Eutanasia
La discussione sull'eutanasia non è certo limitata al nostro secolo. Già il mondo antico affrontava le complesse questioni, principalmente di ordine etico e giuridico, sollevate da quella che veniva allora chiamata 'buona morte'. Nel secolo XX, e in particolare nella sua ultima parte, il modo di affrontare la tematica dell'eutanasia ha conosciuto, nelle società avanzate dell'Occidente, una trasformazione radicale. La ripresa della discussione sull'eutanasia e la trasformazione stessa di molti dei suoi termini possono essere viste come una conseguenza dei profondi cambiamenti che nella seconda parte di questo secolo si sono realizzati per quanto riguarda le condizioni del morire degli esseri umani. Queste condizioni sono cambiate, in particolare se le si considera da un punto di vista sociale e medico (v. Ariés, 1977; v. Elias, 1982; cfr. B. Fantini e M. D. Grmek, Le definizioni di vita e di morte nella biologia e nella medicina contemporanee, in AA.VV., Bioetica, 1989, pp. 163-200). Da una parte il miglioramento della qualità della vita nelle società industriali avanzate non ha portato solo a un prolungamento della vita media, ma anche a un allungamento della fase di senilità nella vita individuale. Inoltre si è consolidata una tendenza ad affrontare in strutture ospedaliere la fine naturale degli esseri umani per vecchiaia, anche attraverso lunghissimi periodi di degenza in cronicari od ospizi e con una sopravvivenza spesso garantita artificialmente nelle ultimissime fasi. Dall'altra parte questi cambiamenti nelle condizioni sociali del morire si sono intrecciati con altri mutamenti resi possibili dai progressi della medicina negli ultimi decenni. Sempre più potenti e perfezionati sono divenuti gli strumenti con cui si è riusciti a mantenere in vita artificialmente il morente nei reparti ospedalieri di terapia intensiva o di rianimazione. Gli esseri umani possono essere fatti sopravvivere anche di fronte a gravi e irreversibili alterazioni di funzioni biologiche essenziali. In particolare negli ultimi decenni si è giunti a vicariare per periodi anche molto lunghi sia l'attività cardiaca e respiratoria, sia l'alimentazione e l'idratazione. Costituiscono quindi elementi caratteristici della storia recente non solo l'invecchiamento diffuso e i lunghissimi periodi di senescenza, ma anche il diffondersi di casi di esseri umani tenuti artificialmente in vita in strutture ospedaliere, anche quando presentano una mancanza completa di autonomia e di coscienza. In alcuni paesi questi fenomeni hanno sollevato dibattiti - più o meno crudi - sull'utilizzazione delle risorse in casi del genere in alternativa ad altre possibili utilizzazioni delle risorse stesse.
Non solo queste trasformazioni nelle condizioni del morire degli esseri umani, ma anche i notevoli processi di trasformazione in senso democratico dell'etica realizzatisi nelle società avanzate dell'Occidente impongono oggi una riconsiderazione sistematica di tutte le questioni collegate con il problema morale della liceità o meno dell'eutanasia (v. Nespor e altri, 1992, pp. 167-204). A partire dall'inizio degli anni settanta l'impegno per un'elaborata riconsiderazione di tutta la problematica relativa all'eutanasia è divenuto uno degli obiettivi principali della bioetica, ovvero di quella disciplina che ha fatto oggetto di riflessione sistematica i nuovi problemi etici o - come nel caso dell'eutanasia - il modo nuovo di presentarsi di vecchi problemi, come conseguenza delle recenti acquisizioni della medicina e della biologia (v. Engelhardt, 1986, pp. 345-365).
Va detto, a questo proposito, che il dibattito teorico e critico degli ultimi decenni sulla questione dell'eutanasia ha preso l'avvio, oltre che dai fenomeni appena ricordati, anche da una riconsiderazione della legislazione nazista che prevedeva, con una legge del 14 luglio 1933, interventi eutanasici a fini razziali ed eugenetici. Questo precedente, mentre ha determinato il diffondersi di una grande diffidenza nei confronti di un'eventuale legislazione pro-eutanasica, è stato anche la causa di una trattazione generalmente confusa e fortemente emotiva delle complesse questioni morali in gioco.
Proprio la complessità delle situazioni con cui ci si confronta nel caso dell'eutanasia e la difficoltà di avere a che fare con esse in modo non equivoco richiedono una messa a punto terminologica. Pertanto, larga parte della riflessione bioetica sulla questione dell'eutanasia è impegnata principalmente a definire con precisione questa nozione, distinguendo diversi tipi di eutanasia o fissando la distanza tra l'eutanasia e altri modi di morire degli esseri umani. Rendere conto della ricerca sulla corretta definizione di eutanasia è poi un modo per presentare una mappa delle diverse concezioni etiche in proposito.Va subito segnalato che il termine 'eutanasia' non è privo di connotati emotivi, e che anzi nell'uso comune sembra prevalere - come residuo della memoria della legislazione nazista - non tanto un uso caratterizzato in senso positivo, quanto piuttosto un uso che vede in eventuali provvedimenti legislativi pro-eutanasici qualcosa di dannoso e pericoloso. A livello di senso comune l'eutanasia sembra derivare una parte del suo significato emotivamente negativo dal fatto che si considera l'atto eutanasico come un grave colpo alla stabilità del principio etico di difendere la vita degli esseri umani.
In bioetica, larga parte del dibattito sull'eutanasia si sviluppa però dopo aver provveduto a depurare i concetti in gioco dalle assonanze emotive proprie del linguaggio comune. Va rilevato intanto che il tipo di discussione che prevale nella bioetica, con il suo distacco e la sua lontananza dall'emotività, si colloca su un altro piano rispetto a quello retorico e persuasivo comune. Va anche detto che le distinzioni e le definizioni terminologiche di eutanasia avanzate in bioetica si presentano spesso come tutt'altro che neutre, ma piuttosto come il risultato dell'assunzione di ben precise posizioni normative e dunque come conseguenza analitica e premessa argomentativa di queste stesse posizioni.
Nel dibattito più recente è estremamente raro il riferimento alla sola nozione di eutanasia, mentre è diffusa la tendenza a caratterizzare con ulteriori specificazioni il tipo particolare di eutanasia di cui si tratta. Varie espressioni vengono utilizzate per restringere l'ambito di estensione della nozione di eutanasia, per cui questa nozione, usata da sola, sembra ormai aver perso la capacità di trasmettere un significato preciso. Risulta infatti troppo generico ed equivoco il significato di buona morte etimologicamente a essa collegato. Il continuo richiamarsi al precedente del nazismo ha reso altresì quantomai confuso l'uso della nozione di eutanasia non accompagnata da definizioni e specificazioni ulteriori. Inoltre, dibattiti che ricorrano - con maggiore o minore buona fede - al precedente del nazismo finiscono con lo svuotare questo concetto di qualsiasi significato, omologandolo in definitiva a un omicidio genericamente inteso. Si perde così di vista la storia semantica di eutanasia, una storia che rinvia piuttosto, in prevalenza, a un tipo di omicidio tutto specifico, ispirato da pietà per le sofferenze altrui, se non addirittura dall'esplicita richiesta del morente. Due elementi ovviamente del tutto assenti nel caso della legislazione eutanasica nazista.
Vi sono diversi modi di distinguere, con differenti specificazioni, le varie situazioni empiriche in cui può ricorrere la nozione di eutanasia. La distinzione tra 'eutanasia attiva' ed 'eutanasia passiva' (o, con altra terminologia strettamente equivalente a questa, tra 'eutanasia positiva' ed 'eutanasia negativa') fa riferimento quasi esclusivo al comportamento di chi ha a che fare con la morte di un essere umano. In quest'ottica - che è prevalentemente quella dei medici e del personale sanitario, o, in casi più rari, quella di qualsiasi persona che accudisca un familiare ammalato - si distingue dunque tra l'eutanasia attiva, ovvero un'azione positiva che ha come suo effetto diretto e voluto la morte, e l'eutanasia passiva, in cui la morte è piuttosto una conseguenza negativa di un'omissione o di una mancanza d'intervento (cfr. J. Ladd, Positive and negative euthanasia, in Ladd, 1979, pp. 164-186).
Questa distinzione tra azione diretta e omissione, al di là delle difficoltà a cui va incontro sul piano empirico, risulta poi del tutto insufficiente a precisare il significato della nozione di eutanasia, a meno che non sia accompagnata da un qualche riferimento alle particolari condizioni di colui su cui si realizza l'intervento eutanasico o alla sua volontà.
Coloro che muovono dalla distinzione tra eutanasia attiva e passiva, in realtà la collocano all'interno di una distinzione più ampia tra quattro diversi modi di trattare il morente. Questa tipologia è presente, ad esempio, sia nei documenti ufficiali della Chiesa cattolica, sia in vari discorsi e radiomessaggi di Pio XII (ad esempio quelli del 12 settembre 1947 e del 24 febbraio 1957) come nella Dichiarazione sull'eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede del 5 maggio 1980. Questa tipologia, propria della dottrina cattolica, si articola con il rifiuto, da una parte, dell''accanimento terapeutico' e, dall'altra, di entrambi i tipi di eutanasia sia attiva che passiva, e con l'accettazione di una forma di trattamento del morente che si esprime nella formula "lasciare morire con dignità" (v. Verspieren, 1984; v. Sgreccia, 1986, pp. 345-380). L'etica cattolica si è poi impegnata a rendere più chiare e facilmente utilizzabili queste distinzioni con una serie di ulteriori classificazioni e specificazioni.Il problema concettuale principale che si pone per questo approccio all'eutanasia è quello di fornire criteri per distinguere i casi più strettamente caratterizzabili come esempi di eutanasia passiva da quelli in cui ci si limita a non intervenire per lasciar morire con dignità il malato terminale e per evitare qualsiasi forma di 'accanimento terapeutico' (tra l'altro rifiutato da tutte le diverse concezioni etiche). Come forme di 'accanimento terapeutico' vanno considerati tutti quei trattamenti del morente rivolti a conservarlo in vita con tutti i mezzi terapeutici - ordinari o straordinari, proporzionati o sproporzionati - senza tener conto dei suoi desideri e, al limite, delle sue sofferenze.
Ma una volta isolati e rifiutati i casi di accanimento terapeutico, ci troviamo di fronte a un'ampia gamma di possibili trattamenti di un morente in preda a gravi e non alleviabili sofferenze. Tra questi potremo forse isolare come facilmente individuabili - per la morale cattolica - tutti quei casi in cui con un intervento si provochi intenzionalmente la morte del paziente. Si tratta di quei casi di eutanasia attiva che all'interno di questa specifica concezione etica non potranno mai essere giustificati.
Le difficoltà nascono negli altri casi, quando si tratta di distinguere tra situazioni in cui evitare l'accanimento terapeutico comporta un'accettabile scelta di fare morire con dignità e casi che si spingono fino a un'inaccettabile eutanasia passiva. Sono i casi di confine a far sorgere il problema, e ovviamente il problema che essi pongono non è strettamente un problema di classificazione, bensì di trattamento morale. È cioè illusorio pensare che si possa decidere in via definitiva, con il rinvio a criteri descrittivi rigorosi e precisi, quali siano i casi che rientrano nella nozione di eutanasia, passiva o attiva, e quali quelli invece connotabili come un positivo "lasciare morire con dignità".
Nel tentativo di fissare criteri appropriati per distinguere con nettezza i casi illeciti di eutanasia passiva da quelli in cui del tutto lecitamente si lascia morire con dignità il malato giunto alla fine della sua vita naturale, sono stati messi a punto alcuni strumenti concettuali. Lungamente e dettagliatamente illustrata è la cosiddetta 'dottrina del doppio effetto' (a cui si ricorre anche nel discutere problemi etici di ordine diverso, come quelli relativi all'aborto); questa dottrina permette di considerare leciti tutti quegli interventi che di fronte a un morente affetto da gravi sofferenze non si limitano a una inerzia passiva, ma fanno uso di analgesici con l'intenzione di alleviarne le sofferenze. Dosi crescenti di analgesico sono giustificate per rendere efficace la terapia del dolore; l'eventuale abbreviamento della vita del morente a causa di tali dosi non viene considerato come un'aggravante per tale comportamento, in quanto si tratta di un effetto secondario, non voluto, di un atto rivolto in primo luogo a determinare un risultato benefico. Difficoltà nascono lungo questa linea per identificare con precisione la natura dell'intenzione dell'agente e per calibrare le dosi dell'analgesico.
Un'altra complessa serie di nozioni riguarda la classificazione dei tipi d'intervento terapeutico. In contrasto con trattamenti che possono rientrare nell'ambito del cosiddetto 'accanimento terapeutico', si considera lecito, da parte della morale cattolica, "lasciare morire con dignità" non ricorrendo a mezzi di cura straordinari o non proporzionati laddove non vi siano possibili benefici per il morente. D'altra parte, si considera invece come una forma di eutanasia passiva l'omettere mezzi di cura ordinari e proporzionati. Come si vede questa distinzione tra i tipi di intervento s'intreccia strettamente con l'altra distinzione tra non iniziare, omettere e sospendere una cura.
Dall'intreccio di queste diverse imputazioni delle azioni od omissioni terapeutiche si sviluppa una complessa casistica, spesso contestata dai critici dell'etica cattolica. A chi intende utilizzare una tipologia del genere si obietta che è difficile distinguere tra mezzi ordinari e straordinari essendo questa distinzione strettamente correlata alla singola situazione e variabile sulla base degli sviluppi della medicina.Un'altra obiezione viene rivolta alla possibilità di distinguere categoricamente e in modo eticamente rilevante tra azioni e omissioni. Va comunque riconosciuto che la strategia etica che stiamo illustrando ha la capacità di rendere conto in modo spesso fecondo dei complessi scrupoli che sorgono al capezzale di un morente, in alcuni casi aiutando a identificare innegabili problemi morali. Ad esempio l'ampio dibattito sulle differenze sotto il profilo etico tra strumenti vicarianti le funzioni biologiche (alimentazione, idratazione e respirazione) e altri strumenti in uso nei reparti medici ha reso particolarmente feconda ed eticamente significativa la discussione di tutti i vari casi in cui parenti o giudici abbiano dovuto decidere, di fronte a un essere umano, in fin di vita, se 'collegarlo' a un determinato strumento o 'staccare la spina'. Gli anni ottanta hanno visto un'ampia partecipazione pubblica alla discussione su casi di questo genere: dal trattamento nei confronti di persone in coma permanente (per esempio il caso di Karen Quinlan: v. Rachels, 1986, pp. 109 ss.) al trattamento di neonati con gravissimi handicap (per esempio la neonata americana Jane Doe: ibid., pp. 69 ss).
L'approccio al problema morale dell'eutanasia che muove dalla distinzione tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva sviluppa in particolare il punto di vista di chi si trova di fronte alla decisione se compiere o meno un atto eutanasico e considera meno feconda eticamente una riflessione approfondita sulle condizioni del morente e sui suoi desideri. Ma un'adeguata trattazione etica della situazione eutanasica richiede la sintesi tra diverse prospettive; a questo scopo, oltre che fare riferimento a distinzioni che riguardano prevalentemente il medico, o chi potrebbe svolgere un'azione eutanasica, occorre tener conto delle richieste e delle condizioni oggettive del morente. Proprio questa diversa prospettiva, che mette in primo piano la responsabilità e la possibilità di scelta del paziente affetto da una grave malattia, è stata particolarmente sviluppata negli ultimi decenni.Tale prospettiva ha elaborato una propria classificazione delle diverse situazioni che distingue tra 'eutanasia volontaria', 'non volontaria' e 'involontaria'. Assumendo il punto di vista del morente, viene in primo piano la distinzione tra un atto eutanasico che tenga conto della volontà esplicitamente manifestata dal morente e un atto eutanasico che, eventualmente, non possa farvi riferimento.
Possiamo così considerare un'eutanasia volontaria (v. Singer, 1979, pp. 130-152) quella attivamente operata su un morente che l'abbia esplicitamente richiesta. Considereremo eutanasia non volontaria quella che coinvolge un essere umano che non sia in grado di manifestare la propria volontà. A questo proposito, occorrerà distinguere tra un essere umano che non sia biologicamente in grado di esprimere una volontà (è il caso ad esempio di un neonato anencefalico o di un neonato con gravissimi handicaps) e un essere umano che - pure avendo avuto in precedenza tale capacità - si trovi ora in condizione di averla perduta (è il caso di una persona in coma). Dal punto di vista oggettivo queste due situazioni vanno tenute distinte e si deve ritenere che, nel caso di un essere umano che non sia più in condizione di esprimere la sua volontà, si ponga in primo piano l'esigenza (che non può presentarsi nell'altra situazione) di conoscere se avesse espresso in precedenza una qualche volontà. L'eutanasia involontaria infine è quella che coinvolge un essere umano che subisce un intervento eutanasico indipendentemente dalla sua volontà, in quanto o non gli è stato chiesto di esprimerla, anche se era in condizione di farlo, o ha addirittura negato il suo consenso.
Ove sia possibile determinare la volontà del morente in un tempo precedente alla situazione (rinvio a un testamento 'biologico' o alla testimonianza dei parenti), i casi di 'eutanasia non volontaria' finiscono con il rientrare nella classe dei casi di 'eutanasia volontaria'. Ma ben diversamente stanno le cose quando ci si trovi di fronte a un essere umano (un neonato con gravi handicaps) che non è e non è mai stato in grado di esprimere una propria volontà, o a un essere umano che, pur avendone avuto la possibilità in passato, non ha mai espresso la propria volontà e ora si trova in coma o in una condizione che non gli permette di manifestarla. Visti da questa prospettiva, i casi di 'eutanasia non volontaria' pongono in primo piano la questione del ruolo che può essere dato alla volontà di genitori o parenti o medici (e ai modi per stabilire priorità in questo ambito o per dirimere eventuali conflitti di pareri) e la questione della disponibilità o meno - e ciò ovviamente vale in particolare per i neonati - di criteri precisi per misurare la qualità di vita che possiamo prevedere per un certo essere umano.
Presupposti necessari perché eventuali casi possano essere fatti rientrare in una categoria come quella di 'eutanasia non volontaria' sono l'effettiva impossibilità di disporre della volontà propria dell'essere umano coinvolto e condizioni oggettive inequivocabili che facciano nascere la riflessione sul se e come favorire una morte dignitosa (v. Kuhse e Singer, 1985). La mancanza di una volontà esplicita da parte del morente e il riferimento a un presunto criterio oggettivo di ciò che è dignitoso o meno per lo stesso, eliminano comunque quella componente essenziale di richiesta personale da parte del morente che risulta tratto distintivo della nozione di eutanasia in senso stretto. Se si definisce in questo modo tale nozione, non si potranno assolutamente connettere con essa i cosiddetti interventi di 'eutanasia involontaria', fatti contro la volontà del morente, che - come quelli previsti dalla legislazione nazista - possono risultare dei veri e propri omicidi. In definitiva, non sono di pertinenza della riflessione sull'eutanasia tutti quei casi in cui non si possa fare riferimento a una qualche volontà espressa dal morente.
L'altro fattore essenziale che legittima l'uso della nozione di eutanasia riguarda l'accertamento delle condizioni oggettive del morente. Un intervento non sembra infatti poter essere legittimamente considerato eutanasico qualora non possa fare riferimento alle gravi condizioni dell'essere umano sul quale viene realizzato. Le discussioni a proposito delle condizioni oggettive che giustificano un atto eutanasico si sono sviluppate in due diverse direzioni: le condizioni oggettive del malato che chiede un intervento di tale tipo; le procedure attraverso le quali tale richiesta va accertata e valutata (v. Rachels, 1986).
Per quanto riguarda le condizioni del malato che chiede l'intervento eutanasico, si è insistito sulla necessità che ci si trovi di fronte a una malattia terminale con gravi sofferenze e decorso progressivamente negativo. Riflettendo approfonditamente sulla componente di sofferenza soggettiva si è presentata l'esigenza di distinguere le richieste eutanasiche che nascono da sofferenze fisiche e organiche da quelle che nascono da sofferenze, anche forti, legate a sindromi depressive o a malattie a base psichiatrica (una distinzione peraltro non priva di difficoltà). Infine, del tutto legittimamente, si è fatta valere la richiesta di intervenire a monte, sulle condizioni dei malati terminali in modo tale da evitare quelle condizioni di abbandono e abbrutimento che favoriscono il sorgere della richiesta di eutanasia. In questo contesto si è parlato dell'opportunità di evitare una vera e propria 'eutanasia da abbandono', sostenendo che la richiesta eutanasica il più delle volte è il sintomo di uno stato di completo abbandono psicologico in cui viene lasciato il malato (v. AA.VV., 1988). Si suggerisce così un comportamento pratico di cura e conforto nei confronti dei morenti che vanno sostenuti affettivamente e psicologicamente. Ma anche dando per scontato che un tale modo di procedere possa ridurre a proporzioni minime le richieste eutanasiche, il problema che resta aperto è quello di quale sia l'atteggiamento eticamente adeguato nei confronti di quei pochi che per le loro condizioni oggettive comunque ribadissero la richiesta eutanasica.
La discussione coinvolge infine le procedure idonee per il riconoscimento della richiesta eutanasica. Sono state suggerite diverse procedure formali e diversi protocolli; sembra comunque generalmente accettata l'utilizzazione dei seguenti criteri: 1) la richiesta va accolta da uno o più medici (si insiste sul fatto che tra i medici debba essere incluso anche il medico curante, ma non solo questo) che daranno corso ai necessari controlli diagnostici; 2) la richiesta deve essere ripetuta un certo numero di volte; 3) la richiesta può essere revocata in qualsiasi momento dal morente. Nel quadro di questo approfondimento delle condizioni oggettive si è sviluppata una discussione sul momento in cui possa essere avanzata una richiesta eutanasica che sia in qualche modo da ritenersi vincolante e legittima dal punto di vista formale. Se l'eutanasia è strettamente limitata, come dovrebbe, a casi in cui vi sia una volontà espressa che richiede un atto eutanasico, il problema che si pone è se tale volontà debba essere sempre espressa immediatamente prima dell'atto stesso. Le diverse condizioni che caratterizzano oggi il morire e la concreta possibilità di sopravvivenza, anche per lunghi periodi, in condizioni di coma vegetativo o comunque a seguito di menomazioni tali da non rendere più possibile la comunicazione con altri, hanno fatto sorgere l'esigenza che una volontà eutanasica possa essere manifestata anche in un momento lontano dallo stato di menomazione o di grave malattia. Affronteremo queste discussioni legate al cosiddetto living will, o testamento biologico o testamento di vita, in un apposito capitolo dedicato alla cosiddetta 'carta di autodeterminazione'.
Una volta chiarite le nozioni in gioco, possiamo passare a illustrare le diverse posizioni etiche che si confrontano. Non sembra esserci disaccordo nel rifiuto di quello che si caratterizza come un atteggiamento di 'accanimento terapeutico'. La difesa di una posizione di cosiddetto 'accanimento' può derivare da un'interpretazione rigida dei doveri professionali del medico, visto come colui che deve fare sempre e comunque tutto ciò che è possibile per mantenere in vita il paziente. Ma a partire dagli anni ottanta, in un gran numero di paesi occidentali i codici deontologici - abbandonando qualsiasi rigidità paternalistica - hanno presentato i doveri dei medici contemperando lo specifico dovere di beneficenza legato alla professione medica con il rispetto dell'autonomia del paziente.I problemi principali nascono per quella che abbiamo caratterizzato come eutanasia volontaria o, lungo l'altra linea analitica, attiva. Fino a che punto può essere moralmente giustificato un intervento attivo là dove un malato terminale gravemente sofferente chieda, in piena consapevolezza, ripetutamente e in presenza di una prognosi negativa, di essere aiutato a morire?
Una risposta di rifiuto assoluto viene data dai sostenitori di quell'etica che viene comunemente chiamata etica della sacralità della vita (v. Beretta, 1977; v. Sgreccia, 1986; v. Verspieren, 1984). Si tratta di una concezione che è identificabile con alcune etiche religiose, quale, ad esempio, quella sostenuta dalla Chiesa cattolica nei suoi documenti ufficiali. La tesi a monte di questa posizione è che la vita umana sia un bene indisponibile da parte degli esseri umani e che debba essere considerata come un dono dell'Autore della natura. Da questo presupposto consegue che sia per il suo inizio come per la sua fine la vita di ciascun essere umano dipende dalle decisioni della divinità. Vi è dunque un divieto assoluto sia nei confronti del suicidio che nei confronti della richiesta di eutanasia, come anche rispetto ad azioni rivolte intenzionalmente a porre termine alla vita di qualcuno o a facilitarne la fine. Non esistono attenuanti: dal punto di vista morale si tratta sempre di omicidio, di intromissione su un piano che è affidato alla sola volontà divina. Per il morente il dovere è sempre quello di tenere con coraggio la propria posizione - anche in presenza di gravi sofferenze - aspettando il termine naturale della propria vita. Per chi si trova accanto al morente - medico o familiare - il dovere è sempre quello di dargli sollievo e sostenerlo accompagnandolo alla sua fine. Una concezione analoga può ritrovarsi in alcune etiche non religiose, come nella teoria dei sentimenti morali di A. Smith (v., 1759; tr. it., pp. 385-397) e nella filosofia pratica di Kant (v., 1775-1781; tr. it., pp. 169-177).
In alternativa a questa concezione si collocano invece tutte quelle etiche che non ritengono la vita umana come un bene assolutamente indisponibile. Il punto di passaggio per queste etiche è costituito dall'accettazione della liceità del 'suicidio razionale'. Una posizione del genere emerge nel saggio di David Hume Sul suicidio. In questo saggio, da una parte si mostra la contraddittorietà della posizione dei sostenitori della indisponibilità della vita umana, costretti per coerenza al più completo fatalismo e a evitare anche azioni di soccorso nei confronti di chi sta morendo per un incidente; dall'altra, Hume afferma la completa liceità del suicidio nel caso in cui si siano soddisfatti gli obblighi verso gli altri e ci si trovi in condizioni insostenibili (v. Hume, 1777). L'accettazione del suicidio razionale rappresenta, sul piano etico, la premessa di qualsiasi eventuale accettazione dell'eutanasia.
Va precisato che le posizioni etiche che tendono a riconoscere una liceità all'atto compiuto da qualcuno per andare incontro a una richiesta volontaria di eutanasia propendono a considerare un'azione del genere come un'azione 'super-erogatoria', ovvero non strettamente obbligatoria e doverosa. Viene, cioè, ampiamente accettato il principio secondo cui un'azione del genere non può essere considerata un obbligo strettamente giuridico, ovvero imposta per legge. Ne consegue che, una volta affidata alla coscienza morale di ciascuno la decisione su un'eventuale azione eutanasica, qualsiasi intervento giuridico dovrà salvaguardare la cosiddetta obiezione di coscienza.
Passando alle argomentazioni etiche a favore dell'eutanasia attiva, ove ovviamente tutte le condizioni necessarie siano state soddisfatte (ripetuta e continuativa richiesta da parte di un morente affetto da malattia terminale - riscontrata da più medici - a decorso negativo e con gravi sofferenze), si delineano due diverse 'strategie'. Da una parte si collocano coloro che tendono a considerare un aiuto in tale caso come nient'altro che un prolungamento di un suicidio razionale, una forma di suicidio assistito, in cui chi interviene intende far valere il diritto di ciascun essere umano di disporre autonomamente della propria vita e dunque della propria morte. In questi casi si giunge ad affermare un vero e proprio 'diritto a morire' con dignità come parte integrante dell'autonomia di ciascuna persona umana (cfr. J. Feinberg, Voluntary euthanasia and the inalienable right to life, in Cohen e altri, 1981, pp. 245-275; v. Engelhardt, 1986, pp. 345-365; e, per una discussione con vari distinguo, v. Jonas, 1985).
Dall'altra parte si collocano invece quanti - ad esempio su basi utilitaristiche - fanno valere, oltre al rispetto della volontà del morente, la riduzione di inutili sofferenze che si realizza con un intervento eutanasico (v. Glover, 1977, pp. 182-202; v. Singer, 1979, pp. 130-152; v. Kuhse, 1987). Va nettamente distinta da queste due diverse strategie, quella concezione che considera come unica possibile giustificazione di un atto eutanasico un effettivo sentimento di benevolenza, amore o compassione da parte di chi vede le sofferenze del morente e accede alla sua richiesta di essere sollevato dal peso della vita. I fautori delle concezioni etiche dei diritti e utilitaristiche tendono, invece, a considerare fragile e opinabile un criterio giustificativo dell'atto eutanasico che si basi sui sentimenti in gioco.
Naturalmente molti altri sono gli aspetti coinvolti nel dibattito etico sull'eutanasia. Così, un punto largamente discusso è quello della liceità di un atto eutanasico visto sotto la luce di una pericolosa infrazione - dalle conseguenze devastanti - a un principio universale di difesa della vita umana. Uno degli argomenti fatti valere più frequentemente contro il riconoscimento di una qualche liceità dell'eutanasia - e ovviamente soprattutto quando è in gioco un riconoscimento giuridico - è che, pur accettando che possa essere ammissibile un singolo caso, deve poi prevalere comunque la salvaguardia di un principio universale (non uccidere) che non va indebolito con nessuna eccezione, per evitare esiti imprevedibili. A questo tipo di argomentazione si risponde spostando la discussione sul piano, per così dire, metaetico e contestando che l'etica sia caratterizzata dalla presenza di principi assoluti ed enunciati in termini generici. Nulla vieta che si elaborino regole più specifiche che, in luogo d'indebolire il principio generale del non uccidere, lo rendano più concreto, ad esempio formulandolo con una enunciazione pur sempre universale quale 'non uccidere mai un essere umano, tranne quando egli stesso richieda ripetutamente la sua morte essendo affetto da una grave malattia terminale che gli procura sofferenze insostenibili e non alleviabili farmacologicamente o con il conforto psicologico'. Resta aperto, naturalmente, il problema di quale valutazione etica dare di un principio del genere, e ciò indipendentemente da quale debba e possa esserne la regolamentazione pratica e giuridica.
Negli ultimi anni, in particolare negli Stati Uniti, la questione dell'eutanasia si è strettamente collegata con quella del riconoscimento da dare, sul piano etico e giuridico, al cosiddetto living will, ovvero 'carta di autodeterminazione' o 'testamento biologico' o 'testamento di vita'. La questione nasce là dove si accetti il principio generale della disponibilità da parte di ciascuno della propria vita. I problemi che ne conseguono sembrano essere poi in linea di massima piuttosto tecnici e giuridici che strettamente etici. Infatti, tutta la discussione sulla carta di autodeterminazione sembra ruotare non tanto sul valore morale da riconoscere a tale carta (valore implicito nel fatto stesso che viene formulata), quanto piuttosto sulla formulazione precisa delle varie parti che la costituiscono e sul peso che una tale carta può avere sulle azioni altrui, non solo da un punto di vista genericamente morale, ma proprio da un punto di vista giuridico. La questione è dunque quella di un'eventuale codificazione delle carte di autodeterminazione. Anche se non sempre tali carte si spingono fino a presentare esplicitamente una richiesta di eutanasia volontaria, esse sono formulate in modo tale che la questione di un loro riconoscimento giuridico è strettamente correlata con la discussione circa l'accettabilità, sul piano giuridico, di una volontà eutanasica e dunque di una depenalizzazione dell'eutanasia attiva.
Viene spesso affrontata la questione di un'eventuale analogia generale tra una carta di autodeterminazione, o testamento biologico, e qualsiasi altra volontà espressa per via testamentaria. Per uniformare quanto più è possibile il testamento biologico ad altri tipi di testamento sono state proposte vere e proprie formalizzazioni, sia per quanto riguarda le clausole da sottoscrivere sia per quanto riguarda l'indicazione di una o più persone a cui si affida il compito di garantire che sia salvaguardata la volontà espressa.
Non sono obiezioni insuperabili contro il testamento biologico quelle che cercano di infirmarlo richiamando i pericoli legati all'eventualità che il testatario possa mutare i propri desideri sulla sua vita e sulla sua morte (per una obiezione del genere, cfr. S.H. Kadish, Consenso a morire e pazienti incapaci, in Stortini, 1992, pp. 189-210). È l'ultima volontà espressa consapevolmente quella eticamente rilevante, anche se essa va in senso contrario a un documento già sottoscritto. La volontà espressa nella carta di autodeterminazione sulle condizioni della propria morte e che si spinga eventualmente fino a richiedere un intervento di eutanasia attiva diventa un punto di riferimento - più o meno vincolante sul piano etico e giuridico a seconda delle diverse morali e codificazioni - solo là dove la persona in questione non sia più in grado di manifestare i suoi desideri. In una situazione del genere, la disponibilità di una carta di autodeterminazione potrà evitare che si presuma che la volontà del morente sia quella di una continuazione in tutte le condizioni, e con tutti i mezzi, della sua vita (v. Engelhardt, 1986, pp. 347-364).
Secondo la concezione che è alla base della redazione e sottoscrizione di 'carte di autodeterminazione' non può esserci incertezza sul fatto che la volontà espressa nel testamento biologico debba prevalere sull'eventuale volontà contrastante di un parente o convivente del morente. Il principio sul quale si regge tutta l'autorevolezza etica di cui può disporre la carta di autodeterminazione è quello di autonomia, e dunque non si vede come si possa indebolire questo principio dando la prevalenza alla volontà di una persona diversa da quella direttamente coinvolta. Chi ritiene doversi considerare prevalente la volontà altrui in realtà opta per un'etica in cui il principio di beneficenza - ammesso che la continuazione della vita di un essere umano in certe condizioni possa essere un bene - ha comunque la prevalenza su quello di autonomia.Indipendentemente dalla forza vincolante oggettiva che può essere riconosciuta al testamento biologico, va comunque affrontata la questione di una sua precisa formulazione. Non si tratta solo, come si è detto, di individuare uno o più garanti della sua osservanza e di prevedere un annullamento in presenza di una diversa volontà del testatario, ma anche di elencare con precisione le condizioni previste e le richieste avanzate. Per quanto riguarda queste ultime nelle carte di autodeterminazione è sempre presente la richiesta di sospendere le cure e talvolta, esplicitamente, quella di sospendere forme artificiali di alimentazione, idratazione ecc. Per quanto riguarda le condizioni previste quali basi per l'attivazione delle richieste sottoscritte, si fa in genere riferimento a un eventuale stato d'incapacità fisica e mentale di esprimere la propria volontà. Frequente è anche un esplicito rinvio a gravi malattie in fase terminale, a irreversibili lesioni invalidanti del cervello ecc. Non manca l'inclusione nelle carte di autodeterminazione di disposizioni relative all'uso del proprio corpo dopo la morte (trapianti, cremazione ecc.).
In numerosi paesi occidentali (dagli Stati Uniti fino - negli ultimi anni - alla stessa Italia) si è costituito un movimento d'opinione rivolto a favorire la diffusione delle carte di autodeterminazione. Questo movimento tende a realizzare una trasformazione del costume, con il riconoscimento e l'accettazione di differenti stili etici relativi alla propria vita e alla propria morte. Al di là di questo, si tende poi a una revisione delle leggi relative all'eutanasia volontaria e attiva.
La questione dell'eutanasia è solo indirettamente collegata con la recente discussione sull'accertamento della morte. Rinviamo dunque ad altro articolo (v. Morte) l'esame delle discussioni contemporanee sulla definizione di morte e sui vari modi di caratterizzare la morte cerebrale. Ci limitiamo a sottolineare che una particolare definizione di morte cerebrale può influenzare il dibattito sull'eutanasia, in quanto incide sulla formulazione delle condizioni previste nel testamento biologico e in quanto segna con chiarezza il confine tra atti eutanasici e mere registrazioni della morte di un essere umano per alcuni dei pazienti ricoverati nei reparti di rianimazione o di terapia intensiva degli ospedali (v. Lamb, 1985; v. Veatch, 1989²).
Va inoltre rilevato che la crescita del movimento che favorisce la sottoscrizione di carte di autodeterminazione rappresenta una testimonianza della sempre più larga diffusione nell'opinione pubblica della volontà di essere considerati morti a tutti gli effetti laddove le attività cerebrali siano cessate in modo irreversibile. È peraltro difficile ritenere che si possa arrivare in tempi brevi a una codificazione giuridica che lasci spazio alle opinioni di ciascuno sulla propria morte. Non si può invece escludere uno spostamento dell'asse della discussione sulla morte cerebrale in una direzione meno impermeabile alla considerazione della rilevanza delle attività corticali specialmente sulla base di un approfondimento della discussione dei problemi posti dai neonati anencefalici. (Cfr. M. B. Green e D. Wikler, Brain death and personal identity, in Cohen e altri, 1981, pp. 49-80).
Negli ultimi decenni si è anche sviluppata un'ampia discussione su un problema più specifico, se all'eutanasia attiva occorresse dare un qualche riconoscimento giuridico e, in caso positivo, di che genere. Già a livello teorico il dibattito è stato caratterizzato da una notevole prudenza e non è stato infrequente il caso di fautori di un riconoscimento della liceità dell'eutanasia attiva sul piano etico che hanno invece auspicato una posizione meno innovativa sul piano giuridico (v. Rachels, 1986, pp. 177-195). La proposta più frequente a livello teorico non è quindi stata quella di dare corso alla creazione di una fattispecie giuridica per l'eutanasia volontaria e attiva che ne ammettesse la non punibilità, quanto piuttosto quella di introdurre una serie di attenuanti all'interno di una regolamentazione che in prima istanza facesse rientrare comunque gli atti eutanasici sotto la fattispecie dell'omicidio. Una precisa codificazione di attenuanti legate ad atti di eutanasia è prevista solo dalla legislazione olandese (si rinvia a una complessa procedura per accedere a interventi eutanasici, ferma restando la possibilità di una obiezione di coscienza; v. Gevers, 1987). Negli altri paesi europei (come ad esempio in Italia), i codici prevedono solo la possibilità di attenuanti connesse alle motivazioni umanitarie dell'atto. Nei primi anni novanta codificazioni a favore dell'eutanasia attiva e volontaria sono state adottate in Danimarca e Olanda.
Più complessa è la situazione in un paese come gli Stati Uniti, in cui - trattandosi di un paese di common law - non è posibile far riferimento a un codice positivo scritto e promulgato da un governo centrale, ma piuttosto a sentenze di differenti tribunali (e di Stati diversi) che insistono spesso su aspetti molto specifici del caso in esame. Non sono mancati in anni recenti sentenze che hanno autorizzato a sospendere il ricorso a strumenti artificiali in presenza di persone in coma vegetativo persistente, specialmente sulla base di una richiesta dei parenti. Si sono poi avute autorizzazioni - casi analoghi si registrano anche in Australia - di cessazione di interventi nel caso di bambini anencefalici, anche se la procedura seguita è tuttora oggetto di controversia.Il dibattito sull'eutanasia negli Stati Uniti si è spinto fino a sottoporre a referendum, in alcuni Stati, l'introduzione di un riconoscimento di procedure eutanasiche: in questi referendum la linea pro-eutanasia è risultata battuta sia pure di stretta misura. Negli Stati Uniti, più che in altri paesi occidentali, si sente la presenza di un forte movimento per ottenere un qualche riconoscimento giuridico ai testamenti biologici, un movimento che si spinge fino a richieste eutanasiche. L'aumento di casi di cosiddetti 'vegetali umani' presenti nei reparti di terapia intensiva ripresenta continuamente il problema se esseri umani in queste condizioni debbano ancora essere considerati effettivamente in vita.Un altro vivace dibattito collegato con la tematica eutanasica è quello che ha investito i due casi in cui il dottor Jack Kevorkian ha utilizzato la macchina da lui appositamente costruita per realizzare quella pratica che egli presenta come una forma di 'medicidio' (v. Kevorkian, 1991). La questione è quella di decidere fino a che punto l'uso di questa macchina possa essere considerato una forma di assistenza al suicidio e fino a che punto, invece, si tratti di una vera e propria eutanasia attiva. Basti, a questo proposito, ricordare che è stato aperto un processo di omicidio nei confronti del dr. Kevorkian. La discussione giuridica sull'eutanasia negli Stati Uniti risulta molto complessa anche perché non mancano azioni giudiziarie rivolte a far valere gli interessi di coloro che possono essere danneggiati da un prolungamento della vita di esseri in coma vegetativo o che, per un mancato intervento, possono avere una vita qualitativamente inaccettabile. L'ampliarsi delle zone del diritto che vengono fatte dipendere da stipulazioni consensuali o da accordi sta favorendo la diffusione di posizioni pro-eutanasiche.
Anche in Europa sono presenti forti spinte in questa direzione; basti qui ricordare il progetto di assistenza ai malati terminali presentato al Parlamento europeo da Léon Schwarztenberg il 30 aprile 1991 (v. Comitato Nazionale per la Bioetica, 1991). Tale proposta ha suscitato in molti paesi - compresa l'Italia - un'ampia discussione pubblica, che ha mostrato come quella dell'eutanasia sia questione tutt'altro che marginale. È da prevedersi la continuazione di un vivace dibattito su questi problemi fino a quando non emergeranno soluzioni condivise o procedure idonee per affrontare tutti i problemi apertisi con i mutamenti nelle condizioni del morire degli esseri umani, segnati dagli sviluppi della medicina, della biologia e delle condizioni sociali.
(V. anche Etica; Morte)
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