cervello, evoluzione del
Anche il cervello, come ogni altro organo, è sottoposto alla pressione evolutiva secondo le leggi darwiniane. Lo studio dell’evoluzione del cervello nelle diverse specie, e in partic. quello del cervello umano, ha assunto, negli ultimi decenni, una sempre maggiore importanza anche per lo sviluppo delle neuroscienze, poiché permette di comprendere in che misura le funzioni cognitive sono conservate lungo la scala filogenetica e qual è la relazione tra forma, struttura e funzione nel cervello umano. Prove dell’esistenza di fenomeni evolutivi a carico del cervello sono state ottenute grazie a un lavoro interdisciplinare che ha coinvolto biologia, paleontologia, etologia, biologia comportamentale, psicologia cognitiva, biologia molecolare e genetica. La paleoneurologia studia gli endocasti di cervelli fossilizzati dei vertebrati estinti al fine di analizzare le caratteristiche morfologiche e temporali dell’evoluzione del cervello. Lo studio dell’anatomia comparativa fornisce invece conferme circa i percorsi e gli esiti di tale evoluzione, grazie a una descrizione neuroanatomica dettagliata delle strutture e delle funzioni, confermando o smentendo le ipotesi circa l’adattamento funzionale dell’organo alle modificazioni ambientali. La genetica cerca di individuare i geni chiave nello sviluppo delle capacità cognitive, mentre grazie alle neuroscienze cognitive, che utilizzano modelli mutati anche dalla fisica e dalla matematica, si sta sviluppando lo studio della connettività neuronale come determinante dell’evoluzione del cervello umano. [➔ apprendimento; connessionismo; corteccia cerebrale; ippocampo; linguaggio; memoria]
Per lungo tempo le capacità cognitive umane sono state attribuite alla dimensione dell’encefalo: in realtà vi sono animali con cervelli molto più grandi di quello dell’uomo (per es., le balene.) ma non per questo più intelligenti. Esiste un rapporto costante, nei mammiferi, tra peso corporeo e dimensioni del cervello, ed è vero che l’uomo se ne discosta: ha un organo due volte e mezzo più grande del previsto. Ma la dimensione non è tutto, altrimenti dovremmo avere altri esempi di intelligenza superiore tra gli esseri viventi. Uno studio recente di Suzana Herculano-Houzel (2009) ha analizzato le caratteristiche del cervello umano alla luce dell’evoluzione delle differenti specie animali, e in partic. dei mammiferi, ponendo l’accento sugli aspetti quantitativi. Il cervello umano è spesso considerato un’eccezione tra i cervelli dei mammiferi: più dotato dal punto di vista cognitivo, più grande di quanto ci si potrebbe aspettare, avvolto in una corteccia cerebrale ipersviluppata che rappresenta l’80% della massa cerebrale e che contiene circa 100 miliardi di neuroni e dieci volte tanto cellule gliali. Lo studio di Herculano-Houzel, che ha impiegato un sistema innovativo di analisi della composizione cellulare del cervello dell’uomo, di altri primati ma anche di roditori e insettivori, dimostra che, poiché non esiste un rapporto costante tra massa cerebrale e numero di neuroni, non vi è, in effetti, alcuna relazione tra la dimensione e le potenzialità funzionali. Questo studio mostra anche che la composizione cellulare del cervello umano non è eccezionale, ma è condivisa con gli altri primati. Inoltre la corteccia cerebrale umana, pur essendo effettivamente più sviluppata che nelle altre specie, contiene solo il 19% di tutti i neuroni cerebrali, una percentuale del tutto analoga a quella di altri mammiferi. Malgrado ciò, il cervello umano gode di due vantaggi rispetto a quello degli altri mammiferi: rispetto ai roditori, alle balene e agli elefanti è costruito secondo regole scalari estremamente efficienti dal punto di vista dell’economia del sistema e dello spazio occupato, così come accade, peraltro, anche ad altri primati. Tra tutti i cervelli costruiti sulla base di queste regole di economia di scala è, però, quello con il maggior numero assoluto di neuroni. Sarebbe quindi questo un parametro quantitativo determinante per spiegare lo sviluppo e l’unicità delle caratteristiche cognitive umane.
Gli unici reperti disponibili in grado di gettare luce sull’evoluzione funzionale del cervello umano sono stati per lungo tempo gli endocasti, sorta di stampi dei cervelli delle specie umanoidi più antiche dovuti alla lenta fossilizzazione della materia cerebrale: un evento piuttosto raro, che ha reso tali reperti ancor più preziosi. Gli stessi fenomeni di fossilizzazione, quando non hanno consentito la conservazione degli endocasti, hanno comunque impresso sulla superficie interna dei crani il disegno delle circonvoluzioni (secondo quanto studiato da Georg F. Striedter nel 2005). Grazie a questi materiali, i paleoneurologi hanno potuto seguire i cambiamenti occorsi nelle diverse specie di primati e di umani lungo i millenni, ma soltanto dal punto di vista morfologico. Non è però su questo piano che si gioca la specificità umana, bensì su quello prettamente funzionale, difficilmente deducibile, se non in modo assolutamente grossolano, dalla forma dell’organo. Gli uomini sono un tipo particolare di primate, che condivide con lo scimpanzé il 98% circa del DNA. Gli studi di genetica e quelli sui fossili dimostrano l’esistenza di un antenato comune all’incirca 10÷7 milioni di anni fa. Il primo bipede, l’australopiteco, compare invece 6 milioni di anni fa: non è più grande dello scimpanzé né ha un cervello più sviluppato. Il bipedalismo gli consente però di sfuggire più facilmente ai predatori. Il primo fossile completo di Australopitecus afarensis è stato scoperto in Etiopia nel 1972, ha circa 3,2 milioni di anni ed è noto con il nome di Lucy: apparteneva a una femmina alta 110 cm, con lunghe braccia e dita ricurve che le servivano per arrampicarsi Gli australopitechi sono probabilmente gli antenati diretti di Homo, il genere al quale anche la specie Homo sapiens appartiene, ma potrebbero anche aver dato origine a Paranthropus, un ominide vegetariano, comparso circa 2,7 milioni di anni fa in Africa, che ha convissuto con H. habilis, il primo ominide che si cibava di grandi quantità di carne, per procurarsi la quale aveva bisogno di sviluppare particolari capacità cognitive con un incremento della massa del cervello. Paranthropus, malgrado possedesse una discreta massa cerebrale, non poté competere con le capacità di H. habilis, prima fra tutte quella di costruire rudimentali strumenti di selce; per questo si estinse circa 1,2 milioni di anni fa. Secondo altri esperti, invece, è la capacità di cooperare per cacciare e per sfuggire ai predatori a fornire a H. habilis maggiori capacità di sopravvivenza. Circa 2 milioni di anni fa compare, sempre in Africa, H. ergaster, anch’esso capace di creare manufatti. È il primo ominide con la maggior parte del corpo priva di peli. Il ragazzo Turkana, rinvenuto in Kenya, è un fossile famoso di H. ergaster: le proporzioni del cranio e del corpo sono simili a quelle dell’uomo moderno, così come il bacino stretto. Ciò significa che le donne di questa specie hanno bisogno di assistenza per partorire, quindi di una qualche forma di cooperazione sociale. H. ergaster è stato probabilmente il primo ominide a lasciare l’Africa. Poco dopo comparve anche H. erectus, che dall’Africa raggiunse l’Asia. Esemplari di H. erectus si trovano fino a circa 270.000 anni fa ed è probabile che questa specie, con un cervello del volume di ~1.000 cm3, abbia interagito con gli umani moderni, imparando a usare il fuoco. Due biologi dell’Università di Washington, David Schwartzman e George Middendorf, riconducono all’inizio di una glaciazione l’espansione del volume del cervello dei nostri antenati da 600 a ~1.000 cm3. Il cervello moderno è un gran consumatore di energia e utilizza da solo circa la metà del metabolismo basale: ciò renderebbe impossibile la dispersione del calore nei climi caldo-umidi tipici dei tempi più remoti. Schwartzman e Middendorf nel 2000 hanno calcolato quanto tempo era necessario al cervello relativamente piccolo di H. habilis per raffreddarsi e quale diminuzione della temperatura ambientale è stata necessaria a permettere il raffreddamento del cervello di H. erectus, pari a ~1,5 °C. Una diminuzione nella temperatura media della Terra di questa dimensione è avvenuta più o meno in concomitanza con l’accrescimento del cervello umano. Nel 2004 sono stati individuati, in Indonesia, gli scheletri fossili di H. floresiensis: dotato di un cervello simile a quello moderno ha invece un corpo di dimensioni inferiori. Le ragioni della sua estinzione non sono chiare. I primi fossili di ominidi europei hanno ~325.000 anni e appartengono per lo più a H. heidelbergensis. Secondo la maggior parte degli esperti si tratta di un’evoluzione degli ominidi provenienti dall’Africa, mentre in Europa si sviluppa la specie dei Neanderthalensis, che permane fino a 28.000 anni fa. Il cervello dei Neanderthalensis è leggermente più grande di quello dell’uomo moderno. Non è chiaro se abbiano sviluppato una qualche forma di linguaggio, ma avevano capacità manuali avanzate e una cultura sviluppata, come dimostrano le tracce di cerimonie legate alla sepoltura dei morti. Non è chiaro nemmeno se siano stati in grado di incrociarsi con gli uomini moderni o se invece l’arrivo di altre specie portò alla loro scomparsa. I primi uomini moderni, dal punto di vista anatomico, risalgono probabilmente a 200.000 anni fa, dotati di un cervello che raggiunse il volume attuale (circa 1.350 cm3). Circa 50.000 anni fa accadde qualcosa che accelerò il loro processo evolutivo: è in quel periodo che prendono piede alcune innovazioni come la pittura, l’uso di pelli per confezionare vesti e la creazione di oggetti ornamentali. Questi cambiamenti sono stati attribuiti a modificazioni cerebrali sia strutturali sia funzionali nelle modalità di trasmissione nervosa.
Malgrado i suoi limiti, la neuroanatomia ha dimostrato che i processi mentali nella specie umana si basano fondamentalmente su una struttura, la corteccia cerebrale, e in misura preponderante sulla sua porzione chiamata neocorteccia, condivisa con tutti i mammiferi, e solo con loro. Due fenomeni, in partic., hanno consentito la comparsa dei cervelli più evoluti: la laminazione della corteccia cerebrale e la formazione e la specializzazione dell’ippocampo, una struttura che ha un ruolo fondamentale nei processi di apprendimento e memoria. Nei mammiferi, durante il processo di differenziazione rispetto agli altri vertebrati, la corteccia si evolve in un’organizzazione a più strati: tra due strati di cellule piramidali, che hanno il ruolo di collegarsi con strutture anche distanti, si inserisce uno strato di cellule dette granulari, con un’influenza prettamente locale. Gli strati sono sei (distinti da diversa densità cellulare) e sono pressoché uguali in qualsiasi area della corteccia. Ciò significa che questa organizzazione anatomica è funzionale alla comparsa di capacità molto diverse tra loro come il riconoscimento visivo e l’elaborazione del linguaggio. Anche lo sviluppo dell’ippocampo, la struttura fondamentale per la memoria e l’apprendimento, ha favorito la specie H. sapiens rispetto alle altre, pur essendo presente anche negli altri mammiferi, e soprattutto negli altri ominidi. È probabile che nelle altre specie non consentisse la conservazione delle informazioni per un tempo prolungato, ossia la creazione della cosiddetta memoria a lungo termine, che è alla base dei processi di apprendimento. L’ippocampo moderno, con la sua capacità di archiviare una gran massa di informazioni, si è formato grazie a una o più varianti tra i geni che codificano il suo sviluppo strutturale, varianti che sono state selezionate per gli indubbi vantaggi che comportano. Una delle teorie più accreditate volte a spiegare la scomparsa dell’uomo di Neandertal e il consolidarsi della presenza di H. sapiens afferma che la prima causa sarebbe proprio la diversa capacità di memorizzare non solo eventi, ma anche tecniche e conoscenze: potendo contare su minori capacità di apprendimento, i Neanderthalensis sono stati soppiantati. Per dimostrarlo sono in corso diverse ricerche genetiche. H. sapiens condivide il 98% circa del genoma con lo scimpanzé. L’uomo di Neandertal condivideva a sua volta il 96% del restante 1% con H. sapiens e solo la rimanente parte con gli altri primati: di conseguenza è probabile che in questa piccolissima porzione di geni si trovi quello, o meglio quelli, che hanno determinato il cambiamento nella struttura e nella funzione del cervello, permettendo lo sviluppo dell’uomo moderno.
Il cervello dell’uomo moderno ha consentito lo sviluppo del linguaggio e per lungo tempo gli esperti (come Lesley J. Rogers nel 2000) hanno sostenuto che questo fosse il frutto della lateralizzazione delle funzioni cognitive propria dell’uomo e solo di esso. Recenti ricerche (2009) di Chris McManus, Mike Nicholls e Giorgio Vallortigara hanno smentito che si tratti di una peculiarità umana. La lateralità era stata attribuita allo sviluppo della manualità negli uomini ~ 2,5 milioni di anni fa e il linguaggio era visto come una sorta di estensione della capacità di controllo dei movimenti fini. Tuttavia, gli studi di etologia hanno dimostrato che anche altri animali sono lateralizzati. E infatti è probabile che, in origine, in tutti i vertebrati l’emisfero sinistro si occupasse di elaborare stimoli noti e familiari mentre il destro, sede delle emozioni, si occupasse degli stimoli inaspettati. Con il tempo, sostiene oggi la maggior parte degli esperti, i primati, costretti a eseguire compiti sempre più difficili a causa delle mutate condizioni ambientali, hanno rafforzato gradualmente la loro lateralità manuale anche al fine di nutrirsi, portando, tra l’altro, a una predominanza della mano destra, controllata dall’emisfero sinistro. Anche la vocalizzazione, cioè l’emissione di suoni con significato, era gestita dall’emisfero sinistro ed è probabile che sia stata l’embrione dal quale è nato il linguaggio.
Il cervello umano non è il risultato evolutivo di un semplice aumento della massa o di cambiamenti di struttura, ma piuttosto di un particolare sviluppo della connettività tra le cellule nervose. Alcuni scienziati, come per es., il gruppo coordinato da Eleonora Russo, ritengono (2008) che la comparsa dell’intelligenza nell’uomo vada interpretata come una transizione di fase, un concetto mutato dalla fisica: significa che un certo sistema può avere comportamenti molto diversi al variare di un semplice parametro. A un certo punto lungo la scala evolutiva, le dimensioni del cervello umano e la sua struttura hanno consentito di variare la connettività tra le cellule, ossia la quantità di sinapsi che ogni neurone è in grado di generare in risposta a uno stimolo ambientale. In sostanza il ‘sistema cervello’ ha raggiunto una massa critica che ha permesso la comparsa del pensiero astratto, del linguaggio e di altre competenze tipicamente umane. Una spiegazione che sembra concordare con l’ipotesi, più prettamente antropologica, messa a punto da Robin Dunbar, secondo il quale l’intelligenza è un prodotto della vita sociale in grandi gruppi. Per vivere in società è stato necessario sviluppare capacità superiori, quali la comprensione delle intenzioni e delle emozioni dell’altro. Un processo tutt’altro che rapido, dal punto di vista evolutivo, e che conseguentemente spiegherebbe il lungo vuoto temporale tra la comparsa dell’uomo sulla Terra e la nascita della cultura umana (che raggiunge la sua piena espressione solo 10.000 anni fa): questo intervallo esprime il tempo impiegato dal ‘cervello-base’ per acquisire le modifiche necessarie, a livello cellulare, degli strati della neocorteccia e delle connessioni sinaptiche.
Qualsiasi mutamento funzionale è legato a un cambiamento strutturale del cervello che, a sua volta, dipende dalla comparsa di mutazioni nei geni che codificano, a livello embrionale, lo sviluppo cerebrale. Al momento (2010) non vi sono certezze su quali possano essere i geni responsabili delle attuali capacità computazionali del cervello umano, anche se vi sono alcuni indizi. Due geni associati a malattie congenite con microcefalia (ossia, che nella forma mutata inducono la comparsa di un cervello più piccolo del normale) potrebbero essere alla base dell’accrescimento dell’organo e del superamento della soglia critica: la loro comparsa nel materiale genetico degli ominidi corrisponde al periodo dello sviluppo dell’agricoltura e dei primi reperti di linguaggio scritto. Anche il gene GLUD2, che consente la sintesi di un enzima in grado di riciclare un importante neuromodulatore, il glutammato, potrebbe aver favorito una maggiore attività dei neuroni. Si tratta però di supposizioni, perché in realtà non è possibile affermare che esiste un solo gene dominante nel processo di evoluzione del cervello moderno. Anzi, l’ipotesi più accreditata è quella di molte mutazioni su molti geni. Uno studio del 2004 che ha fatto discutere, di Steve Dorus e collaboratori, sostiene che i geni che controllano lo sviluppo del cervello hanno subito, nell’uomo, un’evoluzione molto più rapida che in tutte le altre specie, compresi i primati, perché la selezione nei confronti dell’intelligenza è molto più forte che nei confronti di altre caratteristiche biologiche. Solo i geni collegati allo sviluppo strutturale e alla creazione di connessioni tra le cellule subiscono questa pressione, mentre quelli che si limitano a mantenere attivo il cervello non sono coinvolti. Una selezione che è ancora in corso, e che punterebbe alla comparsa di cervelli migliori: la spinta ambientale, nel mondo moderno, non proviene solo dai determinanti biologici ma anche da quelli sociali e culturali. Il cervello del futuro, quindi, non avrà bisogno di una massa enorme ma di una maggiore complessità a livello delle connessioni tra le cellule, per velocizzare e perfezionare le modalità di processamento dei dati, un po’ come accade nello sviluppo della tecnologia legata ai computer e all’intelligenza artificiale. Daniela Ovadia