Evoluzione culturale umana, processi della
Nella seconda metà dell'Ottocento il paradigma evoluzionistico si afferma in diversi ambiti disciplinari, dalla biologia alla filosofia, dalla sociologia alla nascente antropologia. L'evoluzionismo che domina la teoria antropologica ottocentesca tende a rappresentare la storia della società umana come un processo articolato in fasi caratterizzate da un grado crescente di sviluppo tecnico, di complessità sociale e di perfezione morale. Il passaggio da una fase a quella successiva coincide con l'ampliamento delle conoscenze e con l'aumento del potere dell'uomo sulla natura, mentre il punto d'arrivo dell'intero processo è identificato nella società moderna.
Il criterio che è alla base di questo modello, quello della complessità culturale crescente, consente di operare una classificazione delle società in base alla loro presunta 'inferiorità' o 'superiorità'. Nella ricostruzione dell'evoluzione culturale operata dagli antropologi ottocenteschi le società considerate 'selvagge' o 'barbare' vengono infatti giudicate 'arretrate' perché rimaste agli stadi iniziali o intermedi del processo evolutivo, stadi attraverso cui gli antenati degli europei contemporanei sono passati in epoche remote.
All'inizio del Novecento matura nell'antropologia un rifiuto radicale delle ricostruzioni puramente speculative elaborate dagli evoluzionisti ottocenteschi, un rifiuto che però finisce per negare la possibilità stessa di tentare una ricostruzione dell'evoluzione culturale.
A partire dagli anni trenta iniziano a svilupparsi parallelamente un'antropologia e un'archeologia neoevoluzioniste, la prima negli Stati Uniti per opera di Leslie White e Julian Steward, la seconda in Inghilterra per opera di Gordon Childe. L'obiettivo comune di questi studiosi è il recupero di una prospettiva di ricerca finalizzata all'elaborazione di leggi generali relative alle sequenze di sviluppo delle società umane. Tuttavia, mentre Childe e White aderiscono, sia pure criticamente, agli schemi macroevolutivi ottocenteschi, Steward privilegia una prospettiva microevolutiva e si propone di formulare generalizzazioni limitate come premessa all'elaborazione di principî universali.
Analogamente agli evoluzionisti ottocenteschi, che concepiscono la cultura umana come un'unica entità soggetta a un processo evolutivo unitario e mettono l'accento sulle somiglianze e le analogie, Childe e White tendono a privilegiare la convergenza delle culture verso l'esito finale della 'civiltà'. L'influenza esercitata su Childe e White dall'evoluzionismo unilineare ottocentesco è rintracciabile soprattutto nell'adozione di uno schema evolutivo ternario: la scansione delineata da Childe (v., 1934) - Paleolitico, Neolitico, civiltà - ricalca infatti la successione illuministica, ripresa da Morgan, di 'stato selvaggio', 'barbarie', 'civiltà'. Analogamente a Morgan, Childe ritiene che ogni stadio non corrisponda a un periodo cronologico ma costituisca una tappa del processo storico attraverso cui le società passano nel corso della loro evoluzione.
Momenti fondamentali del processo evolutivo sono, secondo Childe, la rivoluzione neolitica (che coincide con l'invenzione delle tecniche agricole e la domesticazione degli animali e quindi segna il passaggio a un'economia basata sulla produzione del cibo) e la rivoluzione urbana, associata a numerose invenzioni che consentono la produzione di surplus, fattore determinante per la nascita della civiltà.
Steward invece, discostandosi dall'impostazione macroevolutiva di Childe e White, non si propone di interpretare lo sviluppo culturale in termini di stadi universali ma privilegia lo studio di culture particolari e la ricerca di parallelismi di carattere limitato in una prospettiva che egli stesso definisce "evoluzionismo multilineare", in contrapposizione all'evoluzionismo unilineare di matrice ottocentesca. Egli tende a individuare "regolarità che si presentano in parti del mondo estremamente distanti" (v. Harris, 1968; tr. it., p. 879) e a definire "categorie di culture" in relazione a "categorie di ambienti" per giungere alla formulazione di tipi transculturali.
Anche se ritiene che l'analisi microevolutiva sia prioritaria e che la formulazione di generalizzazioni limitate debba precedere quella di principî universali, Steward non nega però la validità delle interpretazioni macroevolutive ed elabora uno schema articolato in sette stadi: caccia e raccolta, agricoltura incipiente, formazione, fioritura regionale, imperi iniziali, evi oscuri, conquiste cicliche (v. Steward, 1955; tr. it., p. 253).
Negli anni sessanta e settanta si assiste a uno sviluppo considerevole delle ricerche antropologiche di orientamento neoevoluzionistico, che riprendono e rielaborano, miscelandole in diversa misura, la prospettiva macroevolutiva di Childe e White e la strategia comparativa di Steward. Punto di riferimento comune di questi studi è il presupposto stewardiano secondo cui nelle trasformazioni culturali che si verificano in luoghi e tempi diversi sono reperibili ricorrenze e regolarità dovute alla presenza di condizioni analoghe. Queste regolarità sono ricondotte a correlazioni di tipo deterministico, individuate nell'ambito delle interazioni fra tecnologia e ambiente, le quali causerebbero modificazioni adattive dei sistemi di sussistenza che, a loro volta, provocherebbero le trasformazioni evolutive. L'individuazione di queste regolarità permetterebbe di definire dei tipi transculturali di organizzazione sociale.In Elman Service (v., 1962) e Morton Fried (v., 1967) è particolarmente evidente l'identificazione delle fasi della sequenza di sviluppo universale con dei tipi di organizzazione sociale definiti come livelli di integrazione di complessità crescente (banda, tribù, dominio, Stato nel caso di Service; società egalitarie, società gerarchiche, Stato nel caso di Fried).
Il problema dell'individuazione di processi evolutivi e della definizione di stadi e fasi è stato ampiamente dibattuto anche dalla sociologia. Particolarmente significativi appaiono i contributi di Gerhard Lenski (v., 1970) e Talcott Parsons (v., 1977). Lenski, richiamandosi a Childe, mette in rilievo i mutamenti relativi alle tecniche di sussistenza (passaggio dalla caccia e raccolta alla produzione del cibo, all'uso dei metalli, all'accumulazione di surplus) e individua come stadi della sequenza evolutiva le società di caccia e raccolta, le società orticole, le società agricole. Sia le società orticole che quelle agricole sono ulteriormente distinte da Lenski in 'semplici' e 'progredite' in base a criteri tecnologici: la presenza di utensili e armi metalliche caratterizza le società orticole 'progredite', mentre l'uso del ferro contraddistingue le società agricole 'progredite'.
Anche Parsons delinea una sequenza evolutiva che si ispira a quella di Childe e che si articola in tre stadi: primitivo, intermedio e moderno. All'interno del primo stadio Parsons opera un'ulteriore distinzione fra due fasi, la seconda delle quali coincide con l'apparizione delle società primitive 'avanzate'. La sedentarizzazione e lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento sarebbero i fattori che, determinando un rafforzamento e una 'cristallizzazione' dei diritti di proprietà, danno avvio al processo di differenziazione e gerarchizzazione che caratterizza queste società (v. Parsons, 1977, p. 39).
Allo stadio delle società primitive avanzate (fra le quali Parsons colloca i regni africani) segue quello delle società arcaiche (stadio intermedio), caratterizzato dall'invenzione della scrittura e dall'apparizione di un'élite sacerdotale che ne detiene il monopolio. Anche questo stadio si articola in due sottotipi, distinti in base al grado di sviluppo della tradizione letteraria: nel primo trovano posto l'antico Egitto e i regni mesopotamici, il secondo include i regni indiani, l'Impero cinese e quello romano (ibid., pp. 50-98).
Parsons attribuisce quindi alla scrittura un ruolo fondamentale nello sviluppo delle società complesse, a differenza di Childe che considera la scrittura solo un elemento collaterale e individua invece nella produzione di surplus il fattore determinante della rivoluzione urbana, da cui nasce la civiltà.
Le società contemporanee di cacciatori-raccoglitori costituiscono un oggetto di indagine di grande importanza per lo studio dell'evoluzione culturale in quanto presentano analogie significative con le forme di organizzazione umana del tardo Pleistocene, soprattutto per quel che concerne le modalità di adattamento all'ambiente, le tecniche di sfruttamento delle risorse e l'influenza che queste esercitano sulla struttura del gruppo e sulle relazioni fra gruppi. Infatti la dipendenza da una tecnologia di caccia e di raccolta determina, fra le popolazioni contemporanee così come fra quelle del Paleolitico superiore (35000-7000 a.C.), la formazione di gruppi di dimensioni ridotte (poche decine di individui) che nomadizzano su un vasto territorio, dispongono di un numero limitato di beni, non hanno una divisione sociale del lavoro (eccetto quella fra i sessi) e non sono gerarchizzati al loro interno.Alcuni studiosi (v. Lee e DeVore, 1968, p. 5) ritengono che le ipotesi più attendibili sulla vita umana nel Paleolitico possono essere formulate a partire dall'esame delle popolazioni attuali di cacciatori-raccoglitori insediate negli ambienti dotati di maggiori risorse, perché quelle che vivono in ambienti più ostili (foreste equatoriali, zone semidesertiche o subartiche) vi sono state spinte dall'avanzata dei popoli coltivatori in epoche più o meno remote e, in seguito, anche dalla colonizzazione occidentale, e si trovano quindi in una situazione ben diversa da quella dei cacciatori-raccoglitori pleistocenici, che avevano a disposizione l'intero pianeta.
L'importanza dello studio dei cacciatori-raccoglitori per la comprensione dell'evoluzione culturale emerge con chiarezza se si tiene conto che per milioni di anni gli Ominidi hanno basato la propria sussistenza sulle attività di caccia e raccolta e che l'inizio della coltivazione, cioè della produzione del cibo, risale a non più di diecimila anni fa. Ciò significa che l'abbandono della caccia e della raccolta e il passaggio alla coltivazione e all'allevamento, che si verificano con la rivoluzione neolitica, costituiscono un evento così recente, se commisurato ai tempi dell'evoluzione umana, che il periodo successivo costituisce meno dell'1% della storia della nostra specie.
L'attenzione dell'antropologia si è concentrata in particolare sull'organizzazione sociale delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori. All'inizio degli anni trenta Alfred Radcliffe-Brown individua - tra gli Aborigeni australiani - le caratteristiche principali del gruppo locale (da lui definito 'orda') nella patrilinearità, nella patrilocalità e nell'esogamia. Queste tre regole concorrono a dar vita a un'unità sociale costituita da un nucleo di maschi adulti legati da vincoli di consanguineità, dalle loro mogli, scelte in altre orde, dai loro figli e dalle sorelle nubili. Ogni orda controlla un proprio territorio e intrattiene con altre orde rapporti basati sullo scambio delle donne (v. Lee e DeVore, 1968, p. 7).
In seguito Steward identifica l'organizzazione sociale dei cacciatori-raccoglitori (da lui definita non più 'orda' ma 'banda') come un 'tipo' transculturale le cui caratteristiche strutturali sono reperibili in contesti geografici ed etnici del tutto diversi e che presenta due varianti o sottotipi: la banda 'patrilineare' (che ricalca le caratteristiche dell'orda già messe in luce da Radcliffe-Brown) e quella 'composita', formata "da famiglie nucleari [...] non imparentate fra loro" e priva delle caratteristiche della banda patrilineare, e cioè patrilinearità, patrilocalità ed esogamia (v. Steward, 1955; tr. it., pp. 193-194).
Elman Service (v., 1962, p. 47), pur riprendendo questa distinzione, avanza alcune critiche significative a Steward: sostituisce la dizione 'banda patrilineare' con quella di 'banda patrilocale' perché ritiene che il termine 'patrilineare' induca l'erronea convinzione che "l'appartenenza al gruppo sia essenzialmente una questione di calcolo della discendenza" (ibid., p. 38) e afferma che la banda composita costituisce una forma secondaria e tardiva, prodotta dalla destrutturazione della banda patrilocale in seguito al declino demografico determinato dal contatto con gli europei (ibid., p. 74).
L'aspetto più innovativo dell'analisi della banda condotta da Steward consiste nel tentativo di interpretare questa forma di organizzazione sociale in relazione a fattori tecnoambientali. Egli scarta la spiegazione in termini diffusionistici della ricorrenza delle bande in contesti geografici lontani e in ambienti diversi e individua invece la causa delle analogie strutturali tra cacciatori-raccoglitori di diversi continenti nei comuni "modelli di sfruttamento delle risorse" (v. Steward, 1955; tr. it., pp. 167 e 168) e quindi nell'interazione fra habitat e tecnologia. Al di là delle differenze (riguardanti soprattutto l'ambiente e la cultura materiale) Steward individua una costante fondamentale, costituita dall'adattamento a habitat ostili, caratterizzati da "risorse relativamente scarse e disperse", mediante tecniche di caccia e raccolta. La scarsità delle risorse e la modesta produttività di tali tecniche impongono una densità demografica molto bassa (un abitante su una superficie di circa 15-100 km²) e di conseguenza la formazione di bande di poche decine di individui (ibid., p. 170) che cacciano e raccolgono su un territorio di vaste dimensioni del quale, in un certo senso, detengono il controllo anche se "la territorialità sembra essere spesso una questione prevalentemente sociale, un modo di descrivere l'appartenenza a un gruppo, piuttosto che una questione di sfruttamento delle risorse" (v. Service, 1962, p. 60). Infatti di solito il territorio di una banda presenta confini piuttosto vaghi (v. Fried, 1967, p. 96). Le dimensioni delle bande contemporanee corrispondono a quelle dei gruppi di cacciatori-raccoglitori preistorici, calcolate sulla base dell'analisi archeologica degli insediamenti del Paleolitico superiore.
Le risorse da cui dipende la sopravvivenza della banda sono soggette a forti fluttuazioni, generalmente associate ai cicli stagionali, che sono la causa primaria dei processi periodici di "dispersione e aggregazione" del gruppo. Se ad esempio la banda dipende soprattutto dalla raccolta, le famiglie che la compongono "passano molto tempo separate"; se invece "la caccia a grandi animali è molto importante [...] tutti i membri della banda restano accampati insieme per la maggior parte del tempo, dato che questo tipo di caccia spesso richiede la cooperazione di un considerevole numero di individui" (v. Service, 1962, pp. 58-59).
La struttura patrilineare tipica della banda deriverebbe dalla patrilocalità (v. Steward, 1955; tr. it., p. 170) che a sua volta dipende da un modello di sussistenza basato su un'attività (la caccia) che è tipicamente maschile e che risulta più vantaggiosa se condotta in modo collettivo (v. Service, 1962, p. 34). La caccia cioè esige una cooperazione che evidentemente si rafforza se i cacciatori sono imparentati fra loro. Oltre alla caccia anche la conflittualità fra bande avrebbe contribuito per motivi analoghi a consolidare un modello patrilocale, dato che "l'esigenza di difendersi e attaccare" richiede una forte solidarietà fra i maschi del gruppo, solidarietà che è ovviamente più forte se i maschi sono consanguinei. La conflittualità nelle bande contemporanee è molto ridotta ma ciò non significa che anche i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore fossero pacifici (ibid., p. 35). Le bande contemporanee si trovano infatti in una situazione di inferiorità nei confronti delle etnie confinanti, più numerose e più forti, che inibisce ogni forma di aggressività.Il nucleo costitutivo della banda è dunque formato da un gruppo di maschi adulti legati da vincoli di consanguineità; la residenza patrilocale, che evita la loro dispersione, è la regola che assicura l'integrazione della banda mentre i rapporti fra bande sono resi possibili dalla regola esogamica che determina lo scambio delle donne (ibid., p. 54). Inoltre le bande non conoscono altre forme di gerarchia che quelle basate sul sesso, sull'età e sulla generazione (ibid., p. 65): gli uomini hanno un maggiore prestigio sociale in quanto a essi è riservata la caccia, che è considerata l'attività più importante, nonostante la raccolta, riservata alle donne, costituisca la forma di sostentamento principale. Di conseguenza quelli che emergono come gli aspetti più rilevanti dell'organizzazione sociale della banda (il monopolio maschile della caccia, nonché della difesa e della protezione del gruppo, la divisione sessuale del lavoro, la superiorità sociale dei maschi, la virilocalità e l'esogamia) risultano strettamente correlati fra loro.
Un'altra caratteristica rilevante della banda è l'assenza di qualsiasi tipo di autorità permanente e organizzata e di capi riconosciuti; l'unica forma di autorità è rappresentata da un leader che viene scelto dai membri della banda per le sue qualità personali e al quale viene affidato soprattutto il compito di guidare le spedizioni di caccia. Questo leader non ha alcun potere sugli altri né gode di privilegi particolari, e può mantenere il suo ruolo di guida solo finché conserva la fiducia del gruppo. Nelle società di banda non esistono neppure meccanismi istituzionali per il mantenimento dell'ordine e la soluzione dei conflitti interni; le controversie vengono risolte direttamente dagli individui che vi sono coinvolti.
Verso il 10000 a.C. l'invenzione della coltivazione e la domesticazione degli animali avviano una trasformazione radicale delle tecniche di sussistenza nota come 'rivoluzione neolitica'. Il passaggio da un'economia di caccia e raccolta a una basata sulla produzione di cibo determina una profonda trasformazione dell'organizzazione sociale. La disponibilità di risorse abbondanti e non soggette a fluttuazioni consente la formazione di aggregazioni più vaste, rispetto alle poche decine di individui che costituiscono di norma una banda, e la creazione di insediamenti stabili. I più antichi villaggi di orticoltori scoperti in Medio Oriente e in Europa avevano presumibilmente una popolazione compresa fra i cento e i duecento individui, analoga a quella di molte comunità di orticoltori contemporanei (v. Lenski, 1970, p. 139). Le nuove forme di integrazione sociale che si sviluppano nel corso del Neolitico si differenziano però dalle bande non solo quantitativamente ma anche qualitativamente: infatti le comunità neolitiche tribali presentano un'articolazione interna più complessa di quella della banda.La differenza più significativa è costituita dalla presenza di 'associazioni pantribali', che assumono la forma di aggregazioni a base parentale (clan, lignaggi, parentadi) o non parentale (classi di età, associazioni cerimoniali o militari), capaci di mantenere la coesione della tribù (v. Service, 1962, p. 102). La formazione di queste associazioni sarebbe indotta dalla necessità di sviluppare capacità adeguate di difesa di fronte alle minacce esterne; in altri termini è la competizione intertribale che determina il consolidamento dell'unità tribale (ibid., p. 103). I rapporti fra tribù infatti sono di natura puramente conflittuale; ogni gruppo è in stato di guerra aperta o latente con tutti i gruppi confinanti e l'unica possibilità di sopravvivenza è costituita da un livello di organizzazione e una capacità di mobilitazione superiori o pari a quelli degli avversari. Di conseguenza il passaggio di gran parte dell'umanità dal livello di organizzazione sociale corrispondente alla banda al livello tribale sarebbe stato determinato dalle superiori capacità di offesa e difesa assicurate dall'integrazione tribale: in un conflitto fra una banda e una tribù è inevitabilmente la seconda, più numerosa e organizzata, ad avere il sopravvento.
La tesi di Service, secondo cui banda e tribù rappresentano due distinte fasi evolutive, non è però condivisa da tutti. Morton Fried (v., 1967, p. 170) rifiuta di riconoscere la tribù come una fase evolutiva specifica e sostiene che "l'affermazione secondo cui la tribù è qualcosa di più di un mero aggregato di bande non è adeguatamente argomentata" (ibid., p. 165). Fried definisce banda e tribù "società egalitarie" e le colloca al medesimo livello di integrazione socioculturale in quanto la banda non è che il gruppo che occupa uno degli accampamenti il cui insieme costituisce la tribù (ibid.). Di conseguenza le società che praticano la coltivazione o l'allevamento non sono società tribali, per Fried, ma "società gerarchiche"; ciò implica non solo che la rivoluzione neolitica dovrebbe coincidere con l'apparizione della diseguaglianza sociale (ipotesi difficilmente dimostrabile), ma anche che non può esistere una società di orticoltori di tipo acefalo o egalitario, tesi contraddetta dalla documentazione etnografica. Inoltre Fried sorvola sulla presenza di differenze significative fra banda e tribù per quel che concerne l'organizzazione politica.
Nella tribù l'autorità assume infatti contorni più definiti rispetto alla banda: non solo presenta una maggiore continuità, ma esercita anche una gamma più vasta di funzioni ed è circondata da un prestigio che trova espressione in simboli ed emblemi. Depositario dell'autorità è spesso un singolo individuo, un capo che viene scelto in base al suo prestigio e alle sue capacità; in assenza di cariche politiche istituzionali la leadership tribale presenta un carattere "personale e carismatico" (v. Service, 1962, p. 103). Tuttavia l'autorità politica può assumere anche altre forme, identificandosi non solo con un leader ma, ad esempio, con un consiglio di anziani o una 'classe d'età'. Inoltre va messo in rilievo che, a differenza di quanto avviene nella banda, la leadership tribale ha un carattere permanente, estende le proprie competenze su diversi ambiti della vita sociale e possiede molteplici prerogative, come l'organizzazione del calendario delle attività cerimoniali e rituali, la soluzione delle dispute, il comando militare in caso di conflitto, la comunicazione rituale fra la comunità e gli spiriti degli antenati.
L'autorità tribale non dispone però di istituzioni giudiziarie e di mezzi di repressione: perciò il capo o il consiglio degli anziani devono ricorrere, per risolvere i contrasti, allo strumento della mediazione o della prevenzione. Un altro aspetto essenziale dell'organizzazione tribale è costituito dai meccanismi di controllo sociale che prescindono dall'intervento delle figure dotate di autorità. In proposito va citata la faida, che innesca su una vendetta iniziale una catena di ritorsioni che coinvolgono gruppi corporati (ibid., p. 104) e possono essere interrotte dal pagamento di un risarcimento sotto varie forme: in alcuni casi "può essere ceduta una persona in sostituzione di quella uccisa" (un uomo per un uomo, una donna per una donna) in altri invece "possono essere consegnati capi di bestiame" (v. Beattie, 1964; tr. it., p. 213). Nelle società tribali hanno importanza anche altri meccanismi di controllo sociale, come quelli che sfruttano la pressione dell'opinione pubblica: chi ha commesso un'infrazione può essere oggetto di scherno o derisione, ma in casi particolarmente gravi può anche essere bandito dalla comunità. Sono frequenti le "sanzioni rituali", che implicano l'intervento di forze o poteri fantasmatici (spiriti di antenati, anime di defunti) e sono basate sulla convinzione che determinate azioni socialmente riprovevoli attirino sul colpevole l'ira di queste entità (ibid., pp. 242-43).
Una ricostruzione ipotetica dei processi che determinarono nelle società tribali, caratterizzate da forme di leadership temporanee e non stabili, l'apparizione di un'autorità istituzionalizzata associata a una carica ereditaria è stata compiuta da J. Friedman e M. J. Rowlands (v., 1977), i quali riprendono e sviluppano l'idea - già formulata da Marshall Sahlins (v., 1963 e 1965), Philip Drucker (v., 1965) e Morton Fried (v., 1967) - secondo cui la costruzione dei rapporti di dominio nelle società che rappresentano l'anello di congiunzione fra la fase tribale e l'apparizione dello Stato è strettamente connessa all'attivazione di circuiti ridistributivi del surplus. In queste società (che sono state variamente definite chiefdoms, chefferies, dominî, società gerarchiche) l'autorità politica si rafforza perché assume compiti di coordinamento economico e si pone come centro di accumulazione e ridistribuzione delle eccedenze.
Questa evoluzione è resa possibile dalle caratteristiche 'ideologiche' del modo di produzione tribale e, più precisamente, dalla credenza secondo cui "la ricchezza e la prosperità [...] sono controllate direttamente da esseri soprannaturali", i quali sono identificati con gli antenati dei lignaggi locali (v. Friedman e Rowlands, 1977, p. 207). Questi spiriti ancestrali presiedono al benessere dei loro discendenti fungendo da tramite con gli spiriti più potenti, dispensatori di fertilità e prosperità (ibid.). Ma qual è la connessione fra queste credenze, le attività produttive e i processi di gerarchizzazione? Secondo Friedman, che ha elaborato questo modello evolutivo basandosi sullo studio dei Kachin della Birmania settentrionale (v. Friedman, 1975), il lignaggio che ha fatto un buon raccolto e quindi ha accumulato un consistente surplus, allestisce una grande festa per l'intero villaggio allo scopo di acquisire prestigio (v. Friedman e Rowlands, 1977, p. 207). La credenza secondo cui i buoni raccolti si ottengono "sacrificando agli spiriti" e propiziandosi la loro benevolenza fa sì che il surplus ottenuto dai più fortunati non sia considerato "prodotto del lavoro" ma "lavoro degli dei" (v. Friedman, 1975, p. 173). Di conseguenza il lignaggio che ha maggior successo nelle attività agricole diviene, nel giudizio collettivo, "quello in grado di esercitare la maggiore influenza sugli spiriti" e di accaparrarsi il loro favore. Questa influenza viene attribuita a una più "stretta relazione genealogica": infatti nel sistema di credenze indigeno il diritto di 'parlare' agli spiriti è prerogativa di chi ne discende in linea diretta. Perciò al lignaggio che ottiene il miglior raccolto si attribuisce il legame genealogico più stretto con lo spirito dell'antenato fondatore della comunità. In tal modo il prestigio accumulato con le feste ridistributive si trasforma in autorità politica. Il lignaggio che ottiene i migliori raccolti e che quindi ha un rapporto privilegiato con gli spiriti si inserisce "al livello più alto nella struttura genealogica della comunità" (ibid.) e assume un ruolo dominante in conseguenza del quale può cedere le proprie donne (come mogli) ai gruppi di status inferiore in cambio di cospicui compensi che lo risarciscono delle elargizioni fatte durante le feste ridistributive (v. Friedman e Rowlands, 1977, p. 207).
Questo processo di approfondimento delle differenze di rango fra i gruppi all'interno della comunità determina lo sviluppo di un'organizzazione sociopolitica piramidale il cui vertice è occupato dal lignaggio dominante e i gradini inferiori dagli altri gruppi, il cui rango viene ridefinito in termini di distanza genealogica dal lignaggio dominante. La nascita di questo tipo di struttura sociale segna il passaggio dalla società tribale, ancora egalitaria, a una società gerarchizzata, articolata in ranghi definiti e stabili (v. Friedman e Rowlands, 1977).
Questa ricostruzione ipotetica della transizione dalla società tribale a quella gerarchica (il 'dominio') si inserisce nel quadro di una tesi progressivamente elaborata dall'archeologia del Novecento e messa a punto da Gordon Childe (v., 1936 e 1942): la tesi secondo cui il passaggio a un'economia basata sulla produzione del cibo (la rivoluzione neolitica) non solo consente di disporre di risorse più abbondanti e meno soggette a fluttuazioni imprevedibili, ma crea la possibilità di accumulare eccedenze. È la disponibilità di un surplus alimentare la premessa indispensabile perché si inneschino processi di stratificazione sociale e nascano società gerarchizzate. Queste società (i 'domini') si differenziano in modo significativo da quelle tribali sia sul piano demografico, sia su quello economico e politico. Le maggiori dimensioni rispetto alla tribù (il dominio può includere migliaia di individui) sono rese possibili dalla produzione di surplus; ma la disponibilità di consistenti eccedenze, se consente la formazione di insediamenti di vaste dimensioni e una densità demografica superiore rispetto a quella delle tribù, stimola anche lo sviluppo di forme di specializzazione professionale e di una divisione sociale del lavoro che nelle bande e nelle tribù sono del tutto assenti (v. Service, 1962, p. 133). L'autorità tende a istituzionalizzarsi e a identificarsi con una carica trasmessa ereditariamente all'interno del lignaggio che ha acquisito (nel modo ipotizzato da Friedman o attraverso altri processi) una posizione dominante.
Il capo, che esercita la propria autorità su più comunità locali, controlla i processi di accumulazione e ridistribuzione del surplus (v. Service, 1962, p. 137; v. Friedman e Rowlands, 1977, pp. 208-209); l'accumulazione è assicurata dal flusso di tributi, compensi matrimoniali e prestazioni lavorative gratuite, mentre la ridistribuzione si svolge attraverso il circuito cerimoniale delle feste allestite dal capo. Una parte delle risorse accumulate non viene però immessa nel circuito ridistributivo ma trattenuta dal capo e destinata sia all'acquisizione di mogli, sia al mantenimento di una corte composta da familiari, schiavi, artigiani specializzati. Al controllo del surplus è associata la prerogativa di organizzare e coordinare le attività economiche e i lavori di interesse collettivo (vie di comunicazione, ponti, canali di irrigazione, opere di difesa) nonché la facoltà di mobilitare i sudditi per l'esecuzione di questi lavori.Il capo del dominio ha anche il diritto di prendere decisioni più propriamente politiche: dichiarare guerre, stipulare alleanze, punire crimini e infrazioni, imporre sanzioni; tuttavia la sua sovranità è limitata dall'obbligo di rispettare le tradizioni e di ottenere il consenso di un gruppo ristretto, costituito o dall'élite aristocratica di cui fanno parte i suoi parenti, o dagli anziani della comunità. Un'ulteriore, significativa differenza rispetto alle società tribali (oltre a quelle inerenti all'organizzazione politica) è costituita dalla legittimazione mistica dell'autorità. I capi dei domini si circondano di simboli (emblemi e insegne di varia natura: scettri, troni, tamburi, armi, abiti da cerimonia) che esprimono la sacralità del potere, sacralità che trova fondamento nella rivendicazione dell'origine soprannaturale del potere e nella sua funzione mediatrice fra i sudditi e gli spiriti, della cui benevolenza i capi si fanno garanti. Il monopolio dei rapporti con l'invisibile comporta la gestione delle attività rituali da parte del capo o di specialisti scelti fra i suoi consanguinei (v. Service, 1962, p. 167).
Il dominio costituisce, da un punto di vista non solo tipologico ma anche evolutivo, una forma di organizzazione sociopolitica intermedia fra le società egalitarie e acefale (la banda e la tribù) e lo Stato, del quale anticipa in forma embrionale alcune delle caratteristiche salienti (v. Service, 1962; v. Fried, 1967; v. Sanders e Price, 1968; v. Friedman e Rowlands, 1977). I tratti prestatuali del dominio sono stati individuati: a) nello sviluppo della diseguaglianza nell'ambito di un'organizzazione sociale di tipo ancora tribale, in cui cioè sono ancora dominanti le relazioni di parentela; b) nell'apparizione di un'autorità centralizzata che però non dispone di strumenti coercitivi; c) nell'articolazione degli status in una gerarchia di ranghi non ancora definibili in termini di classi; d) in una differenziazione dell'accesso alle risorse e al loro controllo che però non comporta l'istituzione della proprietà privata (v. Service, 1962, pp. 163-165).
L'apparizione dello Stato primitivo coincide non solo con un consistente incremento demografico (la popolazione dell'antico Regno egizio, ad esempio, era presumibilmente di circa quindici milioni di individui: v. Lenski, 1970, p. 183) ma anche con una sostanziale trasformazione delle strutture economiche e politiche: si sviluppa un apparato amministrativo, il potere si dota di milizie permanenti e organizza in modo sistematico lo sfruttamento della manodopera e l'esazione di tributi. Le caratteristiche già presenti nei dominî in forma embrionale (la specializzazione produttiva e la stratificazione degli status) si consolidano, provocando ulteriori trasformazioni dell'organizzazione socioeconomica. Infatti la differenziazione dei compiti e la moltiplicazione delle attività artigianali e mercantili favoriscono lo sviluppo di un sistema di ruoli ai quali sono associate le funzioni di controllo, coordinamento, amministrazione svolte da giudici, scrivani, archivisti, impiegati, magazzinieri.
Le cause della nascita dello Stato e le fasi in cui si articola il passaggio dalla società prestatuale a questa nuova forma di organizzazione sociopolitica costituiscono un problema lungamente dibattuto, su cui si è concentrato l'interesse sia degli archeologi, sia degli antropologi culturali e dei sociologi. Notevole è stato il contributo teorico fornito dal filone di pensiero marxista; Friedrich Engels (v., 1884) individua nell'apparizione della proprietà privata il fattore determinante per la nascita dello Stato, la cui funzione principale consisterebbe nella difesa degli interessi delle classi dominanti. Molti studiosi di ispirazione marxista, fra cui Maurice Godelier (v., 1969), Anatolii Khazanov (v., 1971) ed Emmanuel Terray (v., 1975), concordano però nel ritenere che il rapporto fra lo sviluppo della proprietà privata e l'apparizione dello Stato non può essere concepito in termini "di semplice causalità meccanica" (v. Claessen e Skalnik, 1978, p. 8), anche se la tendenza della gerarchia dei ranghi a evolvere progressivamente verso un sistema di classi sociali è sicuramente accentuata dall'apparizione della proprietà privata, che consolida i privilegi dell'élite dominante e approfondisce le diseguaglianze.
Di ispirazione marxista è anche la teoria di Childe (v., 1936 e 1942), secondo cui l'inizio della civiltà e l'apparizione dello Stato sono contrassegnati dalla rivoluzione urbana, la quale è innescata dalla produzione di un surplus che permette lo sviluppo della specializzazione, della diversificazione interna della società e della sua stratificazione (v. Scarduelli, 1990, p. 165). La possibilità di produrre eccedenze è, secondo Childe, inerente alla natura dell'economia neolitica, ma l'effettiva produzione di surplus ha luogo solo grazie al progresso delle conoscenze che si verifica fra il quarto e il terzo millennio a.C. nell'area compresa fra il Mediterraneo, il Sahara, il Caucaso e l'Himalaya. Le invenzioni che aprono la strada alla rivoluzione urbana sarebbero la metallurgia del rame e del bronzo, l'imbrigliamento del potere di trazione animale, l'aratro, i veicoli a ruota, la ruota dei vasai. La rivoluzione urbana è contrassegnata inoltre dall'invenzione della scrittura, la cui origine sarebbe riconducibile alle necessità di registrazione collegate all'amministrazione dei templi e la cui utilizzazione era riservata a scribi e funzionari. Per Childe, tuttavia, mentre la produzione di surplus destinato a mantenere gruppi di specialisti è il fattore determinante della rivoluzione urbana, la scrittura costituisce piuttosto un semplice elemento collaterale.I più importanti contributi di matrice non marxista allo studio dell'origine dello Stato possono essere ricondotti a due prospettive teoriche che affrontano il problema in modo diametralmente opposto. La 'teoria della conquista' (formulata nei primi anni del Novecento dal sociologo tedesco Franz Oppenheimer - v., 1907 - e ripresa da Richard Thurnwald - v., 1931-1934 -, D. Westermann - v., 1952 - e Robert Carneiro - v., 1970) afferma che lo Stato nasce dall'assoggettamento e dallo sfruttamento degli sconfitti; a essa si contrappone la 'teoria integrativa', sostenuta da Robert Lowie (v., 1927), che sottolinea il ruolo dell'associazione volontaria, da Steward (v., 1955), da Service (v., 1975) e da Karl Wittfogel (v., 1957), il quale individua il fattore determinante nello sviluppo dell'irrigazione che, se praticata su larga scala, esige la presenza di un centro di organizzazione e coordinamento (v. Claessen e Skalnik, 1978, pp. 9-10). L'ipotesi di Wittfogel è stata però messa in crisi dallo sviluppo delle ricerche archeologiche, che hanno dimostrato l'assenza di opere idrauliche nella fase di formazione di molti Stati arcaici (v. Sanders e Price, 1968, p. 149; v. Carneiro, 1970, p. 733; v. Claessen e Skalnik, 1978, p. 11).
Carneiro, che è uno dei fautori della tesi dell'origine conflittuale dello Stato, attribuisce un'importanza determinante a fattori esogeni, sostanzialmente di natura ambientale e demografica. Egli osserva che "tutte le zone in cui sono sorti i primi Stati - le valli del Nilo, del Tigri-Eufrate e dell'Indo nel Vecchio Mondo, la valle del Messico e le montagne e le valli costiere del Perù nel Nuovo Mondo - [...] sono aree coltivabili circoscritte [...] circondate da montagne, mari, deserti" (v. Carneiro, 1970, p. 733). In ambienti di questo tipo, caratterizzati da una disponibilità limitata di terra coltivabile, i problemi posti dall'incremento demografico non possono essere risolti attraverso la progressiva dispersione degli insediamenti in territori disabitati, soluzione adottata dalle nuove comunità prodotte per fissione solo in una fase iniziale.
Carneiro ipotizza (ibid., p. 735) che, quando la terra comincia a scarseggiare, si tenti dapprima di aumentare la produttività ricorrendo a nuove tecniche, come il terrazzamento e l'irrigazione, e successivamente, se il ritmo con cui la nuova terra viene resa disponibile per la coltivazione si rivela insufficiente in rapporto al tasso di incremento demografico e quindi alla crescita del fabbisogno alimentare, si produca una competizione che si traduce in conflitti armati fra villaggi. Poiché la configurazione ambientale delle aree in cui si verificano questi processi è tale da precludere la fuga agli sconfitti (i quali sono bloccati da barriere naturali: deserti, oceani, montagne), le uniche alternative che restano loro sono lo sterminio o la permanenza nel territorio alle condizioni dei vincitori, cioè la subordinazione e il pagamento di un tributo. Ma la subordinazione implica "l'incorporazione nell'unità politica dominata dal vincitore", un'unità più vasta e dotata di un'organizzazione più complessa del singolo villaggio, e cioè un dominio (ibid.). In seguito, secondo l'ipotetica ricostruzione di Carneiro, la guerra fra domini (determinata sempre dalla penuria di terra) porterebbe alla sottomissione di alcuni di essi e all'apparizione di unità politiche di livello superiore. La nascita degli antichi Stati sarebbe il risultato di questo processo di integrazione coatta a sempre più vasto raggio (ibid., p. 736).
Se Carneiro, che si colloca nella prospettiva teorica della 'scuola neoevoluzionista', individua la guerra come fattore determinante (insieme alla circoscrizione ambientale e all'incremento demografico) nei processi di formazione degli antichi Stati, altri esponenti della medesima scuola sottolineano invece l'importanza dei processi di integrazione pacifica, ritenendo che il consolidamento di una leadership capace di creare un'organizzazione centralizzata e di attivare circuiti distributivi sia assicurato dai vantaggi che essa garantisce alla collettività, che sono nettamente superiori a quelli offerti da soluzioni alternative; di conseguenza l'integrazione volontaria e pacifica sarebbe un fattore più rilevante della guerra nella genesi degli antichi Stati (v. Service, 1975, p. 292).
Questa posizione, che richiama quella di Lowie, è radicalmente diversa non solo da quella sostenuta da Carneiro, ma anche dalle tesi di altri antropologi neoevoluzionisti che sottolineano, in accordo con la teoria marxista, la natura coercitiva dell'apparato statale e ne individuano l'origine nella necessità di assicurare a una parte della popolazione, anche con la forza, l'accesso privilegiato alle risorse (v. Fried, 1967, pp. 191 e 229).
(V. anche Antropologia ed etnologia; Cultura).
Beattie, J., Other cultures: aims, methods and achievements in social anthropology, London 1964 (tr. it.: Uomini diversi da noi, Roma-Bari 1975).
Carneiro, R. L., A theory of the origin of the State, in "Science", 1970, CLXIX, pp. 733-738.
Childe, V. G., New light on the most ancient East: the Oriental prelude to European prehistory, London 1934.
Childe, V. G., Man makes himself, London 1936 (tr. it.: L'uomo crea se stesso, Torino 1952).
Childe, V. G., What happened in history, Harmondsworth 1942 (tr. it.: Il progresso nel mondo antico, Torino 1949).
Claessen, H. J., Skalnik, P., The early State: theories and hypotheses, in The early State (a cura di H. J. Claessen e P. Skalnik), The Hague 1978, pp. 3-29.
Drucker, P., Cultures of the North Pacific Coast, San Francisco 1965.
Engels, F., Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staats, Hottingen-Zürich 1884 (tr. it.: L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Roma 1963).
Fried, M., The evolution of political society, New York 1967.
Friedman, J., Tribes, States and transformations, in Marxist analyses and social anthropology (a cura di M. Bloch), London 1975, pp. 161-202.
Friedman, J., Rowlands, M. J., Notes towards an epigenetic model of the evolution of 'civilisation', in The evolution of social systems (a cura di J. Friedman e M. J. Rowlands), London 1977, pp. 201-276.
Godelier, M., La notion de 'mode de production asiatique' et les schémas marxistes d'évolution des sociétés, in Sur le 'mode de production asiatique' (a cura di R. Garaudy), Paris 1969, pp. 47-100.
Harris, M., The rise of anthropological theory: a history of theories of culture, New York 1968 (tr. it.: L'evoluzione del pensiero antropologico: una storia della teoria della cultura, Bologna 1971).
Khazanov, A. M., Les grandes lignes de la formation des classes dans la société primitive, in Problèmes théoriques de l'ethnographie, Moskva 1971, pp. 66-75.
Lee, R. B., DeVore, I., Problems in the study of hunters and gatherers, in Man the hunter (a cura di R. B. Lee e I. DeVore), Chicago 1968, pp. 3-12.
Lenski, G., Human societies: a macrolevel introduction to sociology, New York 1970.
Lowie, R., The origin of the State, New York 1927.
Oppenheimer, F., Der Staat, Frankfurt a. M. 1907.
Parsons, T., The evolution of societies, Englewood Cliffs, N. J., 1977.
Sahlins, M., Poor man, rich man, big man, chief: political types in Melanesia and Polynesia, in "Comparative studies in society and history", 1963, V, pp. 285-303.
Sahlins, M., On the sociology of primitive exchange, in The relevance of models for social anthropology (a cura di M. Banton), London 1965, pp. 139-236 (tr. it.: La sociologia dello scambio primitivo, in L'antropologia economica, a cura di E. Grendi, Torino 1972, pp. 99-147).
Sanders, W., Price, B., Mesoamerica: the evolution of a civilization, New York 1968.
Scarduelli, P., Metodo comparativo ed evoluzione multilineare, in La storia comparata: approcci e prospettive (a cura di P. Rossi), Milano 1990, pp. 163-186.
Service, E. R., Primitive social organization: an evolutionary perspective, New York 1962 (tr. it.: L'organizzazione sociale primitiva, Torino 1983).
Service, E. R., Origins of the State and civilization, New York 1975.
Steward, J. H., Theory of culture change, Urbana, Ill., 1955 (tr. it.: Teoria del mutamento culturale, Torino 1977).
Terray, E., Classes and class consciousness in the Abron kingdom of Gyaman, in Marxist analyses and social anthropology (a cura di M. Bloch), London 1975, pp. 85-135.
Thurnwald, R., Die menschliche Gesellschaft in ihren ethnosoziologischen Grundlagen, 5 voll., Berlin-Leipzig 1931-1934.
Westermann, D., Geschichte Afrikas: Staatenbildung südlich der Sahara, Köln 1952.
Wittfogel, K. A., Oriental despotism: a comparative study of total power, New Haven, Conn., 1957 (tr. it.: Il dispotismo orientale, Milano 1980).