EUROPEISMO (v. paneuropa, XXVI, p. 189; App. II, 11, p. 500; europa federale, App. III, 1, p. 586)
I trattati firmati a Roma il 25 marzo 1957, istituenti la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea per l'Energia Atomica (EURATOM), rappresentarono, da una parte un primo sbocco al generale sforzo di avvicinamento durato un decennio, e dall'altra un concreto punto di partenza verso obiettivi più ampi e impegnativi. Due francesi di forte vocazione unitaria europea come R. Schuman e J. Monnet insistettero nel rilevare che l'integrazione economica sarebbe stata la via più sicura per realizzare l'unione politica, così come altri ricordarono la funzione unificatrice svolta nel secolo scorso in Germania dallo Zollverein. Ogni tentativo però, durante il quindicennio (1960-1975) qui considerato, di avviare il passaggio dall'integrazione economica all'integrazione politica incontrò ostacoli insormontabili, finendo anche per inceppare, con i contrasti e con le polemiche che l'accompagnarono tutte le volte, il processo d'integrazione economica, rendendolo più lento e faticoso e persino in qualche momento rimettendo in discussione il principio stesso dell'integrazione. Gli ostacoli non riguardavano l'obiettivo in sé, auspicato da tutte le parti in causa, ma le basi della sua attuazione sia come strumenti istituzionali che come contenuto d'azione politica. Il contrasto che - è opportuno ribadirlo - solo in apparenza aveva per oggetto l'evoluzione politica da dare all'integrazione economica, mentre in realtà coinvolgeva limiti e concezione dell'integrazione economica, sembrò legato, nei primi dieci anni dei trattati di Roma, alla visione politica puntigliosamente nazionalistica del capo dello stato francese Ch. de Gaulle, che bloccò non soltanto un'Europa politica che andasse al di là d'un coordinamento, sia pure istituzionalizzato, della diplomazia dei membri della comunità, ma anche un'integrazione economica che slittasse verso strutture sovranazionali; ma quando, col ritiro di de Gaulle il 28 aprile 1969, scomparve il suo ruolo negativo ai fini europeistici, si dovette constatare che egli era stato solo un elemento del groviglio d'interessi, pressioni, sospetti che da diverse parti concorrevano a paralizzare nei fatti lo slancio unitario di partenza: un sostanziale rilancio politico dell'Europa infatti non ci fu, nonostante le speranze fatte sorgere negli europeisti dalle decisioni della conferenza dei capi di stato e di governo che si riunì all'Aia l'1-2 dicembre 1969. Il significato e il peso delle singole tappe dell'integrazione europea dopo la firma dei trattati di Roma trovano una più realistica comprensione se inserite in questo quadro politico generale.
Dal Mercato comune alla Comunità economica. - I trattati di Roma, entrati in vigore il 1° gennaio 1958, prevedevano l'eliminazione delle barriere doganali fra i Sei entro dodici anni, gradualmente, fino al 1° gennaio 1970. I tempi fissati, nonché rispettati, furono anticipati d'un anno e mezzo; grazie a due accelerazioni concordate dalle parti, il 1° luglio 1968 lo smantellamento completo delle barriere tariffarie interne fu già in atto. Nel frattempo le tariffe doganali nazionali verso i paesi terzi erano state armonizzate in una "tariffa esterna comune".
La tariffa esterna comune costituì il primo atto dell'evoluzione dei Sei dall'obiettivo dell'unione doganale a quello della vera e propria comunità economica; evoluzione che li differenziò subito da un altro raggruppamento doganale europeo sorto per iniziativa britannica l'anno successivo all'entrata in vigore dei trattati di Roma, il 20 novembre 1959, con la partecipazione, oltre che della Gran Bretagna, dell'Austria, della Danimarca, della Norvegia, del Portogallo, della Svezia e della Svizzera: l'Associazione europea di libero scambio (European Free Trade Association, EFTA). Il secondo atto si concretò nella creazione d'un mercato agricolo comune. Il negoziato in merito, aperto su sollecitazione della Francia, che ne era la più interessata, nel gennaio 1958 a Stresa, fu uno dei più complessi e travagliati fra i Sei per la vastità dei problemi economico-sociali che vi erano connessi, per la contrapposizione degli angoli di visuale legati al diverso ruolo economico e al diverso peso politico del settore agricolo nei paesi interlocutori, per la necessità di conciliare interessi e realtà circa i prezzi comunitari dei prodotti agricoli, di stabilire le modalità di gestione delle organizzazioni di mercato e il loro finanziamento, di fissare l'orientamento della produzione, la trasformazione e l'ammodernamento delle strutture produttive, di garantire la concorrenza attraverso il controllo degli aiuti nazionali all'agricoltura; in sostanza, di creare un modello comune per sei divergenti politiche agricole. Occorsero quattro anni per concordare, il 14 gennaio 1962, i primi regolamenti, relativi ai cereali, alla carne suina, al pollame e ai legumi; altri quattro (fino al luglio 1966) per varare i regolamenti degli altri prodotti; e altri due anni infine (1° luglio 1968) per completare l'organizzazione pratica del passaggio al mercato unico dei prodotti. La fase più delicata delle trattative coincise con la discussione del finanziamento della politica comune (intervento sui mercati per sostenere i corsi, sovvenzioni agli esportatori, ammassi delle derrate etc.), che portò al regolamento dell'11 maggio 1964 e alla creazione del Fondo Europeo di Organizzazione e di Garanzia Agricoli (FEOGA). Ma anche dopo che la politica agricola comune (PAC) divenne un dato concreto, essa continuò a navigare in acque agitate, prima con le polemiche attorno al "piano di riforma dell'agricoltura europea - conosciuto anche come "obiettivo 1980" - presentato il 18 gennaio 1969 dal vice presidente della commissione Sicco Mansholt, che, nell'intento di risolvere i gravi problemi sociali del mondo rurale adeguandone il reddito e le condizioni di vita al resto della società nazionale, proponeva una riduzione drastica delle superfici destinate all'agricoltura e del numero di persone impiegate nella campagna e la ristrutturazione delle aziende agricole come ampiezza e come tipo di gestione, e poi, dopo il 1969, con continui scontri per l'adeguamento dei prezzi agricoli comunitari alla svalutazione delle monete e alla galoppante inflazione.
Tuttavia la politica agricola comune fu la sola a consentire che si potesse parlare di comunità economica europea. Negli altri settori dell'economia infatti, i Sei - e, dopo l'ingresso di Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda nel gennaio 1972, i Nove - svolsero negoziati preparatori e raggiunsero intese di massima, come ad esempio su una politica comune dei trasporti (giugno 1965) e sulla politica comune dell'energia (aprile 1964), oppure elaborarono una serie di progetti (regolamento per la lotta contro le intese, progetto di società europea, diritto di stabilimento di filiali e succursali), ma senza arrivare a soluzioni operanti. Il caso tipico si verificò su quella che rappresentava poi la chiave di volta dell'integrazione economica, l'Unione Economica e Monetaria (UEM): decisa in linea di principio dalla conferenza dell'Aia del dicembre 1969, programmata per tappe da un comitato presieduto dal lussemburghese Werner e approvata dal Consiglio, non riuscì nell'applicazione a superare i primi problemi posti alla sua validità dalla crisi monetaria del 1971. A ragione il primo ministro belga Tindemans ammonì che occorreva in futuro evitare "di fissare obiettivi troppo ambiziosi ch'era impossibile raggiungere". Apparivano più feconde iniziative limitate, ma realizzabili, quali fu indubbiamente la decisione (4 marzo 1975) di creare un "Fondo regionale europeo" a favore dell'industrializzazione e d'una più moderna attrezzatura delle regioni più povere della Comunità, e di allargare la solidarietà d'interessi fra i membri di essa.
Istituzioni e sovranazionalità. - La pregiudiziale per un'effettiva e totale integrazione economica stava nel dare poteri decisionali alle due delle tre istituzioni previste dai trattati di Roma, Commissione e Assemblea, che per il loro carattere "integrato" erano più sensibili alle esigenze europeistiche di quanto per sua natura non potesse esserlo il Consiglio dei ministri, cui i trattati avevano riservato ogni potere legislativo ed esecutivo. Lo sforzo per modificare l'equilibrio istituzionale, basato sulla procedura "la Commissione propone, il Parlamento dà un parere, il Consiglio decide", cominciò a manifestarsi non appena entrata in vita la Comunità. Poi il proposito della Commissione di spogliarsi del ruolo burocratico di segretariato nel quale il Consiglio la relegava (organo "apolide" lo aveva definito con sprezzo de Gaulle per il fatto che i suoi membri benché nominati dai governi dei Sei erano indipendenti da questi), per assumere la dignità di "esecutivo europeo", cercò di concretarsi in occasione del negoziato per la creazione del FEOGA e per il sostegno finanziario all'agricoltura, con la proposta del suo presidente Hallstein, nel marzo 1965, d'istituire un vero bilancio federale e di estendere i poteri della Commissione e dell'Assemblea (denominata dal 1962 "Parlamento europeo". Ma allora de Gaulle rispose duramente alla sfida della corrente sovranazionale: egli ordinò al suo ministro degli Esteri Couve de Murville di ritirarsi dai lavori del Consiglio, e inoltre, poiché mancavano sei mesi all'inizio della terza tappa del mercato comune (a partire dalla quale, come stabilito dai trattati, le decisioni sarebbero state prese a maggioranza), pose sul tappeto la richiesta che restasse valido il principio dell'unanimità, almeno nelle questioni riguardanti "un interesse nazionale essenziale". La delegazione francese tornò a occupare il suo posto nel Consiglio soltanto sei mesi più tardi, cioè dopo che il "compromesso di Lussemburgo" del gennaio 1966, con l'affermare il principio dell'unanimità, aveva tolto in pratica alla Commissione il potere d'iniziativa (si giungeva a vietarle di rendere pubblici i suoi programmi prima di averli sottoposti ai governi) e aveva inchiodato il Parlamento nel ruolo modesto di consultazione e di verifica dei conti. Da allora la battaglia dei sovranazionalisti si concentrò soprattutto in direzione dell'allargamento delle competenze legislative del Parlamento europeo, col riconoscimento d'un suo diritto di codecisione nelle questioni più importanti e d'un suo potere di veto sospensivo sulle altre questioni, indicando come pregiudiziale a tale crescita di ruolo la sua elezione a suffragio universale.
La corrente sovranazionale toccò un primo traguardo, di principio, con la citata conferenza al vertice del dicembre 1969 all'Aia e con il trattato di Lussemburgo del 20 aprile 1970: un gruppo ad hoc, creato dalla Commissione e presieduto dal prof. Vedel, elaborò proposte concrete al riguardo presentando una relazione il 25 marzo 1972, e la Commissione a sua volta trasferì le proposte in un documento consegnato al Consiglio dei ministri il 20 maggio seguente, che allargava il discorso anche al rafforzamento dei suoi poteri. In seguito la conferenza dei capi di governo tenuta il 9 dicembre 1974 a Parigi decise di applicare, a partire dal 1978, l'articolo 138 del trattato di Roma relativo all'elezione del Parlamento a suffragio diretto, invitando il Parlamento a preparare il regolamento dell'elezione in tempo per consentire al Consiglio di approvarlo (all'unanimità) entro il 1976. Il Parlamento, cui lo stesso vertice riconobbe il diritto ad ampliare i suoi poteri legislativi, approvò il 14 genn. 1975 il testo d'una convenzione per l'istituzione di elezioni a suffragio universale. La convenzione prevedeva un parlamento di 350 membri, lo svolgimento delle prime elezioni per la prima domenica del maggio 1978 sulla base delle leggi elettorali dei singoli paesi membri (una legge elettorale comune doveva essere approvata entro il 1980), la durata del mandato in cinque anni e la compatibilità del mandato europeo col mandato nazionale. Il presidente della Commissione Ortoli la definì "il primo ponte verso l'unione europea".
Adesioni e associazioni. - L'ostilità di de Gaulle e dei gaullisti verso il rafforzamento del ruolo del Parlamento, della Commissione e di ogni organo internazionale era stata da essi collegata con la propria ostilità verso quell'e. che vedeva la costruzione europea come un'esercitazione istituzionale e poco si preoccupava di sapere a servizio di quale politica le istituzioni avrebbero funzionato. Per costruire sul solido occorreva prima essere d'accordo sul ruolo dell'Europa nel mondo, sul tipo di rapporti con gli Stati Uniti, sulla creazione di un'altra Europa da sostituire all'"Europa atlantica".
Dalle stesse premesse, che potesse cioè accentuarsi il rischio d'identificare l'e. con l'atlantismo, partì in larga misura l'atteggiamento negativo di de Gaulle verso l'entrata della Gran Bretagna nel mercato comune europeo. Il suo veto bloccò, rispettivamente il 29 gennaio 1963 e il 12 dicembre 1967, sia la domanda di ammissione avanzata dal governo conservatore di Macmillan il 9 agosto 1961 sia la candidatura posta dal governo laburista di Wilson il 10 maggio 1967. Eppure, proprio l'ingresso della Gran Bretagna avrebbe accresciuto le possibilità di indipendenza reale, economica e quindi politica, della Comunità dagli Stati Uniti che egli dichiarava di voler perseguire, così come - osservavano gli europeisti "patiti delle istituzioni" - egli non si rendeva conto come l'integrazione degli stati nazionali europei potesse spianare la strada a quell'Europa autonoma, indipendente e forte che era nei suoi voti.
Se fu necessario attendere il ritiro di de Gaulle dalla scena politica perché la Comunità realizzasse il primo allargamento del numero dei suoi membri attraverso i trattati di adesione, il 22 gennaio 1972, della Gran Bretagna, della Danimarca e dell'Irlanda (l'adesione, in pari data, della Norvegia restò senza valore a causa della maggioranza di no espressa dall'elettorato norvegese nel referendum cui venne chiamato il 25 settembre successivo), forte sviluppo ebbero invece subito gli accordi di associazione, diretti a stabilire un sistema commerciale preferenziale della CEE con i paesi contraenti: la maggior parte riguardò l'area mediterranea (Grecia, Turchia, Spagna, Israele, Malta, Tunisia, Libia, Marocco) e africana (accordi di Yaoundé del 20 luglio 1963 rinnovati il 29 luglio 1969 e convenzione di Lomé del 28 febbraio 1975).
Il problema dell'unità politica. - Anche la vicenda dell'ingresso della Gran Bretagna nel MEC ripropose il tema dell'unità politica. Secondo i più fervidi europeisti (su questo punto continuò infatti a centrarsi l'azione propagandistica e di pressione dei movimenti e gruppi federalistici) l'integrazione economica senza l'integrazione politica non sarebbe mai potuta diventare una completa realtà e sarebbe stata rimessa in discussione: questo, in effetti, misero in luce le vicende petrolifero-monetarie del 1973-74 e il sostanziale fallimento d'una comune politica energetica quale aveva dettato l'istituzione dell'EURATOM, ogni volta i singoli interessi nazionali apparissero non identificabili con quelli della Comunità. Ma, come si è visto, la concezione ufficiale francese e le valutazioni degli altri membri contrastavano sia sulle strutture istituzionali per l'elaborazione d'una politica comune sia sui contenuti d'una politica europea.
Il trattato di Roma era stato assai vago sul tema dell'unità politica, limitandosi nell'art. 2 ad auspicare lo stabilimento di "relazioni più strette fra gli stati della Comunità", senza nessun accenno ai mezzi per realizzarle. Fu proprio de Gaulle a prendere l'iniziativa, insieme, d'un avvio e d'un chiarimento, proponendo il 5 settembre 1960 una cooperazione organizzata intergovernativa sulla base di periodiche conferenze ad alto livello, di commissioni permanenti per la trattazione delle diverse questioni politiche culturali economiche e militari, di un segretariato preposto alla preparazione delle consultazioni e all'esecuzione delle decisioni, e suggerendo di far sanzionare il nuovo corso europeo da un referendum popolare nei paesi interessati. Tali proposte, precisate poi nel "piano Fouchet" (dal nome del presidente della commissione cui la conferenza al vertice del 10-11 febbraio 1961 aveva demandato lo studio del problema), si urtarono contro le posizioni federalistiche sostenute in particolare dai governi olandese e belga; la rottura avvenne il 17 aprile 1962, dopo che la Francia aveva respinto il compromesso belga-olandese che consentiva all'"Europa delle patrie" di Parigi in cambio dell'immediata partecipazione della Gran Bretagna.
Dopo il fallimento del piano Fouchet trascorsero nove anni prima che il problema tornasse ad essere affrontato. La conferenza al vertice dell'Aia, del dicembre 1969, affidò l'incarico di studiarlo a un Comitato dei direttori politici dei ministeri degli Esteri dei Sei. Il comitato, che dal nome del suo presidente belga prese il nome di "Comitato Davignon", trasse la lezione dall'esperienza e nel rapporto presentato a fine maggio 1970, accantonando prospettive di sovranazionalità e di nuove istituzioni, propose soltanto la riunione due volte all'anno dei ministri degli Esteri per armonizzare le loro posizioni in tema di politica internazionale e l'istituzionalizzazione come "Comitato politico" del comitato stesso, con almeno quattro riunioni all'anno per preparare gl'incontri ministeriali. Il documento venne approvato a Lussemburgo il 27 ottobre successivo e subito dopo, il 19 novembre, si svolse a Monaco la prima riunione ministeriale prevista, cui seguì una seconda a Parigi il 13-14 maggio 1971 dedicata alla concertazione d'una politica comune sul Medio Oriente. Un passo avanti verso l'unione politica europea, sempre nei limiti "confederali" pretesi dal governo francese, rappresentarono le due conferenze al vertice di Parigi dell'ottobre 1972 e del dicembre 1974 con la creazione di un Consiglio europeo e con l'indicazione del 1980 quale anno di scadenza del processo di perfezionamento dell'unione europea. Ad attenuare però gli ottimismi allora sorti intervennero le nuove difficoltà di stabilire una politica comune energetica e la richiesta del governo britannico di rinegoziare i termini finanziari della sua adesione alla Comunità.
Nella fase attuale, caratterizzata dalla crisi che ha colpito le economie europee, il processo d'integrazione incontra ostacoli anche in settori come la ricerca (dopo la "ristrutturazione" dell'Euratom nel gennaio 1971) e l'agricoltura (dopo le misure francesi contro l'importazione di vini italiani). Sulle difficoltà che intralciano l'integrazione ha insistito il rapporto presentato a Bruxelles dal capo del governo belga L. Tindemans, che ha rilanciato la proposta di una partecipazione differenziata dei paesi membri all'unificazione economica e monetaria. Il rapporto, dove prevalgono gli atteggiamenti di cautela, ammette che l'attuale crisi delle istituzioni comunitarie riflette non solo una insufficiente volontà di collaborazione, ma anche la debolezza del sistema politico-sociale dei paesi europei, sottoposto a sfide esterne e interne; e sottolinea l'importanza, ai fini del rafforzamento istituzionale, del previsto Parlamento europeo, dotato di effettivi poteri legislativi.
Bibl.: J. Royan, L'Europe, Parigi 1966; E. Vinci, Il Parlamento europeo, Milano 1968; P. Drouin, L'Europe du Marché Commun, Parigi 1968; R. Ducci, B. Olivi, L'Europa incompiuta, Padova 1970; A. Spinelli, L'avventura europea, Bologna 1972; R. Morgan, West European politics since 1945. The shaping of the European Community, Londra 1972.