EUTANASIA
(XIV, p. 651)
Nel quadro degli straordinari progressi che lungo tutto il 20° secolo, ma in modo particolare negli ultimi decenni, hanno potenziato le capacità della medicina di prolungare la vita, la constatazione che l'aggiunta di vita al malato è, in talune circostanze, caratterizzata da condizioni di invalidità e di grave sofferenza fisica e morale, ha riacceso il dibattito etico, medico e giuridico sull'eutanasia. Il tema della ''buona morte'' è dunque tornato al centro della riflessione medica e morale, con le ovvie implicazioni legali, dopo alcuni decenni di silenzio successivi alla seconda guerra mondiale, segnata dal tragico sterminio di massa che nella Germania nazista aveva fatto seguito alla promulgazione della legge sull'e. del 1939.
Nella nuova situazione, il problema della legittimità dell'e. si collega al dibattito intorno al diritto del malato di rifiutare la sostituzione artificiale delle funzioni vitali o un trattamento terapeutico che, per lo stadio raggiunto dalla malattia, avrebbe il solo scopo di ritardare il momento della morte (e. passiva volontaria). Ciò per evitare che, in talune situazioni, il cosiddetto ''accanimento terapeutico'' (cioè un trattamento terapeutico intensivo praticato in condizioni che non lasciano speranze di successo) diventi intervento lesivo della dignità della persona morente, o pretesto per sperimentazioni senza il consenso del paziente. In base a questo diritto qualcuno si è chiesto se anche il procurare direttamente la morte di un paziente che ne faccia esplicita richiesta, allo scopo di evitargli sofferenze, non trovi una sua ''nuova'' legittimità morale e giuridica.
L'atto eutanasico viene dunque giudicato in rapporto alla presenza o meno di una richiesta volontaria del malato e al modo in cui esso viene attuato, cioè passivamente o per un intervento attivo. L'e. viene detta passiva quando il medico, in seguito a richiesta del paziente, o di un sostituto legalmente investito, interrompe il trattamento terapeutico, limitandosi, nel caso, alla somministrazione di farmaci antidolorifici in attesa della morte. L'e. attiva comporta invece che il medico ponga fine deliberatamente alla vita del paziente. E. attiva e passiva volontarie possono comunque sovrapporsi, come nei casi in cui il medico pratica una terapia farmacologica contro il dolore che affretta, però, la morte del paziente. L'e. passiva involontaria, dovuta all'interruzione delle terapie di supporto vitale a pazienti in coma irreversibile, pone il delicato problema della ''decisione sostitutiva'', nell'impossibilità per il paziente di esercitare la propria volontà.
Il caso di Nancy Cruzan, risoltosi nel 1990 con l'autorizzazione della Corte Suprema degli Stati Uniti a sospendere la nutrizione artificiale della paziente che sopravviveva in uno stato persistente di coma dal 1983, è esemplare dei problemi etico-giuridici connessi a una ''decisione sostitutiva'' di rifiutare le terapie di supporto artificiale della vita. In prima istanza, infatti, la Corte Suprema del Missouri, pur riconoscendo il diritto costituzionale di una persona consapevole di rifiutare le terapie di supporto artificiale delle funzioni vitali, non ritenne dimostrabile che la richiesta dei genitori di N. Cruzan di interrompere il trattamento rispecchiasse la volontà della figlia. In entrambi i giudizi non si faceva tuttavia alcun cenno alla posizione del medico e al suo possibile ruolo nel trasformare un problema di e. passiva involontaria, in uno di e. passiva volontaria. Lo speciale rapporto che si instaura tra medico e paziente, di fatto, non soltanto pone il medico nelle migliori condizioni per interpretare la volontà del paziente, ma lo rende la figura più adatta per discutere con lui i problemi che potrebbero sorgere nel caso questi diventasse incapace di decidere sulla sua salute, invitandolo a redigere un documento contenente le proprie volontà, il cosiddetto living will (testamento di vita).
Le più antiche e diffuse religioni vietano l'e., in base al principio della sacralità della vita, così come la proibiscono, a tutt'oggi, le legislazioni di tutti i paesi, tranne l'Uruguay dove il Codice penale del 1933 prevede la non punibilità per le persone di riconosciuta probità che "commettono omicidio, motivate da compassione indotta dalle ripetute richieste della vittima". Procurare la morte prima del termine naturale viene generalmente considerato un omicidio volontario, benché con attenuanti quando si dimostri che l'uccisione ha luogo dietro esplicita e persistente richiesta di una persona sofferente e malata in modo inguaribile. Si va tuttavia affermando la tendenza, in alcuni paesi occidentali, a non perseguire penalmente il medico che pratica l'e. quando ricorrano particolari situazioni.
Da qualche anno è al centro dell'attenzione di medici, giuristi e moralisti l'esperienza dell'Olanda. In questo paese, infatti, benché l'e. continui a essere considerata un crimine, se tuttavia viene praticata da un medico secondo alcune procedure stabilite da una commissione statale, non viene perseguita. L'Associazione dei medici olandesi accettò il principio dell'e. volontaria nel 1984, anche se fin dalla metà degli anni Settanta furono dibattuti diversi processi di e. nei tribunali. La linea di difesa, accettata dalla Corte Suprema, si è basata su un articolo del Codice penale, che non ritiene responsabile chi commette un reato per causa di forza maggiore. La Corte Suprema stabilì che il dovere del medico di rispettare la legge e la vita "può essere sopravanzato dal suo dovere di aiutare il paziente, che si affida a lui, e per il quale non esiste altra alternativa che possa porre fine alle sue sofferenze se non la morte".
La linea di condotta formalmente stabilita dalla suddetta commissione esige le seguenti condizioni: una richiesta esplicita, libera, ripetuta e consapevole del paziente, che non lasci dubbi circa il suo desiderio di morire; un quadro clinico senza speranza, accompagnato da gravi sofferenze, fisiche e psichiche e determinato da uno stadio della malattia per il quale né il paziente né il medico vedono vie d'uscita; la consultazione di un altro medico (ma anche col concorso di assistenti sociali, di religiosi o altri), per controllare la sussistenza di tutte le condizioni e il rispetto di tutti gli atti dovuti, in base a cui si è deciso di procedere all'eutanasia. Il metodo utilizzato per l'e. consiste nell'indurre il sonno con barbiturici, praticando, successivamente, un'iniezione letale di curaro. Secondo alcuni esperti (cfr. de Wachter 1989) con questo sistema verrebbero sottoposti a e. annualmente in Olanda da 2000 a 10.000 malati. La stima, tanto approssimata, è difficile soprattutto perché molti medici e familiari, non desiderando di essere sottoposti agli accertamenti previsti, preferiscono una certificazione di morte per cause naturali. Accanto a questa anomala situazione, va segnalato il fatto che il Parlamento olandese non riesce tuttora a esprimere una coalizione che legalizzi questa procedura.
Lo stato presente della discussione fra chi è portato a giustificare moralmente l'e. attiva volontaria, chiedendone la legalizzazione, e chi è contrario, in modo assoluto o con alcune distinzioni, investe un insieme assai ampio di tematiche: dalle diverse concezioni sull'etica al ruolo socio-culturale del medico.
Alcuni, sulla base di un'etica utilitaristica o ''della qualità della vita'', riconoscono al malato il diritto di chiedere e ricevere dal medico l'eutanasia. Infatti, da questo punto di vista, la vita ha pieno valore soltanto se accompagnata dai requisiti del benessere fisico e della felicità, e una persona avrebbe il diritto di rinunciare alla vita quando questa viceversa comportasse insopportabili sofferenze. Il dovere del medico di prolungare la vita riguarderebbe, in tal senso, solo una vita le cui aspettative, in termini di qualità e di benessere, ne facessero desiderare, al paziente, la continuazione; prolungare la vita a una persona che consapevolmente lo rifiuta sarebbe contrario al principio dell'autonomia di scelta del singolo e, in qualche caso, al dovere del medico di alleviare la sofferenza. Negando qualsiasi alternativa di principio fra ''uccidere per pietà'' e ''lasciar morire'', chi afferma la legittimità dell'e. attiva volontaria preferisce parlare, invece che di ''uccisione pietosa'' o ''omicidio su richiesta'' (che confonderebbe aspetti etici e legali), di ''morte assistita'' o ''suicidio razionale assistito'', in quanto implicanti una decisione libera e consapevole del paziente e un ruolo comunque ''passivo'' del medico.
Per le concezioni etiche e religiose fondate sul principio della sacralità della vita, in quanto dono inalienabile (sia esso di natura o di Dio), l'e. attiva è giudicata moralmente illegittima, come è il suicidio, poiché contrastano o col fine naturale dell'autoconservazione o con l'esclusiva prerogativa divina di dare e togliere la vita. Tuttavia la morale cattolica affronta la questione dell'''accanimento terapeutico'' distinguendo fra trattamenti terapeutici ''normali'' e ''straordinari'', dei quali i primi sarebbero sempre obbligatori, mentre i secondi possono venire interrotti (senza che per questo si possa parlare di e.) quando sia dimostrato trattarsi di procedure senza sbocchi, che aumenterebbero soltanto le sofferenze del paziente e rappresenterebbero, economicamente, un costo oneroso per la collettività.
I vincoli proposti all'e. da chi è favorevole, allo scopo di prevenire abusi o degenerazioni, non rimuovono di fatto le obiezioni alla sua legittimazione morale e giuridica. Il ''rispetto della vita'', vale a dire il principio secondo cui nessuna forma di vita dovrebbe essere soppressa tranne nel caso in cui ciò sia necessario a preservare la vita stessa, costituisce un imperativo morale certamente non facile da fondare teoreticamente, ma che tende alla tutela ''naturale'' dell'esistenza biologica, di cui quella umana è parte. In tale prospettiva, ogni valutazione intorno alla vita deve tener conto di un contesto che sia il più ampio possibile, in rapporto alle sue conseguenze pratiche. L'idea che il diritto di rifiutare il prolungamento della vita in condizioni estreme includa il diritto all'e. e quello di essere ucciso dal medico, tende a ridurre a diritto assoluto ogni diritto individuale, che viceversa dovrebbe essere bilanciato in rapporto ai diritti degli altri individui e della società nel suo insieme. La legittimazione dell'e. potrebbe peraltro avere conseguenze negative rispetto al rapporto medico-paziente, impoverendolo come relazione umana basata sulla fiducia, e creando, peraltro, nuove condizioni di discriminazione tra malati, con la possibilità di forzare la volontà di quelli psicologicamente più deboli e socialmente meno garantiti. Il rischio è anche quello di una caduta di motivazione nella ricerca medica, sia di quella volta all'individuazione di più efficaci terapie analgesiche, sia di quella volta a migliorare il trattamento medico-sanitario degli anziani e dei malati terminali che non scelgono l'eutanasia. Infine, un ulteriore problema posto dalla legalizzazione dell'e. volontaria è che, pur riconoscendo nell'esplicita richiesta di morire da parte del malato il vincolo e la garanzia fondamentale per evitare abusi, in realtà vengono compresi anche casi nei quali tale esplicita richiesta non può essere formulata, come nei malati in coma o nei bambini nati con gravi malformazioni. In tal senso, i rischi segnalati trovano un indizio di conferma in quanto accade in alcuni paesi occidentali, dove già si pianifica una riduzione delle spese per l'assistenza sanitaria agli anziani e ai malati terminali.
Bibl.: Voluntary euthanasia. Experts debate the right to die, a cura di A. B. Dowining e B. Smoker, Londra 1986; G. E. Pence, Do not go slowly into that dark night: mercy killing in Holland, in American Medical Journal, 84 (1988), pp. 139-41; J. Rachels, La fine della vita, trad. it., Torino 1989; B. Sluwyters, Euthanasia in the Netherlands, in Med-Leg J., 57 (1989), pp. 34-43; M.A.M. de Wachter, Active euthanasia in the Netherlands, in JAMA, 262 (1989), pp. 3316-19; P. A. Singer, M. Siegler, Euthanasia - A critique, in The New England Journal of Medicine, 322 (1990), pp. 1881-83; G. J. Annes, Nancy Cruzan and the right of die, ibid., 323 (1990), pp. 670-73.