Eutanasia
Con il termine eutanasia (dal greco εὐθανασία, composto di εὖ, "bene", e dal tema di θάνατος, "morte", letteralmente "buona morte") si indica la condotta, sia attiva sia omissiva, che abbrevia la vita di un malato gravemente sofferente (v. bioetica). L'eutanasia attiva può realizzarsi, per es., somministrando al paziente un farmaco a dosi letali; l'eutanasia omissiva, o passiva, consiste nella mancata somministrazione delle cure necessarie alla sopravvivenza del soggetto. Poiché l'eutanasia passiva si realizza nella non attuazione di terapie dovute e proporzionate, anch'essa è da considerarsi attiva nell'intenzione di accelerare la morte. Si può dunque dire che le due forme si differenziano nei mezzi impiegati, ma non nelle intenzioni.
1.
Una prima forma di eutanasia è quella detta genetica, basata essenzialmente su considerazioni economico-demografiche, cui si aggiungono a volte argomentazioni di carattere umanitario. In questa prospettiva, poiché si ritiene che la vita del malato terminale - e, più in generale, quella di soggetti deboli, come i portatori di handicap gravi - abbia scarso valore intrinseco, essendo bassa la qualità di vita, e ancora più scarso valore sociale, in quanto essa è improduttiva e fonte anzi di notevoli oneri per la comunità, si attribuisce alla società il diritto di sopprimerla. Più specificamente, l'eutanasia ha la finalità indiretta di impedire la riproduzione dei pazienti che sono affetti da malattie a base genetica, prevenendo così la diffusione di tali patologie nella popolazione. In questo contesto si parla più esattamente di eutanasia eugenetica (v. eugenica).
Questa concezione è chiaramente ispirata al principio biologico della selezione naturale: la pratica dell'eutanasia non farebbe altro che accelerare e razionalizzare il processo naturale per il quale il soggetto debole, che rappresenta un peso e un potenziale danno per la comunità, è comunque destinato a soccombere. Erede della mentalità positivistica ottocentesca, e in particolare del filone di ispirazione malthusiana, interessato a trasferire sul piano sociale i meccanismi della biologia delle popolazioni, una simile concezione diventò a sua volta fonte di ispirazione delle utopie totalitarie del 20° secolo, messe in satira nel Brave new world di A. Huxley (1932) e poi tristemente realizzatesi nell'Euthanasie-Pro- gramm del nazismo, che legittimava la Gnadentod, "morte caritatevole", per le lebensunwerte Leben, "vite prive di valore vitale". In base a questo programma, alla fine degli anni Trenta in Germania oltre 70.000 individui - in buona parte, portatori di handicap - vennero silenziosamente soppressi; nello stesso periodo aveva inizio su grande scala la 'soluzione finale' del problema ebraico, anch'essa finalizzata, nelle intenzioni dei promotori, alla tutela economico-demografica della società tedesca. Una seconda forma di eutanasia è quella che si propone di salvaguardare due beni fondamentali del paziente: la qualità di vita e la libertà di scelta. In questo caso l'eutanasia si configura come scelta del paziente di non continuare a vivere in condizioni per lui intollerabili. Un'esemplare formulazione di essa è contenuta nella discussa proposta di risoluzione sull'assistenza ai malati terminali formulata, nel 1991, da L. Schwartzenberg al Parlamento europeo. In particolare, il punto 8 del documento recita: "Mancando qualsiasi terapia curativa e dopo il fallimento delle cure palliative [...], ogni qualvolta un malato pienamente cosciente chieda in modo insistente e continuo che sia fatta cessare un'esistenza ormai priva per lui di qualsiasi dignità, e un collegio di medici costituito all'uopo constati l'impossibilità di dispensare nuove cure specifiche, detta richiesta deve essere soddisfatta senza che in tal modo sia pregiudicato il rispetto della vita umana" (Documenti di seduta del Parlamento europeo, ed. it. A3-109/91, 30 aprile 1991).
Tale formulazione dell'eutanasia prevede un coinvolgimento in primo piano del medico curante, il quale è chiamato sia a constatare l'impossibilità della prosecuzione delle cure, sia ad aiutare il paziente nella realizzazione della sua scelta eutanasica. Essa ha avuto una prima forma di legittimazione in una legge approvata dal Parlamento olandese, la quale, pur non legalizzando ufficialmente l'eutanasia, ha di fatto reso non punibili i medici che la praticano. Una forma di filosofia eutanasica è riscontrabile pure alla base dell'operato del medico statunitense J. Kevorkian, il quale ha realizzato un dispositivo che consente ai pazienti di autosomministrarsi iniezioni letali. In questo caso, il medico si limita a prendere atto della volontà del paziente e a fornirgli lo strumento di autosoppressione, che potrà però essere attivato solo dal paziente stesso.
È evidente la differenza tra la forma di eutanasia che si è ora descritta e l'eutanasia genetica. Mentre quest'ultima aveva la sua ragion d'essere nella subordinazione degli interessi del singolo a quelli dello Stato, l'altra trae in buona parte la propria ispirazione dalla filosofia individualistica dei paesi di più antica tradizione liberale: facendo riferimento al principio di autodeterminazione del singolo, si riconosce al soggetto affetto da malattia grave e inguaribile il diritto di porre fine alla sua vita, essendosi questa apparentemente ridotta a mera sofferenza.
Una terza forma di eutanasia è quella a volte definita come lenitiva, o indiretta, e si verifica quando il decesso del paziente è una conseguenza indiretta dell'uso dei farmaci analgesici somministrati. Di fatto, gli analgesici più potenti, soprattutto i morfinici, se usati in alte dosi, possono deprimere le funzioni cardiorespiratorie del paziente e, in teoria, portare alla loro cessazione, specialmente quando esse siano già compromesse da una malattia avanzata. Due precisazioni sono però necessarie. Va ricordato, anzitutto, che la terapia antalgica è realizzabile mediante molteplici approcci, e che solo di rado i farmaci analgesici vengono utilizzati a dosi tali da determinare depressione cardiorespiratoria. In secondo luogo, è necessario distinguere tra il caso in cui la depressione delle funzioni vitali del paziente è una conseguenza realmente indiretta, e non voluta, della somministrazione dei farmaci analgesici e il caso in cui tale conseguenza è cercata come effetto principale. In quest'ultima evenienza tale tipo di eutanasia coincide con il precedente e il farmaco analgesico diviene semplicemente lo strumento con il quale l'eutanasia stessa viene posta in atto. Ancora una volta sembra opportuno evidenziare come la natura eutanasica dell'intervento medico si collochi anzitutto al livello delle intenzioni.
Da quanto detto, si può concludere che l'uso della locuzione eutanasia lenitiva in riferimento alla terapia del dolore è scorretto e foriero di pericolose ambiguità. Parimenti non può essere chiamata eutanasia l'astensione dall'accanimento terapeutico, che può essere definito un trattamento di documentata inefficacia in relazione all'obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e una particolare gravosità per il paziente con un'ulteriore sofferenza, e in cui l'eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica. Mentre, infatti, nell'astensione dall'accanimento terapeutico si evita il ricorso a trattamenti sproporzionati, inefficaci e non dovuti, nell'eutanasia si omettono anche gli interventi terapeutici proporzionati, efficaci e dovuti, al fine di abbreviare 'dolcemente' la vita del soggetto. Dal momento che non sussistono dubbi sulla natura di errore etico e deontologico dell'accanimento terapeutico, l'astenersi da esso è semplicemente un dovere del medico, e non ha nulla a che fare con l'eutanasia.
2.
L'eutanasia genetica si basa su presupposti scientifico-razziali non condivisibili e oggi unanimemente esecrati; tuttavia, il verificarsi di atti di genocidio e la ricomparsa dei campi di concentramento sul teatro di eventi bellici degli ultimi anni del 20° secolo ci rammentano che il rispetto della vita e della libertà dell'uomo e la rinuncia a subordinare questi valori a qualsiasi supposto interesse collettivo sono ancora lungi dall'essersi profondamente radicati. La risposta alle istanze eutanasiche attuali è invece più complessa e articolata e non può prescindere da un'obiettiva disamina delle principali motivazioni che le sottendono. La prima considerazione è di carattere antropologico. L'uomo moderno, specialmente nel mondo occidentale, è attualmente meno preparato ad affrontare il dolore e la morte. Le migliorate condizioni di vita, l'allungamento della vita media, la crescente fiducia nel progresso scientifico che ha debellato molte malattie, sono risultati in sé assai positivi, tuttavia hanno accentuato lo sconcerto e il disorientamento dell'individuo nei confronti delle malattie inguaribili, davanti alle quali la scienza sembra essere impotente.
Peraltro, il miglioramento e la razionalizzazione dell'assistenza al malato comportano spesso anche una spersonalizzazione del rapporto medico-paziente: l'arricchimento del sapere scientifico si è accompagnato a un diffuso impoverimento della componente 'umanistica' della medicina, il cui oggetto è quello di lenire anche le sofferenze psicologiche e spirituali che si accompagnano alla malattia. La disponibilità di strumenti diagnostici e terapeutici sempre più efficienti, sicuri e maneggevoli, implica il rischio di concentrare eccessivamente l'attenzione sulla valutazione degli effetti della tecnica adottata, compromettendo il delicato rapporto umano del medico con il paziente. Se l'esperienza di depersonalizzazione, che il ricovero ospedaliero porta inevitabilmente con sé, appare sopportabile al malato quando se ne prevede una conclusione fausta, lo stesso non può dirsi quando la morte appaia come una conclusione possibile o molto probabile. Se poi l'aggravamento delle condizioni generali impone il ricovero in un reparto di terapia intensiva, il disagio del paziente non fa che aggravarsi a causa delle alterazioni del ritmo sonno-veglia, della perdita quasi completa del contatto con i familiari e dell'intensità dell'aggressione diagnostico-terapeutica cui è sottoposto. A tale aggressione, naturalmente, dev'essere dato il giusto significato: essa è rivolta non al malato ma alla malattia, e il suo obiettivo è quello di una pronta diagnosi per una terapia mirata; allo stesso modo, l'isolamento fisico costituisce una misura igienico-sanitaria posta in atto nell'interesse dello stesso paziente. Peraltro, il progresso raggiunto in questi ultimi anni del 20° secolo dalla terapia intensiva ha messo a disposizione del medico rianimatore, più che di ogni altro medico, strumenti di supporto farmacologico e meccanico, che consentono di sostenere in modo sempre più efficace e durevole le funzioni vitali dell'organismo. Numerose tecniche diagnostiche avanzate permettono attualmente di tenere sotto controllo le funzioni cardiorespiratorie e cerebrali, anche in mancanza di contatto verbale o fisico tra medico e paziente. Basti pensare all'elettroencefalografia computerizzata e ai potenziali evocati, che rendono possibile la monitorizzazione dell'attività cerebrale del paziente in stato di coma e/o sottoposto a sedazione e curarizzazione e, quindi, incapace di esprimersi.
Naturalmente tali tecniche non consentono di accedere alla personalità cosciente del malato e di percepire la dimensione spirituale della sua sofferenza. In queste condizioni è innegabile che il medico di terapia intensiva sia particolarmente esposto al rischio di cadere nel tecnicismo. La medicalizzazione della malattia si estende inevitabilmente al processo del morire, rendendo la morte 'innaturale' e solitaria. L'isolamento del soggetto acuisce grandemente le sue sofferenze spirituali, che divengono forse più gravose di quelle fisiche, e l'eutanasia rappresenta, a questo punto, il disperato tentativo del malato di riappropriarsi della propria morte, sottraendosi al processo di depersonalizzazione. D'altro canto, in un'ottica tecnicista, l'eutanasia può rappresentare per il medico un mezzo estremo attraverso il quale diviene possibile controllare non più solo la malattia, ma anche la morte, decidendo il momento del suo verificarsi. Si cade, se così vogliamo dire, in una tentazione di onnipotenza: il medico diventa il depositario unico di un sapere che lo rende arbitro della vita e della morte.
A modificare ulteriormente l'odierno vissuto degli eventi malattia e morte si è aggiunta la perdita della dimensione trascendente dell'esistenza. Nella visione cristiana, infatti, l'uomo è destinato alla vita eterna e a essa deve prepararsi: la preparazione alla 'buona morte' era, fino a un recente passato, un fondamento della predicazione e della pratica devozionale individuale, così come la sofferenza, oltre a essere più pacificamente riconosciuta come una componente ineliminabile dell'esistenza, poteva essere considerata, in quest'ottica, un mezzo di espiazione. Nella concezione laica e immanente del vivere occidentale la morte e la sofferenza si qualificano unicamente come fenomeni negativi non solamente come 'male', ma anche come 'mancanza', non-essere: esperienze di annientamento totale per le quali non esiste risposta valida. L'eutanasia può apparire allora l'unico mezzo per morire umanamente, sottraendosi alla sofferenza. La morte, bisogna ricordarlo, è insieme sofferenza fisica, dovuta alla malattia che la causa, e sofferenza morale, in quanto distacco dai propri affetti e dai propri interessi terreni. La paura della morte non è altro che la paura della sofferenza che a essa si accompagna. Il malato e i suoi familiari tendono così a desiderare l'accelerazione artificiale della morte quando essa appaia inevitabile, in modo da abbreviare l'esperienza dolorosa del distacco.
In ultimo, le istanze eutanasiche possono anche rispondere al desiderio di vincere il senso di impotenza che la malattia mortale determina: essa giunge quasi sempre inaspettata, a ricordarci come il destino ci riservi eventi che sfuggono alla nostra possibilità di controllo e a cui non possiamo sottrarci. L'eutanasia può apparire, da questo punto di vista, come un mezzo per anticipare il destino, sottraendosi al suo controllo. Dietro la volontà eutanasica c'è il desiderio di riappropriarsi della propria morte, razionalizzandola, gestendola, al limite, quasi fosse un atto amministrativo. Ciò giustifica la definizione, che viene data in questi casi, di 'suicidio razionale'.
3.
La giurisdizione in vigore riconosce al malato il pieno diritto di decidere se sottoporsi o meno a qualunque procedimento diagnostico o terapeutico; nulla può essere fatto senza il suo consenso. Perché questo criterio trovi piena realizzazione, è necessario, da una parte, che il paziente abbia una piena e corretta informazione sul suo stato di salute, dall'altra, che il medico deponga qualsiasi atteggiamento paternalistico che possa rischiare di compromettere l'autonomia decisionale del malato: ambedue queste condizioni sono spesso difficili a verificarsi nelle situazioni estreme nelle quali viene proposto il ricorso a procedure eutanasiche. Va peraltro considerato che il sistema giuridico italiano non riconosce al paziente il diritto di disporre del proprio corpo fino al punto di lederne gravemente l'integrità e tanto meno di procurarsi la morte. Un trattamento finalizzato unicamente all'exitus non è quindi praticabile, e il medico, pur rispettando la volontà del malato, non può prestarsi a porlo in atto. Si potrebbe, anzi, dubitare sull'opportunità di parlare, in questo caso, di trattamento. Anche l'eutanasia passiva, intesa come sospensione intenzionale delle cure necessarie alla sopravvivenza di un individuo, è illecita, in quanto - dal punto di vista giuridico - non impedire un evento che si potrebbe evitare equivale a commetterlo. Queste considerazioni valgono a maggior ragione nel caso del paziente terminale, al quale la malattia avanzata impedisca di esprimere il proprio parere in merito al prosieguo della terapia. Il medico, infatti, è sempre obbligato a prestare le proprie cure quando manca il consenso del malato, nella presunzione che questi desideri normalmente essere mantenuto in vita. Non dovrebbero sussistere invece dubbi sulla liceità della terapia del dolore, anche quando essa comporti il rischio di un abbreviamento della vita. Tale evento rappresenta, infatti, una conseguenza prevista, ma non voluta, della terapia antalgica, che non è finalizzata alla morte del paziente, ma a rispondere alla sua legittima richiesta di essere posto in condizione di sopportare i dolori causati dalla malattia.
4.
Il dibattito sull'eutanasia è ampio e articolato e coinvolge molteplici aspetti, scientifici, giuridici, etici, religiosi. Una corretta informazione in proposito non è sempre facile da ottenere, sia per la complessità del problema, sia per le implicazioni ideologiche e i rischi di strumentalizzazione che il tema può comportare. Si può comunque dire che, malgrado la reale buona fede di una parte di coloro che propongono l'eutanasia e benché spesso sia lo stesso paziente terminale a chiedere di porre fine alla propria esistenza, esiste sul problema un equivoco di fondo. Ancora una volta si confonde la morte con la sofferenza: l'esperienza medica insegna, infatti, che il malato non vuole la morte in sé stessa, ma soltanto che le sue sofferenze vengano alleviate. E oggi più che mai sono disponibili gli strumenti per alleviarle. La terapia antalgica, quando venga applicata con rigore e competenza, è in grado, anche nei pazienti in condizioni più gravi, di eliminare il dolore fisico o, quanto meno, di renderlo sopportabile. Si tratta, è bene precisarlo, di una terapia non facoltativa, ma altrettanto importante di quella diretta alla malattia di base. Farne uso rappresenta un dovere etico e scientifico fondamentale del curante.
È, peraltro, altrettanto doveroso adoperarsi in ogni modo perché siano alleviate non soltanto le sofferenze fisiche, ma anche le sofferenze morali. Il più delle volte, anzi, come è stato riconosciuto, "il problema centrale dei malati terminali" è "di natura non fisica, ma psicologico-spirituale" e la risposta eutanasica può presentarsi come "il mezzo più rozzo, più egoistico per venire incontro a esigenze che, anziché soffocate dalla morte, potrebbero ben altrimenti essere soddisfatte" (Comitato nazionale per la bioetica 1995, pp. 66-67).
Nella genesi delle sofferenze morali del paziente terminale l'isolamento e la medicalizzazione eccessiva dell'ambiente ospedaliero svolgono, come accennato, un ruolo determinante. Per rimuovere, almeno in parte, queste condizioni è necessaria, da un lato, una maggiore integrazione tra il medico ospedaliero curante e altre componenti di non minore importanza, quali lo specialista in terapia del dolore, il medico di famiglia, lo psicologo, l'assistente spirituale, l'assistente sociale; dall'altro lato, occorre cambiare il rapporto tra l'ospedale e il territorio, incrementando lo sviluppo di strutture intermedie come il day hospital, che consente di limitare l'ospedalizzazione solo ad alcune ore della giornata, e promuovendo la realizzazione dell'assistenza domiciliare, che permette al paziente di continuare le proprie abitudini e di vivere nel proprio ambiente familiare, in definitiva conservando la propria identità. Naturalmente la riduzione dell'ospedalizzazione non deve tradursi in un parallelo disimpegno terapeutico delle strutture sanitarie: alla famiglia non va delegata né la cura né l'assistenza; a essa si deve consentire di restare vicino al malato. Si potrebbe concludere che proprio l'abbandono del paziente può diventare il terreno più favorevole perché maturi una richiesta di eutanasia: è fin troppo facile lasciare il malato alla sua solitudine e alle sue sofferenze finché queste diventino intollerabili e poi proporre di mettere fine alla sua vita. Ma così facendo sarebbero violati non soltanto il diritto insopprimibile di ciascuno alla salute, ma anche i più elementari doveri etici di fratellanza umana.
Un aspetto particolare dell'eutanasia riguarda possibili interventi selettivi sui prodotti di concepimento che si trovano in condizioni di rischio, in riferimento sia ai neonati che richiedono cure intensive prolungate, da cui potranno non uscire integri, sia anche ai feti soprannumerari che occorrono in casi di fecondazione assistita, soprattutto se eterologa. Alla nascita, quasi il 3% dei neonati, soprattutto prematuri, dismaturi e piccoli per età gestazionale, è in condizioni di rischio per la vita. Grazie all'evoluzione e alla specificità delle cure intensive, una gran parte di essi può essere recuperata e mantenuta in vita. Alcuni dei sopravvissuti, tuttavia, riportano indelebili conseguenze delle loro difficoltà iniziali sullo sviluppo neurologico e neuropsichico. Ne deriva il quesito se si debbano salvare tutti questi neonati ad alto rischio, oppure si debba ammettere che alcuni di loro - che possono essere selettivamente individuati - possano morire, in seguito a una prognosi estremamente infausta. Proprio perché è tanto difficile, per i medici, attuare principi che non operano per la vita, è quanto mai importante che medici e infermiere possano elaborare con i genitori le loro eventuali decisioni e i relativi interventi, tenendo in grande conto le risposte dei genitori stessi. Anche i medici, non solo i genitori, infatti, devono essere salvaguardati dalla responsabilità di non avere protetto a sufficienza la vita di un bambino, sia pure ad alto rischio.
È bene tener conto che nessuno, neppure un neonato ad alto rischio, vive nel vuoto assoluto. Fin dalla prima cellula asessuata la vita ha a che vedere con il contesto in cui essa si situa e con la reciprocità di scambi che le si vengono a determinare intorno. L'indirizzo della moderna ricerca embriologica assume che, a partire dalla blastocisti, oltre ai meccanismi di attivazione-repressione genica che orientano le successive tappe nel destino della cellula, altre due linee devono essere prese in considerazione: la prima rivolta a chiarire gli effetti spaziali geometrici della comunicazione tra cellule (contigue e distanti) nella costruzione dell'embrione; la seconda a studiare gli effetti esercitati sul suo sviluppo da parte dell'ambiente che la circonda. Se questo è vero per una blastocisti, tanto più dovrà essere vero per un feto o per un neonato.
Ciò induce a considerare il problema bioetico, di vita o di morte, del neonato ad alto rischio non come individuale, ma come un problema che deve essere visto in termini contestuali. Nessuno, meno che mai nei suoi stadi primari, è un individuo solo. Nessuno, quindi, che si trovi all'esterno della contestualità dell'individuo ha il diritto di decidere se c'è o meno posto per lui nel mondo. Ciò vale fin dai primi momenti della vita, sin da quando la definizione di essere umano viene attribuita a un feto nel grembo materno. Per quanto povero possa essere il bagaglio personale che questi si porta al mondo e per quanto gravi possano essere le sequele della sua battaglia per la vita, l'esperienza che quell'essere umano potrà fare nel vivere potrà essere significativa, così come potrà essere significativa, a volte determinante, per altri che vivono nel suo contesto.
In tema di selettività della vita umana, in particolare di neonati, è stato di recente segnalato da alcuni pediatri ‒ i quali hanno preso spunto da un esteso studio condotto in diversi servizi di neonatologia ‒ che si possono prendere grossi abbagli circa la prognosi a distanza di neonati apparentemente ad alto rischio (Chiswick 1990). Le considerazioni di M.L. Chiswick si possono riassumere in quattro punti, che il neonatologo dovrebbe tenere presenti prima di prendere decisioni eutanasiche. I quattro punti sono, in realtà, quattro domande che il medico dovrebbe rivolgere a sé stesso: 1) è venuta meno la mia capacità di sperare? 2) è forse l'aspetto fisico del neonato che mi scoraggia, al di là delle sue reali condizioni di vita? 3) potrei pensare di lui in modo diverso se i genitori fossero stati di continuo accanto al loro bambino? 4) le mie predizioni si basano sulle attuali conoscenze scientifiche o su idee preconcette? Quando l'aspetto etico di questa assistenza altamente specializzata viene attentamente considerato, ci si accorge del significato vitale che ha il lavorare in un gruppo di specialisti, del valore che assume una comunicazione sensibile tra i membri che lo compongono, dell'importanza di individuare le zone di maggiore responsabilità, di intervenire con tempestività, di assicurare con costanza un appoggio emozionale adeguato all'intera famiglia e agli stessi operatori neonatologi. La conclusione dello studio di Chiswick è che l'incertezza prognostica costituisce una caratteristica fondamentale della neonatologia e che, se pure i successi tecnologici possono porre l'etica in seconda linea, prima o dopo etica e tecnologia dovranno venire a patti e trovare un accordo. Questo accordo farà fare alla neonatologia un passo avanti verso una risposta più empatica e più consona al dilemma di cui sono oggetto alcuni tra i più vulnerabili esseri umani della nostra popolazione.
P. Ariès, L'homme devant la mort, Paris, Éditions du Seuil, 1977 (trad. it. L'uomo e la morte dal medioevo ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 1980).
M.L. Chiswick, Withdrawal of life support in babies: deceptive signals, "Archives of Disease in Childhood", 1990, 65, pp. 1096-97.
Comitato nazionale per la bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l'informazione e l'editoria, 1995.
F. D'Agostino, Eutanasia, diritto e ideologia, "Iustitia", 1977, 30, pp. 286-307.
E. Lecaldano, Eutanasia, in Enciclopedia delle scienze sociali, 3° vol., Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1993, pp. 709-18.
C. Manni, Accanimento terapeutico in rianimazione e terapia intensiva, in Bioetica, a cura di A. Bompiani, Roma, CIC, 1996, pp. 317-28.
Morire sì, ma quando?, a cura di P. Beretta, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1977.
E. Sgreccia, Bioetica, eutanasia e dignità della morte, in Id., Manuale di bioetica, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 631-81.
J.D. Torr, Euthanasia, San Diego (CA), Greenhaven, 1999.