale affidata alle loro cure e la base materiale del loro status. Pur con i suoi limiti, il confederalismo ha avuto comunque il merito di dare vita, nell'epoca delle guerre mondiali, alle prime iniziative europeistiche di alcuni governi, le quali, se pure non hanno avuto alcun esito pratico, hanno rappresentato importanti precedenti a cui hanno potuto richiamarsi le iniziative del secondo dopoguerra.
La prima di queste iniziative fu il Piano di unione europea presentato nel 1929 di fronte all'assemblea della Società delle Nazioni da Briand, che, boicottato dall'Italia fascista e dalla Gran Bretagna, si arenò definitivamente in seguito alla crisi e al crollo della Repubblica di Weimar. Il Piano Briand ebbe come principale ispiratore Richard Coudenhove Kalergi (nato nell'Impero austro-ungarico), che fondò nel 1923 il movimento Paneuropa (che raggruppava alcuni uomini politici, diplomatici e intellettuali) e che sostenne un progetto di federazione europea così approssimativo da includere, accanto agli Stati democratici, anche l'Italia fascista.
La seconda rilevante iniziativa europeistica in questa fase fu la proposta di unione franco-britannica, lanciata da Churchill il 16 giugno 1940, nel momento in cui la Francia stava per capitolare di fronte all'avanzata nazista, che non fu accolta in seguito al prevalere in Francia delle forze favorevoli alla capitolazione. Questa proposta, che ebbe come ispiratori Jean Monnet (in quel momento a Londra per organizzare la cooperazione economico-militare franco-britannica) e il movimento della Federal Union, era molto più avanzata del Piano Briand, dal momento che prevedeva organi comuni per la difesa, gli affari esteri, le finanze e l'economia, l'associazione formale dei due parlamenti e una comune cittadinanza.Tutto questo indica che l'imperativo 'Unirsi o perire' cominciava a condizionare ormai in modo incisivo l'azione concreta dei governi. Occorre però sottolineare che Churchill accolse i suggerimenti di Monnet e dei federalisti britannici essenzialmente con l'intento tattico di rafforzare la resistenza francese all'aggressione nazista, e diede alla proposta un significato confederale e non federale. Ciò emerse chiaramente già nei suoi successivi interventi su questo tema durante la guerra, in particolare nel radio-messaggio del 21 aprile 1943, in cui propose la costituzione di un Consiglio d'Europa (un'anticipazione dell'istituzione di carattere confederale che sarebbe nata nel 1949).
Nell'immediato dopoguerra la corrente confederalista ebbe la sua più importante espressione organizzativa nello United Europe Movement, un'associazione di personalità fondata in Gran Bretagna nel 1947, presieduta da Churchill e diretta da suo genero Duncan Sandys. Questa associazione, in collaborazione con l'UEF (Union Européenne des Fédéralistes) e con tutte le più importanti associazioni europeistiche nate in quegli anni, organizzò all'Aja dal 7 al 10 maggio 1948 il Congresso dell'Europa, presieduto da Churchill, a cui partecipò un migliaio di delegati provenienti da diciannove paesi dell'Europa occidentale. Oltre ai principali dirigenti dei movimenti europeisti e a grandi personalità del mondo economico, culturale e religioso, parteciparono alcuni tra i più prestigiosi leaders politici europei, come Bidault, Blum, Monnet, Reynaud, Ramadier, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Van Zeeland. Il congresso dell'Aja, in cui fecero sentire la propria voce le tre principali correnti dell'europeismo, ottenne come risultato fondamentale la costituzione, che avvenne l'anno successivo, del Consiglio d'Europa. Ma il suo risultato più importante e duraturo fu la costituzione del Movimento Europeo, che dal 1948 raggruppa in modo permanente tutte le associazioni per l'unità europea assieme ai partiti e ai sindacati di orientamento europeistico, con l'obiettivo di stimolare i governi e di sollecitare il sostegno dell'opinione pubblica nella costruzione dell'unità europea. Il Movimento Europeo, occorre precisare, ebbe un orientamento fortemente influenzato dalla corrente confederalista finché Duncan Sandys fu presidente del suo Comitato esecutivo internazionale, ma a partire dal 1950, quando Sandys fu sostituito da Spaak, espresse in modo permanente una linea di sintesi, a volte organica a volte conflittuale, fra federalismo e funzionalismo.
Analizzando ora il rapporto fra europeismo e processo di unificazione, conviene partire dall'esame della corrente confederalista, in quanto questa ha dato un'impronta predominante alle prime istituzioni create per costruire l'unità del continente. L'impulso determinante all'avvio di questo processo fu dato dagli Americani, i quali, nel quadro della guerra fredda e della formazione dei blocchi contrapposti, si resero conto che la strategia più efficace di contenimento del comunismo consisteva nel creare in Europa occidentale, attraverso il superamento radicale dei nazionalismi, le premesse economico-sociali e politiche di una sana democrazia. Per questo essi subordinarono l'aiuto militare ed economico chiesto loro dagli europei alla condizione che venisse dato avvio appunto all'unificazione del continente. La risposta europea alle sollecitazioni americane fu, dapprima, il Patto di Bruxelles, un accordo di cooperazione militare stabilito nel marzo 1948 da Gran Bretagna, Francia e paesi del Benelux (nel 1955 sarà allargato alla Germania Federale e all'Italia e verrà chiamato Unione Europea Occidentale, nel 1988 verrà allargato a Spagna e Portogallo) che costituì la premessa dell'istituzione, nel 1949, dell'Alleanza Atlantica. Nell'aprile 1948 fu quindi creata l'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica, incaricata di distribuire gli aiuti del Piano Marshall ai paesi dell'Europa occidentale.
Entrambe queste istituzioni erano caratterizzate da una struttura confederale particolarmente debole, perché la Gran Bretagna, che ne fu con la Francia la principale fondatrice, non era disposta ad andare al di là della cooperazione intergovernativa fondata sulle deliberazioni unanimi. Per la stessa ragione il principio confederale s'impose nell'istituzione del Consiglio d'Europa, che coinvolse nel 1949 i principali paesi dell'Europa occidentale e si estese poi progressivamente a quasi tutta questa regione. Nonostante la loro debolezza strutturale, l'OECE e il Consiglio d'Europa svolsero una funzione preparatoria di una certa importanza. La prima avviò in effetti la liberalizzazione degli scambi e la cooperazione monetaria in Europa, mentre il secondo, che fu il primo organismo internazionale a coinvolgere i parlamentari, costituì nei suoi primi anni uno strumento utile per favorire i contatti fra tutte le forze politiche europee e renderle quindi più attente ai problemi dell'integrazione.
In seguito all'istituzione delle Comunità europee l'influenza della corrente confederalista sul processo di unificazione è stata indubbiamente ridimensionata. Essa si è manifestata anzitutto nel ruolo centrale assegnato nel sistema istituzionale comunitario al Consiglio dei ministri, attraverso il quale i governi nazionali assommano nelle proprie mani il potere legislativo comunitario e una notevole parte di quello esecutivo: è una situazione che dà alle Comunità una configurazione semiassolutistica, totalmente in contrasto con i principi liberaldemocratici dominanti negli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. In secondo luogo il confederalismo ha ottenuto una importantissima vittoria con il 'compromesso di Lussemburgo' del gennaio 1966. Da allora, prendendo atto che il governo francese non era disposto ad accettare una decisione a maggioranza del Consiglio dei ministri considerata in contrasto con propri interessi vitali nazionali, è invalsa in effetti la prassi di votare all'unanimità anche nei casi in cui i trattati comunitari prescrivono le deliberazioni a maggioranza. Il compromesso fu imposto da de Gaulle, il quale negli anni sessanta divenne il più prestigioso e coerente sostenitore dell'orientamento confederalista. Nonostante il suo rifiuto del rafforzamento in senso soprannazionale delle istituzioni comunitarie, egli svolse però anche un ruolo positivo rispetto all'avanzamento dell'integrazione economica, ritenendo che ciò fosse indispensabile per il recupero dell'autonomia della Francia e dell'Europa nel suo complesso rispetto all'egemonia degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. Sulla base di questa convinzione decise nel 1963 di porre il veto all'ingresso britannico nella Comunità, perché il suo allargamento prima del completamento dell'unione doganale e di quella agricola avrebbe portato alla trasformazione della Comunità stessa in una grande zona di libero scambio e avrebbe bloccato il cammino verso tappe più avanzate dell'integrazione europea e, quindi, la stessa prospettiva di un'emancipazione dalla tutela americana.
Dopo l'uscita di scena di de Gaulle e l'ingresso nella Comunità della Gran Bretagna, il ruolo di punta di lancia della corrente confederalista è passato al governo di questo paese, specialmente nel periodo in cui è stato guidato dalla signora Margaret Thatcher. Ciò nonostante, anche il governo britannico ha finito con l'accettare l'Atto Unico Europeo, entrato in vigore nel 1987, con il quale sono stati introdotti un, sia pure limitato, rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e una prassi decisionale del Consiglio dei ministri, per cui, pur non essendo stato formalmente abrogato il 'compromesso di Lussemburgo', le deliberazioni a maggioranza sono diventate una componente significativa della vita comunitaria.
Le Comunità europee costituiscono il risultato fondamentale dell'applicazione del metodo funzionalista alla costruzione dell'unità europea. In esse infatti gli aspetti di carattere confederale trovano un correttivo d'importanza decisiva nei poteri della Commissione esecutiva (diventata unica in seguito alla fusione degli esecutivi comunitari attuata nel 1967), nella sua autonomia dai governi e nel principio dell'efficacia immediata della normativa comunitaria all'interno degli ordinamenti giuridici nazionali. La decisione dei governi di passare dalle prime istituzioni europee di carattere puramente intergovernativo alle ben più avanzate istituzioni comunitarie ha tratto un impulso decisivo dalla questione tedesca. Già nell'ambito del dibattito europeistico svoltosi durante la seconda guerra mondiale si era ampiamente diffusa la convinzione che solo nel quadro di una solida unificazione europea si sarebbe potuta risolvere in modo efficace e definitivo la questione tedesca, trasformare cioè le grandi potenzialità economiche e organizzative di questo popolo da fattore di costante preoccupazione per i vicini in fattore di progresso per tutti. Questo orientamento non ebbe alcuna efficacia operativa fino a che gli Americani accettarono la logica di una politica essenzialmente punitiva nei confronti della Germania, ma la situazione cambiò nel periodo della guerra fredda e della formazione dei blocchi.
Un corollario fondamentale della strategia americana di contenimento dell'URSS fu la decisione di procedere alla ricostruzione economica e politica della Germania occidentale per consolidare in un settore decisivo il blocco atlantico. Quando in questo contesto fu decisa l'eliminazione dei controlli alleati sull'industria pesante tedesca, il governo francese, con Schuman agli Esteri, per evitare la rinascita di un'industria tedesca del tutto autonoma (che implicava il pericolo di una rinascita del nazionalismo tedesco), non vide altra strada che accettare la proposta di Monnet (formulata nel maggio del 1950) di sottoporre a un comune controllo europeo l'industria carbosiderurgica tedesca insieme con quelle della Francia e degli altri Stati disponibili. Dalla risposta positiva della Germania di Adenauer, dell'Italia di De Gasperi e Sforza e del Benelux nacque la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio.
Gli aspetti soprannazionali caratterizzanti le istituzioni della CECA dovettero essere accettati dai governi di questi paesi perché, in caso contrario, non si sarebbe potuto realizzare lo scopo primario dell'impresa, cioè la sottrazione del settore carbosiderurgico all'esclusivo controllo tedesco. Proprio per la necessaria presenza di aspetti soprannazionali, alla CECA non aderirono la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi, e ciò permise la nascita dell'Europa a sei, vale a dire di una piattaforma fondata sulla riconciliazione franco-tedesca e su un ruolo di guida di questi due paesi (elementi che furono poi ulteriormente formalizzati e consolidati dal trattato franco-tedesco del 1963): questa piattaforma rese possibili ulteriori importanti sviluppi dell'integrazione a causa della convergenza particolarmente forte tra gli interessi economici dei Sei e il fatto che proprio essi avevano sperimentato nel modo più drammatico le conseguenze della crisi dello Stato nazionale in Europa.
Il successo della CECA ha reso possibile l'estensione del metodo funzionalista al settore della produzione dell'energia atomica per usi pacifici (con la Comunità Europea per l'Energia Atomica, che ha ottenuto però scarsi risultati) e soprattutto all'economia nel suo complesso, con la Comunità Economica Europea (entrambe create con i Trattati di Roma del 1957). Quest'ultima ha ottenuto in questi anni risultati di rilevanza storica. Ne è prova inequivocabile soprattutto il fatto che le Comunità si sono gradualmente allargate fino a comprendere dodici Stati; si sono realizzate associazioni con altri Stati dell'Europa occidentale e con una sessantina di paesi del Terzo Mondo, e, sulla base delle grandi aspettative suscitate dall'impegno a completare il mercato unico interno entro il 1992, altri Stati europei hanno espresso l'intenzione di aderire o di associarsi alle Comunità. Non va inoltre dimenticato l'allargamento del consenso interno all'integrazione cui oggi aderisce anche la grande maggioranza delle forze di sinistra che inizialmente erano contrarie all'unificazione europea. Infine i cambiamenti epocali avvenuti nell'Est europeo negli anni 1989-1990, oltre a rendere possibile la riunificazione tedesca, hanno aperto la strada all'estensione delle Comunità all'Europa orientale.In effetti, dopo la dissoluzione del blocco sovietico gli ex satelliti dell'URSS hanno manifestato l'intenzione di aderire o di associarsi alle Comunità e la stessa ex-Unione Sovietica, che era sempre stata contraria all'integrazione europea, ha avviato una politica di crescente cooperazione con le Comunità, nel quadro di una riconciliazione tra Est e Ovest di cui è espressione fondamentale l'istituzionalizzazione della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Si tratta peraltro di processi i cui esiti sono ancora incerti a causa dell'instabilità connessa con la fine del bipolarismo e, in modo particolare, a causa dei nazionalismi riemergenti che rischiano di portare a una nuova 'balcanizzazione' l'Europa orientale e la stessa ex-Unione Sovietica.
Il metodo funzionalista ha dunque avuto il merito decisivo di rendere possibile un assai lento ma inarrestabile avanzamento dell'integrazione europea, che la pura cooperazione intergovernativa avrebbe invece condannato al ristagno. In tal modo si sono potuti realizzare i grandi vantaggi connessi con la graduale creazione di un vasto mercato continentale integrato. In particolare, la grande crescita economico-sociale che ne è derivata in Europa occidentale ha permesso di realizzare un salto qualitativo nel tenore di vita delle masse e di colmare praticamente il divario economico con gli Stati Uniti. Soprattutto sono state poste le basi per una generale ripresa democratica, nell'ambito della quale ha potuto verificarsi un fenomeno di eccezionale valore storico: il superamento pacifico delle dittature in Spagna, Grecia e Portogallo. Per contro non ha trovato conferma nella realtà l'ipotesi di uno sviluppo automatico dall'integrazione economica all'unità politica. Si può quindi concludere che il funzionalismo, mentre è parso adeguato a portare a maturità il problema dell'unificazione politica, cioè del completamento dell'unificazione europea, non sembra in grado con i suoi soli strumenti di portarlo a soluzione.
Nell'illustrare l'influenza della corrente federalista sul processo di integrazione europea occorre distinguere fra l'influenza sul processo nel suo complesso e l'influenza su taluni momenti specifici dello stesso.Per quanto riguarda il primo aspetto, la corrente federalista ha mantenuto attiva nel corso dell'intero processo d'integrazione la rivendicazione di una costituzione federale europea, di una procedura costituente democratica per realizzarla e, quindi, della partecipazione popolare alla costruzione europea. Ciò è avvenuto, oltre che attraverso un ruolo propositivo e di consulenza rispetto alla classe politica, tramite campagne di mobilitazione dell'opinione pubblica, che hanno coinvolto decine di migliaia di enti locali e di articolazioni territoriali delle forze politiche ed economico-sociali e milioni di semplici cittadini. Questa attività non è servita solo a mantenere aperta la prospettiva del completamento in senso democratico e federale dell'integrazione europea, ma ha anche ottenuto risultati concreti in ordine alla configurazione delle istituzioni comunitarie. Se in esse, accanto agli aspetti confederali e a quelli derivanti dall'approccio funzionalista, esiste anche un importante embrione di carattere federale, come il Parlamento europeo con i suoi pur chiaramente inadeguati poteri, ciò è dovuto sicuramente anche all'attiva presenza del federalismo nel processo d'integrazione.
Per quanto riguarda l'influenza della corrente federalista su singoli momenti del processo di integrazione, occorre precisare che essa si è basata sulla capacità di utilizzare gli spazi aperti dagli sviluppi confederali e funzionali dell'integrazione. In effetti i federalisti hanno sempre ritenuto illusoria la convinzione che si potesse realizzare un'integrazione graduale, ma duratura e completa, attraverso i meccanismi comunitari, nello stesso tempo hanno però riconosciuto che questo tipo d'integrazione è destinato a produrre delle contraddizioni che possono favorire dialetticamente la lotta federalista. Queste contraddizioni sono fondamentalmente due. Una è rappresentata dalla precarietà e dall'inadeguatezza dell'integrazione confederale-funzionale. Le istituzioni comunitarie, proprio perché prive di un potere democratico federale, sono destinate a incepparsi quando i problemi da affrontare diventano troppo difficili, e a produrre quindi una frustrazione delle aspettative alimentate dallo sviluppo dell'integrazione nei momenti più facili, una frustrazione che può essere trasformata in sostegno per soluzioni più avanzate. L'altra e ancora più importante contraddizione è costituita dal 'deficit democratico', dal fatto cioè che vengono creati dei centri di decisione a livello soprannazionale senza trasferire a tale livello efficaci procedure di controllo democratico. Questa situazione è destinata a produrre nei partiti e nell'opinione pubblica di orientamento democratico un crescente disagio, che può essere indirizzato verso l'idea di una democrazia soprannazionale e di una costituente europea.
Questa impostazione ha permesso alla corrente federalista di esercitare un'influenza decisiva sul processo d'integrazione soprattutto in tre momenti. Il primo è stato quello delle trattative sulla Comunità Europea di Difesa e sulla Comunità Politica Europea nel periodo 1951-1954. In quegli anni Altiero Spinelli, in quanto leader indiscusso del federalismo europeo, riuscì a instaurare un rapporto estremamente proficuo con De Gasperi e a convincerlo dell'assurdità del progetto di creare un esercito europeo senza creare simultaneamente uno Stato democratico europeo: di un progetto cioè, che avrebbe trasformato di fatto i soldati europei in truppe mercenarie al servizio degli Stati Uniti e avrebbe comportato la messa in discussione di una delle più importanti acquisizioni della tradizione liberaldemocratica, vale a dire la subordinazione dell'esercito al governo democratico. Facendo sue le considerazioni e le proposte federaliste, De Gasperi riuscì a strappare a Schuman e a far accettare agli altri ministri dell'Europa dei Sei la decisione, prevista all'art. 38 del progetto di trattato istitutivo della CED, di aggiungere alla costruzione dell'esercito europeo quella della Comunità politica.
Fu altresì dovuto in modo decisivo all'insistenza di Spinelli la decisione di affidare l'elaborazione dello statuto della Comunità politica all'assemblea allargata della CECA, definita 'Assemblea ad hoc'. Questa elaborò un progetto con forti elementi federali, che prevedeva in particolare l'elezione diretta di un parlamento europeo fornito di poteri legislativi e la realizzazione, oltre all'esercito comune, di un mercato comune che avrebbe dovuto assorbire in sé la CECA. Questa impresa non giunse in porto perché la mancata ratifica della CED da parte del Parlamento francese fece cadere il connesso progetto di una comunità politica. Questa sfortunata battaglia non restò tuttavia senza esiti pratici sul processo d'integrazione, perché pose le premesse per i Trattati di Roma. I governi si trovarono infatti nella necessità di dare una risposta almeno parziale alle grandi aspettative suscitate nell'opinione pubblica dai progetti della CED e della CPE e alla cocente delusione derivante dalla loro caduta, e ciò contribuì in modo decisivo al rilancio europeo, che, con la nascita della CEE, fece compiere un grande passo avanti all'integrazione europea.
Il secondo importante momento d'influenza della corrente federalista è costituito dall'elezione diretta del Parlamento europeo, che ha potuto essere ottenuta grazie a una sistematica e quasi ventennale campagna promossa dai federalisti. La lotta per questo obiettivo si è fondata sulla convinzione che, anche se si trattava di far eleggere direttamente un parlamento privo di poteri sostanziali, il fatto stesso di ottenere una legittimazione democratica diretta avrebbe reso possibile la sua trasformazione in assemblea costituente di diritto o di fatto. Si sarebbe infatti creata una situazione in palese contrasto con quei principi liberaldemocratici che rendono inconcepibile l'esistenza di un parlamento nato dall'esercizio della sovranità popolare ma privo dei poteri deliberativi indispensabili per tradurre in pratica il mandato ricevuto. Ciò avrebbe fortemente indebolito le resistenze nazionalistiche alla richiesta di attribuire al Parlamento europeo il compito di elaborare un progetto di costituzione in grado d'instaurare a livello comunitario un sistema di governo democratico, corrispondente ai principi generali vigenti nell'ordinamento costituzionale degli Stati membri.
D'altra parte, tale richiesta sarebbe stata sollevata con forza dagli stessi parlamentari europei, anche in considerazione dei loro concreti interessi di potere. Essi infatti, in vista della propria rielezione o comunque del mantenimento del consenso ottenuto dai rispettivi partiti, sarebbero stati costretti nella loro grande maggioranza (l'eccezione essendo rappresentata dai deputati appartenenti ai partiti programmaticamente antieuropeisti) a cercare di ottenere i mezzi concreti per realizzare i loro programmi e quindi a battersi per il rafforzamento e la democratizzazione delle istituzioni comunitarie.
Il terzo momento fondamentale dell'influenza federalista sull'unificazione europea è infine costituito dal progetto, di chiaro contenuto federale, di un trattato istitutivo dell'Unione europea (TUE). L'elaborazione del TUE da parte del Parlamento europeo e la sua approvazione a larga maggioranza, il 14 febbraio 1984, rappresentano l'autoassunzione da parte dell'Assemblea di Strasburgo di un ruolo costituente e hanno avuto come promotore e guida dell'intera iniziativa Spinelli, che ha agito all'interno dell'Assemblea avendo all'esterno il pieno e fattivo sostegno delle organizzazioni federaliste. Il TUE non è stato per ora accettato dai governi, i quali hanno preferito ripiegare su di una riforma molto più limitata rappresentata dall'Atto Unico Europeo, che contiene l'obiettivo ambizioso del completamento del mercato interno entro il 1992, ma non ha trasformato le Comunità in un sistema istituzionale realmente democratico ed efficiente. Se la lotta federalista avviata dopo l'elezione diretta del Parlamento europeo non ha ancora raggiunto l'obiettivo di una costituzione federale, essa ha però influenzato in modo rilevante lo sviluppo dell'unificazione europea. In effetti, se si è giunti, superando forti resistenze provenienti soprattutto dal governo britannico, a fissare in un nuovo trattato, e non in una semplice dichiarazione di intenti, il progetto di completamento del mercato interno, ciò è stato dovuto in modo decisivo all'esigenza di venire incontro almeno parzialmente alle richieste espresse dal Parlamento europeo con il TUE. L'Atto Unico Europeo, dando un nuovo, forte impulso all'avanzamento dell'integrazione europea, ha d'altra parte spinto i governi ad affrontare i problemi dell'unione economica e monetaria e dell'unione politica, e a convocare (nel dicembre 1990) due conferenze intergovernative dirette alla realizzazione di questi obiettivi, resi necessari anche dalle nuove responsabilità mondiali che l'Europa è chiamata ad assumersi dopo la dissoluzione del sistema bipolare. Se le conferenze intergovernative non realizzeranno un'autentica riforma in senso democratico e federale delle Comunità, il loro 'deficit democratico' si accentuerà, e ciò non potrà non rafforzare la richiesta del Parlamento europeo di un cambiamento più profondo.
Per capire ciò che è in gioco nell'esito di questa lotta, occorre sottolineare un punto d'importanza decisiva. L'elezione del Parlamento europeo rappresenta il primo esempio storico di estensione del diritto di voto sul piano dei rapporti internazionali e cioè di intervento diretto del popolo in una sfera della vita politica che è stata finora dominio esclusivo della ragione di Stato, del confronto diplomatico e militare tra gli Stati e delle manovre delle grandi imprese multinazionali. Se questo primo embrione di democrazia a livello internazionale si svilupperà in un compiuto sistema democratico su scala europea, cioè in un sistema di tipo federale, esso non mancherà di avere un grande valore di esempio per altre regioni del mondo e in generale sta diventando sempre più attuale per avviare la costruzione di procedure di controllo democratico delle relazioni internazionali globali, in modo da sottrarle progressivamente allo scontro fra gli egoismi dei singoli Stati. Se invece questo embrione morirà, ne deriveranno fatali contraccolpi, non solo rispetto allo sviluppo dell'unificazione europea, ma anche rispetto al prestigio della democrazia su scala mondiale.
(V. anche Comunità Europea; Federalismo; Integrazione internazionale; Internazionalismo).
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