Evoluzione del capitalismo
Capitalismo è termine dal significato non molto chiaro. Forse per questa ragione Marx non lo usò mai. In generale si denota con quel termine un sistema nel quale i mezzi di produzione (capitali) sono posseduti da proprietari privati. In tal senso il capitalismo è esistito in tutta la storia economica come aspetto specifico dell’economia di mercato.
Ma è solo con la Rivoluzione industriale che il capitale è diventato il mezzo di produzione dominante. Così, si dovrebbe più correttamente parlare di capitalismo industriale moderno.
Con la Rivoluzione industriale l’umanità ha segnato una svolta storica fondamentale.
Questa svolta possiamo collocarla tra il 1780 e il 1820, in Inghilterra. E li che avviene il «salto»: una vera e propria impennata delle capacita umane.
La retta che rappresenta su un grafico l’evoluzione del prodotto mondiale dal 2000 a.C. a oggi segue una pendenza in ascesa discreta fino al 1820, poi si impenna drammaticamente saltando in meno di due secoli, fino al 1990, trentasei volte.
Cosi i capitalisti, proprietari del capitale, sono diventati la classe dominante dell’organizzazione produttiva e della struttura sociale.
Si tratta di un periodo storico di due secoli appena, durante il quale si succedono due grandi «egemonie» nazionali, quella britannica, dall’inizio del sec. 19° alla Prima guerra mondiale; e, dopo la parentesi tra le due guerre, quella americana, che ancora perdura. Ci sono significative corrispondenze e differenze tra le due «egemonie».
Tra le differenze, la più rilevante e che non sappiamo che fine farà la seconda.
Sappiamo invece tutto sull’inizio e sulla fine della prima.
Il suo inizio si identifica con la Rivoluzione industriale. Una domanda si pone: perché proprio in Inghilterra? Era molto meno popolosa della Francia. Era molto meno ricca dell’Olanda. Ma in Inghilterra si generò una massiccia offerta di lavoro costituita dai contadini scacciati dalle campagne a seguito della commercializzazione dell’agricoltura (le famose «recinzioni» che trasformavano il campo aperto in una farm). La disponibilità spietatamente sfruttabile di questo proletariato e la sua concentrazione in fabbriche dove si potevano applicare le innovazioni introdotte da geniali bricoleurs spiega il decollo dell’industria. Questa si propago a macchia d’olio nei diversi settori (tessili, carbone, ghisa) e agli altri Paesi. Ma l’Inghilterra conservò il suo primato per la maggior parte del sec. 19° e dettò anche, grazie a quello, le regole di un’economia mondiale nel sistema aureo, il gold standard, garante dell’equilibrio dei cambi e degli scambi. Quelle regole governarono la prima globalizzazione, che Marx fece in tempo ad apprezzare come un obiettivo progresso in direzione di un’economia socialista.
Fu nella parte finale del secolo che il primato britannico fu sfidato dalla concorrenza dei nuovi Paesi industriali, soprattutto Germania e Stati Uniti; e che il sistema aureo, che garantiva il libero scambio, fu contestato dai nuovi concorrenti, in nome di un protezionismo sempre più aggressivo.
All’inizio del nuovo secolo, questa concorrenza si inasprì in un confronto imperialistico che sfocio nel disastro della Prima guerra mondiale.
È in quella guerra che emerge, rispetto a un’Europa stremata, la nuova egemonia americana.
Il giovane capitalismo americano traeva la sua forza da due grandi risorse: una materiale, costituita dalle immense dotazioni naturali sottratte ai primitivi abitanti del continente non asserviti, come avevano fatto gli spagnoli, ma direttamente sterminati, come i loro bisonti. Il lavoro lo fornirono i coloni. Esso attingeva la sua energia all’altra grande risorsa, quella della religione. Una religione non inaridita da secoli di ritualizzazione ecclesiastica, ma restituita alla freschezza originaria della coscienza individuale. Il capitalismo americano fu fortemente segnato da questa impronta religiosa.
«Questo» – disse un testimone del tempo – «è un mondo in cui uno comincia di nuovo. Noi viviamo sotto un altro cielo, quello degli uomini che hanno attraversato il mare».
La partenza del capitalismo americano fu folgorante. Dal 1820 al 1850, in piena egemonia britannica, il prodotto interno crebbe al 4,2% medio annuo raddoppiando ogni sedici anni.
Nel 1850 gli Stati Uniti si collocavano già al terzo posto tra le potenze mondiali, dietro la Gran Bretagna e la Francia. Nel 1870 raggiunsero il primato mondiale del prodotto globale, nel 1903 quello del prodotto pro capite. Si erano tenuti alla larga dai conflitti europei e sotto la guida di T. Wilson, il presidente più perplesso della loro storia, avevano tentato di evitare la stolta macelleria della guerra. Furono i tedeschi a trascinarveli, attaccando le navi americane con i loro sommergibili. Alla fine della guerra i debiti dei Paesi europei verso gli Stati Uniti ammontavano a 225 miliardi di dollari. Cominciava il secolo americano.
Iniziò male per l’America. Dopo una fase tumultuosa di boom economico, giunse il 1929.
Il presidente H. Hoover aveva appena annunciato che era ormai prossimo il trionfo sulla povertà che il Paese piombò in una crisi paurosa trasmettendola all’intero mondo capitalistico: il sistema finanziario americano era uscito di controllo. La crisi gettò sul lastrico 30 milioni di lavoratori, generando conflitti politici e sociali devastanti. In Europa (Italia, Germania, Spagna) prevalevano i partiti e i movimenti fascisti.
Negli Stati Uniti F.D. Roosevelt portò alla vittoria i democratici. Le condizioni economiche provocarono il ricorso massiccio all’intervento pubblico, a sinistra come a destra. La situazione precipitò verso il secondo conflitto mondiale.
Dopo la Seconda guerra mondiale il capitalismo americano ha saputo gestire responsabilmente un’egemonia basata sulla indiscutibile superiorità economica definitivamente emersa dalla guerra, pagandone intelligentemente i costi, come nella lungimirante impresa del piano Marshall.
Poi, di fronte alla concorrenza degli altri Paesi capitalisti, esso si è deciso a far pesare per intero la sua «superpotenza» con due decisioni strategiche adottate rispettivamente all’inizio degli anni Settanta, lo sganciamento del dollaro dall’oro, e all’inizio degli Ottanta, la liberazione dei movimenti di capitale. Quest’ultima ha scatenato la seconda globalizzazione, modificando i rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra il mercato e la politica a livello mondiale.
Nell’ultimo quarto del secolo, scomparso con un colpo di teatro il grande rivale sovietico, la superpotenza americana è apparsa trionfante. Una nuova economia fiorita sulla base delle innovazioni elettronico-informatiche restituiva all’America una iniziativa che l’Europa e il Giappone avevano insidiato.
Le multinazionali gravitanti nell’orbita americana raggiungevano e superavano le dimensioni di molti Stati nazionali. Il cosiddetto «consenso di Washington≫, e cioè la disciplina degli scambi mondiali, era garantito dal fondo monetario e il mercato finanziario mondiale gravitante anch’esso su Wall Street dirigeva i poderosi flussi del risparmio e degli investimenti mondiali.
Ci fu, tra gli economisti più entusiasti, chi annunciò la fine delle fluttuazioni economiche e l’inizio di un’epoca di ininterrotta e stabile crescita dell’economia capitalistica verso traguardi di benessere ormai alla portata di tutta l’umanità.
Ma proprio verso la fine del sec. 20° si manifestavano le prime crepe che avrebbero caratterizzato il «decennio zero», il primo del 21°: un decennio che, nato nell’euforia, si è chiuso nel segno della delusione e della crisi.
La globalizzazione economica aveva permesso di schiudere a centinaia di milioni di abitanti del pianeta l’ingresso nel mondo della crescita e dei consumi, ma aveva reso ancor più stridente il contrasto tra Paesi ricchi o in via di sviluppo e Paesi poveri e ristagnanti. Soprattutto, aveva messo in luce il divario tra il grado di integrazione economica e di integrazione politica, rendendo sempre meno accettabile un tipo di ordinamento mondiale facente capo a un gruppo ristretto di paesi capitalistici.
La mercatizzazione dello spazio mondiale, inoltre, aveva rivelato l’insufficienza dei mercati ad affrontare i grandi problemi della diseguaglianza e il crescente bisogno di un «governo politico» del mondo.
Alla mercatizzazione dello spazio si era affiancata una «mercatizzazione del tempo» (futuro) realizzata da un grandioso processo di finanziarizzazione.
La funzione preziosa della finanza, come strumento di ottimizzazione della distribuzione dei risparmi, era stata dilatata e distorta verso una prenotazione di risorse future realizzata dalle banche e dal mercato finanziario, attraverso un gigantesco indebitamento: una «leva finanziaria».
Le attività finanziarie mondiali (i titoli) superavano largamente, alla fine del secolo, la produzione mondiale reale. L’indebitamento dei privati, come quello degli Stati, si rinnovava sistematicamente. Il capitalismo era diventato, secondo la definizione di un economista (M. Bloch) il regime nel quale i debiti non si rimborsano mai. Come le onde del mare, quelle del debito si accavallano le une sulle altre. Emerge però, prima o poi, la riva. E allora, come dice J.K. Galbraith, «gli sciocchi sono separati dal loro denaro». Ma anche i lavoratori dal loro lavoro. È il momento della nuova grande crisi finanziaria, che ha colto a rovescio il sistema capitalistico.
Il terzo aspetto critico del capitalismo del nostro tempo non è un evento, ma un processo emergente in modo sempre più minaccioso: quello della sostenibilità ecologica. Un ritmo di crescita della produzione materiale a interessi composti (2,5% all’anno negli ultimi trent’anni nella media mondiale) non può non incontrare molto presto limiti di sostenibilità, sia della produzione sia, soprattutto, dell’inquinamento delle emissioni.
Per la prima volta nella sua storia si pone all’umanità il problema della sua compatibilità fisica con le risorse del pianeta. È un problema che si evoca, di solito, solo per scongiurarlo.
È dubbio che possa essere affrontato e risolto nell’ambito della storia del capitalismo. È possibile che esso apra una storia che lo trascenderà, sia per quanto riguarda le condizioni materiali, orientate all’equilibrio piuttosto che alla crescita, sia quelle spirituali, orientate allo sviluppo dell’essere piuttosto che a quello dell’avere.
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