Evoluzione biologica ed evoluzione culturale
Secondo una definizione che si impone per la chiarezza intuitiva, l’essere umano è un «animale culturale». Dietro l’immediatezza di questo enunciato si nascondono tuttavia molteplici problemi interpretativi. Due, in particolar modo, meritano attenzione. Il primo è che, a dispetto del fatto che l’idea di animale culturale faccia riferimento implicito alla connessione inscindibile di biologia e cultura, l’interpretazione prevalente (anche nel senso comune) è quella che accorda un ruolo primario alla natura culturale – la parte considerata più nobile – rispetto a quella animale degli esseri umani. L’obiettivo di dare conto della profonda unità di biologia e cultura costituisce invece un presupposto irrinunciabile di una visione unitaria dell’essere umano e tale visione dovrà rappresentare l’impegno teorico della ricerca futura sul tema della natura umana.
Di qui discende il secondo problema che risulta degno di attenzione. Asserire che gli esseri umani sono il portato congiunto di biologia e cultura sembra (almeno a livello intuitivo) soltanto una considerazione di buon senso sulla quale tutti sono d’accordo. Le difficoltà nascono ovviamente quando ci si interroga sulle condizioni di realizzabilità di tale congiunzione: com’è possibile che gli esseri umani (carne, ossa e neuroni) siano allo stesso tempo biologia e cultura? Che cosa lega insieme due entità che sono apparentemente così dissimili? La connessione tra biologia e cultura è un problema che aspetta giustificazioni, non la soluzione presunta da cui far dipendere ulteriori spiegazioni.
Il tentativo di guadagnare una prospettiva unitaria dell’essere umano verrà qui basato sulla tesi che la cultura sia in un rapporto di coevoluzione con il cervello. In una prospettiva di questo tipo la cultura è una forma di adattamento biologico. Più nello specifico, considerare la cultura come una manifestazione della biologia umana significa legare la cultura alla selezione di specifici tratti biocognitivi alla base della formazione, trasmissione e fissazione delle credenze. Considerare in questi termini la cultura significa aderire alla svolta evoluzionistica della scienza cognitiva contemporanea: un modo per dar conto in termini naturalistici del tema della natura umana.
Il primato della cultura
Il concetto di natura umana sembra comportare il riferimento ai tratti universali comuni a tutti gli umani. Non è così. Nello studio degli aspetti culturali della natura umana sono possibili almeno due atteggiamenti concettuali: quello che mira a esaltare le comunanze tra individui e quello che guarda a evidenziarne le differenze.
La nascita dell’antropologia culturale è segnata dalla critica all’immagine dell’essere umano proposta dagli antropologi vittoriani fondata sulle teorie evoluzionistiche e sul mito del progresso. Franz Boas, uno degli artefici principali di tale critica, ha esaltato il relativismo culturale. Non ci sono popoli primitivi perché non c’è nessun ordine lineare di sviluppo all’interno della specie umana; non esistono selvaggi perché la visione del mondo, il linguaggio e tutte le conoscenze di un gruppo sono altrettanto complessi e coerenti di quelli di qualsiasi altro gruppo. In questa prospettiva, l’idea di una natura umana comune è un falso mito: sono le differenze e non le comunanze il vero tratto distintivo degli esseri umani.
Dello stesso avviso è Clifford Geertz: il tratto caratteristico dell’antropologia moderna è la contrapposizione alla concezione uniformista (illuministica) del concetto di ‘natura umana’. La tesi di Geertz è che «se vogliamo scoprire in che cosa consiste l’uomo, possiamo trovarlo solo in ciò che gli uomini sono: ed essi sono soprattutto differenti» (The interpretation of cultures, 1973; trad. it. 1987, p. 67). L’idea di potere fare riferimento agli esseri umani nei termini di una natura «costante, indipendente da tempo, luogo e circostanze» è soltanto un’illusione visto che «uomini non modificati dalle usanze di luoghi particolari non esistono, non sono mai esistiti e, cosa assai importante, non potrebbero esistere per la natura stessa della cosa» (p. 48).
La spinta al riconoscimento della variabilità dell’essere umano è importante, ma nasconde anche alcune insidie. La questione da discutere non è se esistano differenze tra gruppi etnici, ma se queste differenze siano tali da permeare la natura umana al punto da minare alla radice l’esistenza di caratteri universali comuni. In effetti, a essere in discussione è l’idea del primato logico dei fattori esterni all’individuo (quelli socioculturali) rispetto a quelli riferibili alla sua costituzione interna (ossia biocognitivi). Questo primato poggia sull’ipotesi che i fatti sociali (la cultura, in primo luogo) siano autonomi dai fatti psicologici e biologici. Una tesi di questo tipo rimanda alla nota distinzione di origine storicistica tra «scienze dello spirito» (Geisteswissenschaften) e «scienze della natura» (Naturwissenschaften) e all’idea conseguente che i fatti sociali debbano essere analizzati nella loro purezza. Ma anche per Émile Durkheim – le cui celebri tesi sono ascrivibili a una visione positivistica delle scienze umane –, i fatti sociali hanno uno statuto autonomo e indipendente rispetto ai fatti biocognitivi e il lavoro del sociologo deve essere improntato a distinguere nettamente i due ordini di fenomeni.
La tesi dell’autonomia dei fatti sociali conduce a una concezione dualistica della natura umana: considerare gli individui il prodotto di fattori culturali indipendentemente dalla loro costituzione fisica equivale a considerare la biologia e la psicologia come aspetti del tutto marginali della natura umana. Seguendo questa strada, però, il rischio è di incorrere in una delle difficoltà più classiche del dualismo: se i fatti sociali sono così eterogenei rispetto alla costituzione biocognitiva degli umani, come possono avere efficacia causale sui loro comportamenti? La tesi dell’autonomia del fatto sociale porta a un atteggiamento ‘platonista’ nei confronti della cultura: intendere i riti, le norme e i valori sociali nei termini di entità astratte lascia aperta la questione di come tali entità possano incidere sulle reali condotte umane. Per spiegare questo fatto, il riferimento al livello cognitivo diventa imprescindibile. Come ha osservato Dan Sperber, «si può pensare che le spiegazioni causali di fatti culturali possano essere formulate a un livello molto astratto, che trascuri i micromeccanismi di cognizione e comunicazione. È certamente quello che hanno cercato di fare gli antropologi e i sociologi, per esempio collegando l’infrastruttura economica e la religione. Ma, per quanto corretta possa essere, tale relazione risulta incompleta: perché l’infrastruttura economica possa influenzare la religione, essa deve prima di tutto influenzare le menti degli individui» (La contagion des idées. Théorie naturaliste de la culture, 1996; trad. it. 1999, p. 67).
I fautori del primato causale dei fattori esterni all’individuo replicano alle accuse di platonismo sostenendo che i nessi causali tra il sistema dei valori sociali e i comportamenti degli individui si guadagnino attraverso l’apprendistato sociale. Il punto, per molti versi paradossale, è che ipotesi interpretative di questo tipo non hanno a disposizione un modello plausibile dei processi di apprendimento, trasmissione e fissazione delle credenze. Quando si crede che il fatto sociale pervada gli individui rendendoli agenti sociali (quando si pensa all’educazione nei termini di un processo che plasma l’individuo), si fa implicito riferimento all’idea che gli esseri umani siano dei sistemi cognitivi plastici e indeterminati. In un’ottica del genere la mente è qualcosa di molto simile a una tabula rasa – o a una tabula plastica, come l’ha definita Steven Pinker (2002). Ora, poiché nessuno dei modelli oggi disponibili della formazione, trasmissione e fissazione delle credenze culturali è riferibile a una concezione della mente come un sistema privo di determinazioni interne, la conclusione da trarre da tutto questo discorso è che la tesi dell’autonomia del fatto sociale poggia su un presupposto implicito del tutto sbagliato.
Il primato della biologia
Nella precedente sezione sono stati analizzati i modelli interpretativi di tipo culturalista che vedono la natura umana caratterizzata da un percorso di costituzione (unidirezionale) fondato sul primato dei fattori esterni all’individuo. Viste le difficoltà cui vanno incontro questi modelli, si potrebbe pensare di rovesciare i termini della questione provando a considerare la natura umana fondata sui fattori interni agli individui, ovvero sulla loro costituzione biologica. La sociobiologia rappresenta la versione più radicale di questa ipotesi.
La teoria del ‘gene egoista’ proposta da Richard Dawkins nel 1976 si presta bene a esemplificare il caso. Per Dawkins gli esseri umani, al pari di tutti gli altri animali, sono «macchine per la sopravvivenza» create dai geni esclusivamente per soddisfare i propri fini egoistici. La lotta egoistica dei geni ha ricadute immediate sul comportamento (egoistico) umano: «Come i gangster di Chicago che hanno avuto successo, i nostri geni sono sopravvissuti, in alcuni casi per milioni di anni, in un modo altamente competitivo. […] Io sosterrò che una qualità predominante da aspettarsi in un gene che abbia successo è un egoismo spietato. Questo egoismo del gene provocherà, in genere, egoismo nel comportamento dell’individuo» (The selfish gene, 1976; trad. it. 1995, p. 4). Il tema della relazione diretta tra geni e comportamento (biodeterminismo) è la questione su cui si sono concentrate le critiche più forti alla sociobiologia. Tanto per iniziare, oggi sappiamo che il biodeterminismo è falso: la connessione diretta e automatica tra geni e comportamento (l’idea che esista un gene del linguaggio o della religione, poniamo) è una tesi che oggi ben pochi sosterrebbero. Dire che il biodeterminismo è falso non significa tuttavia sostenere che la cultura non ha nulla a che fare con la genetica. Nel libro The birth of the mind (2004), Gary Marcus mostra come sia possibile studiare il ruolo del genoma nella formazione del cervello, della mente e del comportamento degli umani in una prospettiva antiriduzionistica e antideterministica: «Uno dei motivi per cui non ha senso parlare del gene ‘di’ un particolare comportamento è che il circuito neurale coinvolto nell’attuazione di un qualunque dato comportamento è molto più complesso di un qualunque singolo gene. Non ci può essere un unico gene per il linguaggio, o per la propensione a parlare del tempo che fa, più di quanto ci possa essere per il ventricolo sinistro di un cuore umano. Persino un’unica cellula del cervello – o un’unica cellula del cuore – è il prodotto di molte proteine e quindi di molti geni. E, se si esclude forse il caso dei riflessi, la maggior parte dei comportamenti sono il prodotto di molti circuiti neurali […]. Il contributo principale dei geni nelle azioni istante-per-istante di un animale avviene prima, quando si imposta e si mette a punto il circuito neurale, non nel funzionamento istante-per-istante del sistema nervoso. I geni costruiscono le strutture neurali, non il comportamento» (trad. it. 2004, pp. 95-96). L’idea di un gene del linguaggio o di un qualsiasi altro comportamento complesso è fuorviante perché fa esplicito riferimento a una metafora fuorviante: la visione distorta del «genoma come un progetto». Mentre nei progetti vige una corrispondenza diretta fra gli elementi del disegno e quelli dell’oggetto reale che viene costruito, non risulta possibile ipotizzare alcuna corrispondenza uno-a-uno tra i geni e le cellule e le strutture di un organismo.
Oltre a essere falso sul piano empirico, il biodeterminismo offre uno schema esplicativamente inefficace. E ciò per un motivo che è degno di particolare rilievo: il carattere unidirezionale dei nessi causali che legano la biologia (la genetica) al comportamento. Come hanno osservato giustamente Steven Rose, Richard C. Lewontin e Leon J. Kamin, «il determinismo biologico è […] una spiegazione riduzionista della vita umana secondo la quale le frecce degli schemi di causalità puntano dai geni ai singoli individui e da questi all’umanità» (Not in our genes, 1983; trad. it. Il gene e la sua mente, 1983, p. 28). In una prospettiva di questo tipo il comportamento individuale è il prodotto diretto dell’attività dei geni e le condotte sociali sono il prodotto diretto delle attività individuali: il che significa che il comportamento sociale è il prodotto di un percorso unidirezionale di costituzione fondato sulla priorità dei fattori interni all’individuo. Più plausibile sembra invece la tesi che il rapporto tra cultura e biologia in una prospettiva unitaria della natura umana possa darsi soltanto in un programma di coevoluzione (di costituzione reciproca): per il suo carattere unidirezionale, la sociobiologia fallisce la possibilità di assecondare tale programma e dunque risulta esplicativamente inefficace. I motivi di questo fallimento sono importanti ai fini del seguito del discorso per due ordini di considerazioni.
Il primo è che anche la tesi del primato dei fattori interni all’individuo incorre in una forma di dualismo tra natura e cultura. È sorprendente constatare che nel suo libro sul gene egoista Dawkins sostenga che l’evoluzione culturale non abbia nulla a che fare con quella biologica e che la trasmissione culturale debba trovare spiegazione nei ‘memi’, un tipo di replicatore che è completamente diverso dai geni. Inoltre è sorprendente rilevare che egli sostenga che sia proprio la cultura a porre una cesura netta tra gli umani e gli altri animali: gli esempi portati a favore di forme di evoluzione culturale negli uccelli e nelle scimmie testimoniano, a suo dire, soltanto «interessanti stranezze».
La seconda considerazione (la più importante) è che l’esito dualista della sociobiologia dipende da un motivo analogo a quello delle tesi culturaliste: una concezione totalmente inadeguata del mentale. L’idea di Edward O. Wilson in Sociobiology. The new synthesis, il libro del 1975 da cui prende le mosse l’intero impianto concettuale della sociobiologia, è che la cognizione deve essere ridotta al funzionamento dei circuiti cerebrali: solo dopo aver «cannibalizzato la psicologia, la nuova neurobiologia fornirà alla sociobiologia un durevole insieme di principi primi» (trad. it. 1983, p. 582).
L’esito dualistico dei rapporti tra biologia e cultura che accomuna le ipotesi culturaliste alla sociobiologia dipende da un approccio unidirezionale allo studio della natura umana. Contro un approccio del genere Peter Richerson e Robert Boyd (2005) sostengono che geni e cultura debbano essere interpretati come «mutualisti forzati»: «I geni da soli non possono adattarsi prontamente ad ambienti che cambiano a gran velocità. Le varianti culturali da sole non possono fare alcunché senza cervelli e corpi. I geni e la cultura sono strettamente accoppiati, ma soggetti a forze evolutive che trascinano il comportamento in direzioni diverse» (trad. it. 2006, p. 272). Richerson e Boyd indicano la direzione più plausibile: solo ipotizzando una forma di coevoluzione tra biologia e cultura è possibile rendere conto di una concezione unitaria dell’essere umano. La coevoluzione, tuttavia, non è un’ipotesi di semplice buon senso: allo stato attuale della ricerca, la prospettiva unitaria dell’essere umano è il problema che abbiamo davanti, non la soluzione con cui chiudere frettolosamente la partita. Non bastano dichiarazioni di principio sulla coevoluzione a fondare una prospettiva realmente sintetica della natura umana. Dire che la biologia (il cervello) entra in un rapporto di coevoluzione con la cultura significa dover dar conto di cosa, di fatto, un rapporto di questo tipo comporti.
Plausibilità cognitiva
In generale, la possibilità di un rapporto di mutuo interscambio tra due entità è legata all’esistenza di un livello di interfaccia: nel caso della relazione tra cervello e cultura questo livello di interfaccia è costituito dalla mente. Chiamare in causa un livello del genere nello studio della cultura significa asserire che la formazione, la trasmissione e la fissazione delle credenze devono essere spiegate in riferimento allo studio dei processi mentali. La psicologia evoluzionistica (quel settore della scienza cognitiva che a partire dagli ultimi anni del Novecento ha inserito lo studio della mente in un’ottica darwiniana) offre modelli interessanti del tipo di mente coinvolta in processi di questo tipo.
Che la mente umana sia un risolutore generale di problemi è un’idea che, oltre che dal senso comune, continua a essere sostenuta in psicologia. Da un punto di vista evolutivo, tuttavia, una concezione di questo tipo è totalmente infondata: come tutti gli organismi, gli esseri umani hanno sempre a che fare con singoli problemi specifici, mai con astratti problemi in generale. Leda Cosmides e John Tooby utilizzano la metafora del ‘coltellino svizzero’: come non esiste una lama capace di tagliare qualsiasi cosa, così la mente non può essere un sistema generalizzato capace di risolvere qualsiasi tipo di compito. Secondo gli psicologi evoluzionisti l’argomento più forte a favore di una concezione della mente come un sistema ricco di articolazioni, interne (di componenti innate) è che un’architettura cognitiva di questo tipo si sposa bene con la selezione naturale. Per far fronte alle molteplici sfide ambientali la mente deve includere specializzazioni cognitive funzionalmente distinte, deve essere composta da un insieme complesso di «moduli», per usare l’espressione coniata da Jerry Fodor per descrivere un’architettura cognitiva fondata sulla specificità di dominio e l’incapsulamento informativo. Secondo Fodor, la modularità della mente riguarda soltanto il sistema percettivo e il linguaggio; nella psicologia evoluzionistica i moduli vengono estesi anche al sistema concettuale dando luogo a quel modello di modularità massiva sostenuto con forza da Sperber. Che tipo di relazione sussiste tra una mente di questo tipo e la natura culturale degli esseri umani?
Poiché uno dei tratti fondamentali della cultura è la natura condivisa delle credenze di un gruppo, un primo modo per rispondere alla domanda è chiedersi se tra i componenti dell’architettura modulare esistano sistemi specifici per l’elaborazione delle relazioni sociali. Il primo passo verso l’analisi dei fondamenti biocognitivi della cultura è l’analisi dell’intelligenza sociale.
Intelligenza sociale
Rispetto agli individui singoli, i gruppi risolvono molteplici problemi adattativi. La vita sociale tuttavia crea tensioni: le relazioni di gruppo (sia di cooperazione sia di antagonismo) richiedono innanzitutto un sistema biocognitivo in grado di gestirle. Concentrandosi sui primati non umani, Robin Dunbar ha sottolineato il vincolo che il volume della corteccia cerebrale impone alle dimensioni dei gruppi sociali. Dal suo punto di vista, la costituzione dei gruppi sociali (nel numero dei componenti e nel tipo di relazione che determinano l’interscambio tra i suoi membri) dipende in primo luogo da fattori legati alla neurobiologia degli individui.
Il fatto che l’aumento delle dimensioni della neocorteccia sia associato al crescere del numero dei membri di un gruppo sociale sta a significare che il sistema nervoso si adegua alle difficoltà ambientali cui è chiamato a far fronte. Tale considerazione apre la strada all’idea che difficoltà come queste possano essere risolte soltanto da uno specifico tipo di intelligenza. In un lavoro pionieristico, The social function of intellect (in Growing points in ethology, ed. P. Bateson, R.A. Hinde, 1976, pp. 303-21), Nicholas Humphrey critica l’idea secondo cui l’intelligenza esaurisca il suo ruolo adattativo nella funzione ecologica (la soluzione dei problemi derivanti dall’ambiente fisico), sostenendo che il ruolo adattativo primario dell’intelligenza è quello di mantenere insieme la società. È qui che emerge la vera funzione sociale dell’intelletto.
Richard Byrne e Andrew Whiten con l’espressione «intelligenza machiavellica» fanno riferimento alla capacità di predire e di controllare il comportamento degli altri (utilizzandoli come mezzi per i propri fini). Denise Cummins sostiene che la molla evolutiva per lo sviluppo dell’intelligenza sociale sia dovuta alla gestione dei rapporti di competizione e di cooperazione all’interno del gruppo, in particolar modo alla gestione delle «gerarchie di dominanza» che costituiscono l’ossatura centrale dell’organizzazione sociale di molti mammiferi. Nei primati tali gerarchie incorporano una serie complessa di «norme sociali implicite» e i membri del gruppo devono essere «capaci (almeno) di distinguere tra ciò che è vietato e ciò che è permesso sotto quali circostanze» (Social norms and other minds, in The evolution of mind, ed. D.D. Cummins, C. Allen, 1998, p. 35). Un discorso del tutto analogo varrebbe anche per la cognizione umana. Il tratto caratteristico delle prime forme di ragionamento umano, a parere della Cummins, è infatti l’«effetto deontico», una caratterizzazione del ragionamento in termini di ciò che è permesso, obbligatorio o proibito fare: un tipo di strategia cruciale per la sopravvivenza nella gerarchia di dominanza tra primati: «L’emergenza precoce di queste strategie nell’infanzia, il fatto che sembra che gli umani le condividano con altre specie di primati, e la relazione diretta tra la capacità di usare queste strategie e il successo riproduttivo rende difficile evitare la conclusione che le strategie del ragionamento deontico siano parte di una precoce emergenza di quella conoscenza sociale dominio-specifica che si attiva di fronte alla richiesta di ragionare circa quali azioni sono permesse, quali si devono fare o quali sono vietate in particolari circostanze» (p. 42).
Il passo decisivo in favore dell’analisi di sistemi cognitivi specificamente adibiti allo sfruttamento dell’informazione sociale è il lavoro di David Premack e Guy Woodruff (Does the chimpanzee have a theory of mind?, in «Behavioral and brain science», 1, 1978, pp. 515-26) in cui si sostiene che gli scimpanzé sono in grado di ‘mentalizzare’ il comportamento. In tale lavoro i due ricercatori valutavano la capacità di uno scimpanzé – cui si mostrava un essere umano intento a recuperare un oggetto inaccessibile – di indicare quale fosse la strategia migliore che il soggetto umano avrebbe dovuto adottare per risolvere il problema. La tesi sostenuta da Premack e Woodruff è che gli scimpanzé risolvano il problema attribuendo stati mentali all’agente umano utilizzando così una vera e propria teoria della mente.
La questione se gli scimpanzé utilizzino una teoria della mente per governare le proprie strategie comportamentali è ancora oggi un problema aperto (gli stessi Premack e Woodruff sono tornati sull’argomento stemperando il loro entusiasmo iniziale). Per quanto riguarda gli esseri umani la questione è molto meno controversa: prove sperimentali provenienti dalla psicologia dello sviluppo e soprattutto dalle patologie delle relazioni sociali (come l’autismo) rendono più convincente l’idea che il dispositivo della teoria della mente sia alla base della capacità di mentalizzazione tipicamente umana. Un sistema di elaborazione capace di produrre stati mentali relativi ad altri stati mentali è un sistema in grado di eseguire computazioni metarappresentazionali. I pensieri relativi alle credenze o ai desideri di altri individui (cose del tipo: «credo che Maria desideri un succo di frutta alla fragola») mostrano con evidenza il ruolo delle strutture metarappresentazionali alla base dell’intelligenza sociale. Strutture di questo tipo hanno un forte valore adattativo: poiché il comportamento è causato dagli stati mentali, la capacità di leggere gli stati mentali degli altri è un modo per anticipare il loro comportamento e, dunque, per prendere in tempo le contromisure adeguate.
L’idea di pensare al sistema sociale nei termini dei dispositivi biocognitivi adibiti alle relazioni tra individui rappresenta un passo in avanti decisivo ai fini di una concezione realmente unitaria dell’essere umano. Una prospettiva del genere deve dar conto non solo di come società, linguaggio e cultura entrino nei processi di costituzione dell’essere umano, ma anche di come società, linguaggio e cultura siano il prodotto di un sistema fisico biologicamente determinato.
Pseudocoevoluzione
La tesi culturalista classica, come abbiamo visto, considera il mentale come un sistema povero di articolazioni interne. La psicologia evoluzionistica ha mostrato che una concezione di questo tipo è evolutivamente implausibile: il segno distintivo della selezione naturale è rappresentato da una mente ricca di componenti innate. Recentemente, però, il dibattito sull’architettura cognitiva ha conosciuto nuovi sviluppi: studiosi che fanno esplicito riferimento al pensiero di Lev Semënovič Vygotskij hanno ripreso alcune tematiche della prospettiva culturalista a sostegno di una prospettiva unitaria dell’essere umano. Il tentativo è interessante e merita alcune parole di commento.
Uno dei rappresentanti più illustri di questa ipotesi interpretativa è Michael Tomasello. La sua idea è che la cultura sia un fatto specificamente umano: è per il possesso di una cultura che gli umani partecipano di una doppia natura (biologica e culturale). Questa doppia eredità distingue in modo forte gli umani dagli altri animali: «la mia tesi è che nel dominio cognitivo l’eredità biologica dell’uomo sia molto simile a quella degli altri primati. Vi è solo un’importante differenza, cioè il fatto che gli esseri umani si identifichino con i conspecifici più profondamente di quanto non facciano gli altri primati. [...]. Da quest’unica differenza cognitiva scaturisce tutta una serie di effetti, poiché essa rende possibili forme di eredità culturale nuove e particolarmente efficaci [...]. Ciò significa che la maggior parte, se non la totalità, delle abilità cognitive peculiari della specie umana non derivano direttamente dalla sua eredità biologica, ma sono piuttosto prodotte da una varietà di processi storici e ontogenetici messi in moto da quell’unica capacità cognitiva, biologicamente ereditata, peculiare dell’uomo» (The cultural origins of human cognition, 1999; trad. it. 2005, p. 33).
Il punto chiave della questione è l’idea che l’origine della cultura sia legata all’evoluzione di un’unica differenza cognitiva: un unico adattamento biologico fondamentale alla base della capacità umana di vedere sé stessi e gli altri come agenti intenzionali. Una volta originata, tuttavia, la cultura guadagna un proprio grado di autonomia e segue un percorso di sviluppo di ordine diverso da quello tipico dell’evoluzione naturale. Per l’effetto di ritorno che la cultura ha sul sistema cognitivo, la mente umana assume una dimensione sociale e collettiva, una dimensione che rende gli umani individui appartenenti alla Storia, oltre che alla Natura.
La tesi di Tomasello è di fondamentale importanza ai fini del nostro discorso. Ci sono due cose su cui vale la pena riflettere. La prima è che la cultura è il prodotto di attività cognitive soggiacenti nate per altre finalità evolutive (si tratta di una forma di exaptation per utilizzare il termine introdotto da Stephen Gould e Elisabeth Vrba negli anni Ottanta del secolo scorso): il dispositivo alla base della mentalizzazione non nasce ai fini dell’imitazione culturale, ma viene presto utilizzato a questo scopo. La seconda cosa è che l’effetto di ritorno che la cultura impone alla cognizione è di carattere storico e sociale: è un effetto che agisce (attraverso i processi di educazione e apprendimento) sui singoli fenotipi senza generare alcun adattamento biologico specifico. Ciò che serve all’evoluzione culturale è l’effetto dente di arresto: un dispositivo (decisivo per dar conto del carattere cumulativo dell’evoluzione culturale) che impedisce slittamenti all’indietro dei risultati acquisiti, permettendo alle nuove generazioni di usufruire delle conoscenze maturate nel corso del tempo dalle generazioni precedenti. Una volta messo in moto il processo dell’evoluzione culturale prende avvio anche quel processo d’invasione della scatola cranica che pervade le menti umane costituendole come entità di natura storico-sociale.
Due sono le considerazioni da fare, a questo proposito. La prima è di carattere empirico: se veramente l’origine della cultura comporti un unico adattamento biologico è questione aperta con cui dovrà confrontarsi la ricerca futura. Indipendentemente dall’esito di questo confronto, la questione più rilevante è se davvero la cultura possa essere considerata un’entità di ordine storico-sociale la cui natura sfugge alla selezione naturale. Per Tomasello, come si è visto, il fatto che la cultura non sia un adattamento biologico è il motivo alla base della ‘doppia eredità’ degli esseri umani. Il punto che vale la pena discutere è se la tesi della doppia eredità sia compatibile con una visione davvero unitaria dell’essere umano. Il caso del linguaggio ci aiuta a comprendere meglio quale sia il problema in discussione.
Linguaggio e cultura
Il riferimento di Tomasello a un unico adattamento cognitivo alla base della cultura è possibile soltanto ipotizzando l’esistenza di uno strumento molto potente in grado di controbilanciare la povertà strutturale della mente. Lo strumento principe di una concezione dei fondamenti culturali della cognizione è il linguaggio: è solo perché le menti umane sono abitate dal linguaggio che gli umani sono animali culturali. Attraverso il riferimento al linguaggio, Tomasello riprende un aspetto del pensiero di Vygotskij che ha avuto largo credito tra i fautori della ‘mente estesa’: l’idea secondo cui le facoltà cognitive si estendono al di fuori della scatola cranica utilizzando l’ambiente esterno come un’impalcatura su cui appoggiarsi (come quando utilizziamo carta e penna per un calcolo troppo difficile da risolvere a mente). Secondo Andy Clark (2003) l’impalcatura per eccellenza della mente estesa è il linguaggio pubblico: un linguaggio che è pronto a «invadere» le menti per infettarle e ibridarle. Affidare al linguaggio il ruolo d’impalcatura esterna significa rivalutare il ruolo delle lingue (intese come artefatti storico-culturali) nei processi di pensiero.
Una tesi di questo tipo è stata utilizzata da Morten Christiansen e Nick Chater (2008) per criticare l’idea di Pinker del linguaggio come un istinto, ovvero come un adattamento biologico specifico. I due autori sostengono l’esistenza di adattamenti biologici specifici di tipo cognitivo alla base del linguaggio (per es., il ‘lettore della mente’): il linguaggio, tuttavia, non è di per sé un adattamento biologico, è soltanto un adattamento culturale. La prova di questo fatto è che, mentre il linguaggio è adattato al cervello (a quei sistemi cognitivi che, evolutisi per altri scopi, vengono utilizzati nei processi di comprensione e di acquisizione linguistica), il cervello non è adattato al linguaggio (il linguaggio non è un adattamento specifico). Che conclusioni trarre da questo discorso ai fini dei rapporti tra cervello e linguaggio?
Per quanto sia Tomasello sia Christiansen e Chater facciano appello più volte a una concezione coevolutiva, la loro ipotesi rimane unidirezionalmente legata al primato del cervello sul linguaggio: è il cervello a dare la forma al linguaggio, e non viceversa. Non è certo nostra intenzione mettere in discussione il primato del cervello sul linguaggio (nessuna ipotesi dell’origine del linguaggio appare plausibile senza il darsi di precondizioni biocognitive adeguate); perché si possa parlare di coevoluzione, tuttavia, è indispensabile dare spazio anche all’effetto di ritorno del linguaggio sul cervello. Solo considerando un effetto di questo tipo è possibile dar conto del linguaggio nei termini di un adattamento biologico, oltre che culturale. Senza questo doppio processo di costituzione non è possibile parlare di coevoluzione: senza coevoluzione non è possibile una prospettiva realmente unitaria dell’essere umano.
La religione come caso di studio
L’analisi del linguaggio rappresenta un ottimo ponte concettuale per affrontare il tema dell’evoluzione culturale. La domanda a cui si dovrà rispondere è in effetti la stessa: la cultura è un adattamento biologico specifico? Per rispondere a questa domanda prenderemo in esame il caso di studio della credenza religiosa. Per quanto gli antropologi evoluzionisti sostengano la tesi del ruolo adattativo della cultura (la credenza religiosa, per es., avrebbe un ruolo forte nella coesione sociale), l’ipotesi oggi prevalente nell’antropologia di orientamento cognitivista è che non sia legittimo attribuire alla cultura un ruolo di questo genere: la religione sarebbe semplicemente un effetto collaterale della cognizione. Per Paul Bloom (2005), per es., la religione è un effetto secondario di due sistemi di elaborazione nati per altri scopi: la capacità innata dei bambini di distinguere il mondo fisico da quello psichico; l’ipertrofia della cognizione sociale (la capacità di attribuire intenzioni, scopi, fini non solo agli agenti intenzionali, ma anche a sistemi artificiali che esibiscono un certo tipo di comportamento).
La capacità di distinguere sin dalla nascita il mondo fisico da quello psichico è alla base dell’atteggiamento ‘cartesiano’ del bambino: nasciamo irrimediabilmente dualisti, l’esperienza umana del mondo materiale è totalmente distinta da quella delle entità che hanno credenze e desideri. Pascal Boyer (2001) ha mostrato il carattere transculturale di credenze quali la sopravvivenza dell’anima o l’esistenza nel mondo delle anime degli antenati. Il dualismo che caratterizza l’esperienza cognitiva di base di ogni bambino è un vincolo importante per la formazione di questo tipo di credenze: se i corpi e le menti sono pensati come separati, allora si possono avere gli uni senza le altre. Il dualismo mente-corpo può essere considerato un tratto universale della nostra psiche. Così, se è vero che noi non nasciamo con specifiche credenze innate (per es., che l’anima entri nel corpo al momento del concepimento o che essa sopravviva al corpo dopo la morte), è vero anche che le condizioni universali alla base di tali credenze non sono apprese: essendo parte della natura umana esse emergono come effetti secondari dei nostri sistemi mentali.
L’ipertrofia intenzionale si manifesta in tutta chiarezza nell’attitudine umana ad attribuire intenzioni, scopi e finalità non solo ad altri umani, ma anche a oggetti inanimati. Queste attribuzioni vincolano in modo massiccio sia la trasmissione sia la fissazione delle credenze. Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara hanno messo a confronto l’attecchimento delle credenze relative alla tesi creazionista dell’intelligent design con quelle relative alla teoria evoluzionista. A dispetto del fatto che la teoria darwiniana sia l’unica ipotesi scientifica in campo, le credenze antievoluzioniste continuano a essere prevalenti su scala planetaria. L’idea degli autori è che questo fatto non possa essere attribuito soltanto alle campagne ideologiche del fondamentalismo religioso: «il creazionismo risponde evidentemente a esigenze profonde, oltre che a interessi sociali e politici» (Girotto, Pievani, Vallortigara 2008, p. 12). È la capacità ipertrofica di attribuire scopi e intenzioni a un agente il vero punto discriminante: di fronte al potere indiscutibile esercitato da questi vincoli cognitivi la teoria del disegno intelligente (l’idea che dietro ogni entità complessa ci siano un progetto e un progettista che l’ha creato) è molto più appetibile di una tesi controintuitiva che vede il processo evolutivo legato alla variazione casuale e all’opera cieca della selezione naturale.
La conclusione cui perviene Bloom è che la «credenza religiosa sia un accidente evolutivo, un effetto collaterale inaspettato dei sistemi cognitivi evolutisi per altri scopi» (Bloom 2007, p. 148). Una conclusione di questo tipo è a nostro avviso troppo forte. Come sottolineano Candace S. Alcorta e Richard Sosis, dal punto di vista delle concezioni non-adattazioniste la credenza religiosa appare in effetti soltanto il prodotto di «un ‘uso distorto dei moduli mentali’» (Alcorta, Sosis 2005, p. 326). L’idea che un comportamento così pervasivo in tutte le culture umane sia soltanto un «accidente inaspettato» è un risultato evolutivamente implausibile. Quali considerazioni trarre da questi commenti? È di nuovo il caso del linguaggio a rappresentare un ottimo termine di paragone.
Coevoluzionisti per davvero
L’idea che il linguaggio possa essere interpretato in termini coevolutivi ha importanti ripercussioni anche sul piano dell’evoluzione culturale. In primo luogo per il fatto che il linguaggio è lo strumento fondamentale delle capacità simboliche umane senza le quali la nostra cultura sarebbe in larga parte impensabile. Come abbiamo già detto in precedenza, l’idea che il linguaggio sia un effetto secondario dell’attività di sistemi cognitivi evolutisi per altri scopi è sicuramente il punto di partenza di un’ipotesi di coevoluzione. Resta tuttavia da stabilire se questa idea possa essere sufficiente a dar conto di una reale prospettiva coevolutiva oppure no.
Il caso del linguaggio
La tesi che tra i costituenti cognitivi alla base del linguaggio si debba annoverare un qualche dispositivo di «lettura della mente» (mindreading) è oggi largamente condivisa. La teoria della pertinenza proposta da Dan Sperber e Deirdre Wilson (2002) si coniuga bene con tale tesi. Alla base di questa teoria è la distinzione operata da Paul Grice negli anni Cinquanta del Novecento tra il «significato del parlante» e il «significato dell’enunciato». La conseguenza più diretta di tale distinzione è l’idea che i processi di produzione-comprensione linguistica dipendano in modo molto stretto dall’analisi delle «intenzioni comunicative» del parlante. Lo spostamento di prospettiva dal piano di ciò che viene detto a quello di ciò che il parlante intende dire chiama in causa l’esistenza di un dispositivo mentale adibito all’analisi di questo tipo di processi. La tesi di Sperber e Wilson è che la comunicazione umana sia un effetto secondario delle capacità metarappresentazionali nate per l’interpretazione del comportamento in termini intenzionali. Messa in questo modo, la proposta dei due autori sembra molto simile a quella di Tomasello. Ma non è così: Sperber sostiene che l’idea del linguaggio come effetto secondario della cognizione sia soltanto il punto di partenza di un processo di coevoluzione: «Uno scenario plausibile è quello in cui la capacità metarappresentazionale si sviluppa nelle specie ancestrali per ragioni legate alla competizione, allo sfruttamento e alla cooperazione ma non per la comunicazione in quanto tale. Questa capacità metarappresentazionale rende possibile una forma di comunicazione inferenziale inizialmente come un effetto secondario […]. Il carattere positivo di questo effetto secondario […] crea un ambiente favorevole per l’evoluzione di un nuovo adattamento, una capacità linguistica. Una volta che tale capacità si evolve, è facile immaginare un mutuo incremento coevolutivo di entrambe le capacità» (Sperber 2000, p. 127).
Il linguaggio nasce come un effetto secondario di sistemi cognitivi nati per altri scopi e adattati alle nuove esigenze comunicative. L’aver stabilito questo, tuttavia, non è ancora sufficiente per dar corpo a una genuina ipotesi di coevoluzione. Per ciò che è qui in causa, parlare di coevoluzione significa parlare degli effetti di ritorno del linguaggio sul cervello (sul sistema biocognitivo). Ci sono prove a favore di effetti di questo tipo?
Mentre alcuni autori sostengono che un generico sistema metapsicologico sia alla base tanto dei processi di mentalizzazione tipici dell’interpretazione del comportamento quanto di quelli in atto nella comprensione del linguaggio, l’idea di Sperber e Wilson è che bisogna distinguere le «capacità metacognitive» dalle «capacità metacomunicative». Il punto in questione è stabilire se le intenzioni del parlante nel processo comunicativo siano o meno dello stesso tipo delle intenzioni che regolano qualsiasi altra forma di comportamento: secondo Sperber e Wilson «la comprensione verbale esibisce regolarità e specifiche difficoltà non riscontrabili in altri domini» (Sperber, Wilson 2002, p. 11). Le intenzioni comunicative, diversamente dalle generiche intenzioni comportamentali, hanno in effetti un carattere ‘ostensivo’. La comunicazione sfrutta l’esibizione di un duplice livello d’informazione: l’informazione primaria, messa in evidenza con il proferimento verbale, e l’informazione secondaria, in cui si mostra che l’informazione primaria è stata messa in evidenza in maniera intenzionale. Ora, se l’intenzione comunicativa presenta caratteristiche così forti di specificità, allora è probabile che un dispositivo generico di mentalizzazione non sia adeguato allo scopo: la tesi di Sperber e Wilson è che deve esistere un modulo metacomunicativo distinto da quello metacognitivo. Una distinzione di questo tipo è corroborata da prove sperimentali (Happé, Loth 2002). Dal nostro punto di vista il modulo della metacomunicazione è un adattamento (un riadattamento biologico) richiesto dalla necessità di far fronte alle difficoltà imposte da un tipo di comunicazione sempre più efficiente e complesso.
Se è vero che una qualche forma di mentalizzazione deve precedere l’avvento del linguaggio, è anche vero che l’avvento del linguaggio modifica i sistemi cognitivi adibiti alla sua elaborazione al punto da renderli adattamenti biologici specifici (v. fig.). Il fatto che esistano dispositivi cognitivi adattati al linguaggio mostra che l’evoluzione della comunicazione verbale non segue soltanto uno sviluppo di tipo culturale.
Tanto basti per il linguaggio: cosa dire a proposito della coevoluzione di cervello e cultura?
Il caso della cultura
L’analisi compiuta nel paragrafo precedente sulla natura adattativa o meno del linguaggio è utile anche per comprendere il caso più ampio della cultura. Lo schema dell’argomento è in effetti lo stesso: anche il dibattito sulla natura della credenza religiosa vede contrapporsi in maniera netta i sostenitori di una concezione adattazionista (per i quali la religione ha una specifica funzione evolutiva; serve, per es., come strumento di coesione sociale) e i fautori di una concezione non adattazionista (secondo cui la credenza religiosa è soltanto un ‘effetto secondario’ di sistemi cognitivi evolutisi per altre finalità adattative). Poiché la tesi qui sostenuta è che la credenza culturale sia un evento che testimonia la necessità di una coevoluzione tra cervello e cultura, allora la credenza culturale deve comportare almeno una qualche forma di adattamento (biologico) specifico. Che prove abbiamo in favore di questa ipotesi?
Secondo Alcorta e Sosis (2005), è ormai tempo per una prospettiva sintetica dei rapporti tra biologia e cultura. La tesi della credenza religiosa come ‘effetto secondario’ non è in contrasto con l’idea che la religione sia un adattamento biologico: che la credenza religiosa sfrutti moduli cognitivi già esistenti per altri scopi è un punto non controverso; il problema è capire se questi moduli possano riadattarsi alle nuove esigenze a cui sono chiamati a rispondere. Per i due autori la risposta è affermativa.
Un primo esempio riguarda l’utilizzo dell’ipertrofica attribuzione d’intenzionalità a presunti agenti sovrannaturali: se per un verso è vero che le credenze relative a tali tipi di agenti sfruttano gli stessi dispositivi evolutisi per l’attribuzione di intenzionalità agli agenti naturali, è anche vero che gli agenti sovrannaturali presentano caratteri di specificità che un generico sistema di attribuzione di intenzionalità è incapace di cogliere. Il carattere dell’onniscienza riconosciuto agli agenti sovrannaturali, solamente per fare un esempio, non è di certo tra le caratteristiche attribuibili agli agenti naturali. Deborah Kelemen (2004) ha portato prove sperimentali a favore dell’idea che i bambini posseggano una forma di ‘teismo intuitivo’ in grado di dar conto della capacità di distinguere l’onniscienza degli agenti sovrannaturali dalla conoscenza fallibile degli agenti naturali. Dati di questo tipo possono essere considerati a favore della tesi secondo la quale, se è vero che le credenze circa gli agenti sovrannaturali sono il prodotto di sistemi di elaborazione legati alla capacità di mentalizzazione, è anche vero che «esse modificano questi moduli in modi specifici» (Alcorta, Sosis 2005, p. 328).
Detto questo, la questione della coevoluzione tra cervello e cultura emerge con più forza nella parte propositiva del discorso di Alcorta e Sosis: l’analisi della comunicazione simbolica ritualizzata. Una comunicazione di questo tipo nasce da spinte adattative relative alla cooperazione sociale e alla coesione di gruppo. Tale forma di comunicazione, che affonda le radici nei comportamenti rituali presenti anche in altre specie animali, si avvale negli umani di un sistema di simboli caratterizzati da una forte connotazione emotiva. L’idea dei due studiosi è che la trasmissione e la fissazione delle credenze religiose si avvalgano di un riadattamento emozionale della comunicazione rituale. Non è qui il caso di entrare nei dettagli della questione se una comunicazione del genere possa davvero essere considerata un tratto fondamentale dell’evoluzione della credenza religiosa. Qui sono più importanti alcune considerazioni di ordine metodologico generale che un’ipotesi di questo tipo ci permette di fare: l’idea che i tempi siano maturi per provare a ipotizzare una sintesi tra modelli interpretativi troppo spesso considerati mutuamente escludentesi. Il caso della comunicazione ritualizzata permette di asserire che una strada del genere è quantomeno percorribile.
Conclusioni
Il caso del linguaggio e quello della credenza religiosa mostrano la possibilità di considerare la cultura da un punto di vista adattativo e, per questa strada, di dar corpo a una genuina ipotesi di coevoluzione tra cultura e cervello. La cultura è un artefatto cognitivo di cui il cervello umano si serve al fine di potenziare le proprie capacità di elaborazione: è un’impalcatura esterna, per usare un’espressione cara ai fautori della mente estesa. Le impalcature esterne, tuttavia, non rappresentano soltanto un guadagno dal punto di vista dei processi di elaborazione; esse rappresentano anche un costo da sopportare: sarebbe ingenuo considerare la carta e la penna come impalcature che ci sorreggono nelle attività di calcolo senza pensare all’impegno cognitivo che il saper fare di conto comporta per utilizzare quello specifico tipo di impalcatura. Da questo punto di vista, la cultura è al tempo stesso un aiuto alla soluzione delle situazioni problematiche ambientali, ma anche un nuovo problema ambientale (una nuova nicchia ecologica a cui l’organismo deve adattarsi).
Dire che la cultura è il prodotto secondario di processi cognitivi nati per altri scopi e al tempo stesso la nicchia ecologica che vincola tali sistemi a un riadattamento continuo significa dar corpo a un’ipotesi di coevoluzione tra cervello e cultura che rende plausibile l’idea di una prospettiva unitaria dell’essere umano. La ricerca è solo all’inizio, la maggior parte del lavoro deve ancora essere fatta. L’avere capito in quale direzione guardare, tuttavia, ci sembra di buon auspicio per la riflessione del nuovo millennio sul tema della natura umana.
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