Evoluzione
Il significato generale del termine evoluzione è svolgimento, sviluppo, movimento ordinato a un fine. Con l'espressione 'evoluzione biologica' si intende il processo per il quale tutte le forme viventi - e solo queste - cambiano di generazione in generazione per adattarsi all'ambiente in continua trasformazione: questo processo porta all'evoluzione delle forme viventi. Evoluzione biologica non sta a indicare quindi un semplice cambiamento, bensì un cambiamento adattivo, ben diverso da altri processi naturali, per i quali si usa parimenti la parola evoluzione, per es. i cambiamenti che sono avvenuti, e avvengono tuttora, nell'universo e nella crosta terrestre.
1.
L'idea che le specie viventi mutino nel tempo è relativamente recente. Il famoso aforisma di Linneo, il fondatore della moderna sistematica, "species tot numeramus, quot ab initio numeravit Infinitum Ens" mostra come ancora nel Settecento si sostenesse nella maniera più categorica la fissità delle specie viventi: fissità che si rifaceva alla lettera del dettato biblico, secondo cui il Creatore al quinto e sesto giorno della creazione aveva generato tutte le specie viventi, animali e vegetali. Teorie evolutive furono accennate, sempre nel 18° secolo, da due naturalisti francesi, P.-L. Moreau de Maupertuis, che pubblicò le sue riflessioni in forma anonima, e il famoso naturalista G.-L. Leclerc de Buffon, il quale fu tuttavia costretto a ritrattare le sue idee quando furono criticate dalla facoltà di Teologia della Sorbonne di Parigi. Vi sono quindi pochi dubbi che l'affermarsi di idee evolutive, l'idea cioè che gli esseri viventi sono in continuo cambiamento, venne fortemente ostacolata dal potere della Chiesa, che non riteneva ammissibile il discostarsi dall'interpretazione letterale della Bibbia, sebbene Agostino di Ippona, tra il 4° e il 5° secolo, avesse riferito l'atto creativo non a forme adulte ma a germi, rationes seminales, immessi nella natura dal Creatore.
Teorie organiche dell'evoluzione furono formulate soltanto a partirte dagli inizi del 19° secolo da J.-B. de Lamarck in Francia e, quasi contemporaneamente in Inghilterra, da Erasmus Darwin, nonno del ben più famoso Charles, e dominarono il campo della biologia dopo l'uscita, nel 1859, dell'Origine delle specie di Ch. Darwin.
a) La visione lamarckiana dell'evoluzione. La teoria evolutiva di Lamarck sostiene che l'organismo è continuamente modificato in maniera adattiva dall'ambiente in cui vive e che i cambiamenti a lungo andare diventano ereditabili: ciò provocherebbe nell'organismo, con il passare delle generazioni, cambiamenti profondi e il sorgere di nuove specie. I cambiamenti fisiologici provocati dall'uso e dal disuso degli organi vengono ereditati in tempi molto lunghi: la teoria prevede quindi l'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Lamarck si spinge ancora oltre e sostiene che la necessità, quindi l'utilità, per un organismo di possedere un nuovo organo conferisce a esso la capacità di formarlo. Poche frasi tratte dalla Philosophie zoologique (1809) illustrano questi concetti: "il disuso di un organo, divenuto costante a seguito di abitudini acquisite, impoverisce a poco a poco l'organo in questione, finisce col farlo sparire e lo annienta persino [...]. L'impiego reiterato di un organo, divenuto costante a causa delle abitudini, aumenta le facoltà di questo organo, lo fa sviluppare e gli fa acquistare dimensioni ed efficienza che non hanno riscontro presso gli animali che lo esercitano di meno [...]. In effetti la causa che fa sviluppare un organo frequentemente e costantemente adoperato [...] ha anche necessariamente il potere di far nascere a poco a poco e cogli stessi mezzi un organo che non esisteva ma che era divenuto necessario". Rinviando la discussione sulla sua attendibilità scientifica, bisogna riconoscere che, a parte l'affermazione sulla formazione di nuovi organi quando ne esiste la necessità, la teoria lamarckiana, elaborata in tempi in cui le basi dell'eredità erano del tutto ignote, rappresenta una costruzione straordinariamente logica. Soltanto di recente si sono potute fornire prove inconfutabili che la teoria di Lamarck, così come fu formulata, non è sostenibile.
b) La teoria darwiniana. La teoria darwiniana si fonda su presupposti radicalmente diversi da quelli su cui si basa la teoria lamarckiana. Prima di esporne le basi concettuali, è tuttavia opportuno precisare che una teoria evoluzionistica fondata su principi analoghi era stata formulata dal nonno di Darwin, Erasmus, nella Zoonomia (1794-96), anche se naturalmente le sue ipotesi traevano origine da osservazioni molto più deboli di quelle che resero famoso il nipote. È anche doveroso ricordare che una teoria identica a quella di Darwin fu formulata dal naturalista inglese A.R. Wallace, mentre Darwin stava ancora elaborando la prima stesura di ciò che sarebbe diventato l'Origine delle specie. La teoria darwiniana si basa su un principio molto semplice: prendendo in considerazione tempi relativamente brevi, la consistenza demografica delle popolazioni animali e vegetali è abbastanza costante. Come aveva notato R. Malthus, che influenzò fortemente il pensiero di Darwin, il potenziale riproduttivo di ogni specie è talmente alto che, ove non vi fosse un'altissima mortalità, il numero degli individui andrebbe continuamente e rapidamente crescendo; questo non avviene in quanto lo spazio e le risorse a disposizione sono limitate. Un'altra osservazione fondamentale è che in tutte le popolazioni esiste una notevolissima variabilità. L'idea che ha portato alla formulazione della teoria della selezione naturale è che la morte degli individui che nascono in eccesso (la stragrande maggioranza dei nati di ogni specie) non avvenga a caso, ma che in ogni momento sopravvivano quelli più adatti alle condizioni date. Poiché le condizioni in ogni nicchia ecologica non sono costanti, se si ammette che la variabilità della popolazione abbia una base ereditaria, questo processo porterà gradualmente a mutare le caratteristiche della specie e, a lungo andare, a formarne di nuove. L'uscita, come già detto, nel 1859 dell'Origine delle specie fu un evento clamoroso sotto molti punti di vista: nonostante il libro fosse tutt'altro che di facile lettura, la prima edizione (1250 copie) andò esaurita in un solo giorno. Alla sua pubblicazione seguirono innumerevoli dibattiti, talora anche estremamente accesi: alcuni vertevano sulle implicazioni morali e religiose della teoria evolutiva (ricordiamo, per inciso, che la Chiesa ha accettato solo verso la metà del 20° secolo la realtà dell'evoluzione) e altri sugli aspetti propriamente scientifici della dottrina. Prima di addentrarci nella discussione della teoria darwiniana, occorre fare però una precisazione: l'idea che le attuali forme viventi si siano formate da altre più semplici attraverso un processo evolutivo non implica necessariamente l'accettazione di una determinata teoria che stabilisca il meccanismo con cui l'evoluzione si è attuata: le prove dell'esistenza dell'evoluzione organica non dipendono dalle teorie che sono state avanzate per spiegare l'evoluzione stessa.
c) Critiche e punti deboli delle teorie evolutive. Delle due teorie evolutive, la lamarckiana e la darwiniana, la seconda è quella che ha prevalso ed è attualmente accettata dalla maggioranza degli scienziati. Molti studiosi, tuttavia, pur accogliendo la realtà dell'evoluzione non hanno mai voluto accettare la teoria darwiniana, primo fra tutti il biologo E. Haeckel. Grande ammiratore al tempo stesso di Darwin e di Lamarck, Haeckel attribuiva alla natura la capacità creativa che Linneo aveva attribuito a Dio: l'evoluzione per selezione naturale gli sembrava inadeguata. Dalla teoria dell'evoluzione è nato, con Haeckel, l'evoluzionismo: la teoria secondo la quale la vita e le specie viventi sono state prodotte da cause interne alla natura, attraverso un processo, appunto, di progressiva evoluzione.
Il lamarckismo è stato generalmente rifiutato data l'impossibilità di dimostrare sperimentalmente l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, ma tale critica non appare molto fondata, perché i tempi di fissazione delle variazioni acquisite possono essere di gran lunga maggiori dei tempi disponibili per la sperimentazione. Molto più grave è il fatto che la teoria non spieghi la comparsa di nuovi caratteri, non essendo possibile ovviamente accettare l'affermazione di Lamarck per cui la necessità di un organo crea le condizioni per la sua formazione. Sappiamo adesso che la teoria, nella sua formulazione originale, non è accettabile, ma la dimostrazione è, come si è accennato, relativamente recente e risale alla seconda metà del 20° secolo: l'ereditarietà dei caratteri acquisiti necessita il passaggio dell'informazione genetica dal soma, che è modificato dall'ambiente, al gene, che è il determinante ereditario dalla cui struttura dipende quella del soma; una modificazione somatica non è trasmissibile al gene e quindi il carattere acquisito non può essere ereditabile.
Anche la teoria darwiniana aveva numerosi punti deboli che furono messi in evidenza nelle accese discussioni che seguirono, come accennato sopra, la comparsa dell'Origine delle specie. Della prima e maggiore difficoltà era ben conscio lo stesso Darwin: è vero che ogni popolazione animale o vegetale è altamente variabile, ma certamente l'evoluzione non può avvenire se non esiste negli organismi una fonte continua di variabilità, la cui origine era sconosciuta ai tempi di Darwin. Le ricerche successive al 1900, con la riscoperta delle leggi di Mendel e la nascita della genetica come scienza, hanno risolto questo problema. La causa della variazione che permette l'evoluzione degli organismi è rappresentata dalla mutazione o meglio da vari tipi di mutazione, intendendo per mutazione una variazione improvvisa del gene, o comunque del materiale ereditario, che avviene spontaneamente per cause diverse. La rielaborazione della teoria darwiniana sulla base delle nuove acquisizioni della genetica, operata nei primi decenni del 20° secolo, prende il nome di teoria neodarwiniana dell'evoluzione, o teoria sintetica dell'evoluzione. Il secondo problema non è stato mai risolto: se, come sostengono la teoria darwiniana e anche quella neodarwiniana, il processo evolutivo utilizza la selezione naturale, la quale in ogni momento favorisce la sopravvivenza del più adatto, è difficile capire come si siano formati gradualmente gli organi e le funzioni complesse.
Prendendo in considerazione un organo, quale l'ala degli Uccelli, o una funzione estremamente complessa, quale può essere una qualsiasi catena metabolica o il sistema immunitario dei Vertebrati, è chiaro che l'organo o la funzione sono utili quando sono completi, o meglio sono inutili, o anche dannosi, allo stadio di abbozzi non funzionali. La formazione per selezione graduale di funzioni complesse (utili solo se perfette) è apparentemente impossibile o almeno di difficile comprensione. La formazione improvvisa di tali funzioni è anche impossibile in quanto necessita la comparsa contemporanea di numerosissime mutazioni, fenomeno, questo, che rappresenta un evento altamente improbabile.
A queste difficoltà concettuali, notevoli ai tempi di Darwin quando le basi dell'ereditarietà erano ignote e ancor più grandi adesso che sono note, si aggiunge il fatto che la teoria darwiniana dell'evoluzione prevede che i fossili forniscano una serie ragionevolmente continua e graduale dell'evolversi della vita: in realtà la serie dei fossili è tutt'altro che continua. Mentre ai tempi di Darwin era facile pensare che le serie fossero lacunose semplicemente per la difficoltà di reperire i fossili, adesso è molto più difficile sostenere questa semplice spiegazione: o l'evoluzione non è stata continua o alcune forme sono durate così poco e sono state così poco numerose che non riusciamo a reperirne i fossili. Nell'uno e nell'altro caso ci troviamo davanti a un problema inspiegabile. Nell'insieme, tutti questi argomenti portano a una confessione di ignoranza: la teoria neodarwiniana dell'evoluzione è probabilmente vera, ma non è completa, mancando qualcosa di fondamentale che ancora oggi sfugge.
2.
Il fatto che le teorie attualmente esistenti non riescano a spiegare in maniera compiuta il processo evolutivo non significa che l'evoluzione non debba essere considerata come la base fondamentale della biologia: esistono prove conclusive che il processo evolutivo sia realmente avvenuto, anche se permangono dei dubbi su come questo si sia verificato. Nell'illustrare le prove fondamentali del fatto che tutti gli organismi derivano evolutivamente da altri, è opportuno precisare che la parola 'prova' riveste qui un significato diverso da quello comunemente attribuitole nelle scienze sperimentali, dove è considerato 'provato' un esperimento ripetibile. L'evoluzione invece non si può ripetere, e con il termine prova si intende che esistono evidenze tali che non possono essere spiegate in altro modo. D'altra parte, bisogna ricordare che la definizione in uso nelle scienze sperimentali non viene utilizzata in altri campi del sapere, per es. nella storia, dove si considera provato che siano avvenute sia la Prima sia la Seconda guerra mondiale anche se, per fortuna, non le possiamo ripetere.
a) Prove basate sui reperti fossili. Anche se incomplete, le serie fossili non sono spiegabili se non accettando l'insieme di un processo evolutivo. I fossili più antichi che sono stati trovati finora sono residui di organismi microscopici, simili agli odierni batteri, reperiti in rocce che risalgono a 3,5 miliardi di anni fa. Fossili simili agli attuali cianobatteri, presumibilmente fotosintetici, compaiono in rocce di circa 2 miliardi di anni, mentre cellule con strutture simili a quelle degli eucarioti risalgono a circa 1,7 miliardi di anni fa. In un periodo molto più recente, e cioè nel Cambriano (570 milioni di anni fa), si assiste a un'incredibile diversificazione degli esseri viventi: quasi all'improvviso compaiono i rappresentanti di tutti i principali gruppi animali attualmente esistenti. Ancora oggi non esiste una spiegazione convincente di come nel giro di pochi milioni di anni (un tempo evolutivamente brevissimo) vi sia stata una simile esplosione delle forme viventi. Nelle ere successive si trovano evidenze delle prime forme di vita terrestre, sia vegetale sia animale, fino a che in tempi evolutivamente recentissimi, circa un milione di anni fa, si assiste alla comparsa dei primi uomini. Questo brevissimo excursus illustra come il problema dei fossili sia spiegabile solo ammettendo un processo evolutivo che porti nel tempo da organismi semplici a esseri sempre più complessi. È importante notare che moltissimi degli organismi che troviamo allo stato fossile sono estinti perché gradualmente sostituiti da altri, più adatti all'ambiente in continuo cambiamento.
b) Prove fornite dalla biochimica e dalla biologia molecolare. L'analisi dei costituenti biochimici e delle vie metaboliche degli organismi, dai batteri all'uomo, mettono in evidenza alcune caratteristiche fondamentali della vita. Tutti gli organismi hanno come mattoni fondamentali due macromolecole, le proteine e gli acidi nucleici, la cui struttura fondamentale è identica in tutti gli esseri viventi. Le proteine sono sempre composte dagli stessi 20 aminoacidi (il numero possibile di questi è molto superiore) in forma L (la forma L e la forma D sono funzionalmente identiche). Anche gli acidi nucleici, nei quali risiedono i determinanti ereditari, hanno la stessa identica struttura in tutti gli esseri viventi, così come è identico (salvo trascurabili eccezioni) il codice genetico, cioè l'insieme delle regole con cui l'informazione contenuta negli acidi nucleici viene utilizzata per costruire le proteine. Ciò si spiega solo ammettendo che tutti gli organismi derivino da un organismo primordiale che già possedeva le caratteristiche fondamentali di quelli attuali. Inoltre, prendendo in esame le vie metaboliche, vale a dire quelle serie di reazioni biochimiche con cui gli organismi costruiscono i propri componenti e utilizzano i substrati, è possibile osservare che esse sono quasi identiche in tutti gli esseri viventi, osservazione che avvalora ulteriormente le conclusioni precedentemente esposte.
c) Prove derivate dall'anatomia comparata, dalla fisiologia e dall'embriologia. L'esame comparato degli organismi indica chiaramente che esistono fra di essi notevoli somiglianze e che possono essere ordinati sulla base della loro struttura, secondo una serie in cui la complessità aumenta progressivamente. Gli animali pluricellulari più semplici sono le Spugne e i Celenterati, il cui corpo è formato da due soli foglietti cellulari (l'ectoderma e l'entoderma) e presentano una sola apertura che è insieme anale e buccale. Seguono i Platelminti, o vermi piatti, nei quali compare il terzo foglietto cellulare (il mesoderma) e poi i Nematelminti, o vermi tondi, nei quali compaiono una seconda apertura, quella buccale, organi complessi, che più o meno modificati troveremo in tutti gli animali, e un accenno di formazione del celoma, ovvero la cavità che separa l'intestino dal tegumento. Il celoma si perfeziona negli Anellidi dove la cavità risulta circondata completamente di una sua propria membrana.
Esaminando un gruppo di animali più ristretto, per es. i Mammiferi placentati, si può osservare che tutti, pur così differenti tra di loro come una giraffa da un topo o un pipistrello da una foca, sono costituiti esattamente dai medesimi organi, i quali hanno la stessa struttura fondamentale: gli animali sono diversi fra loro solo perché lo sviluppo di ogni singolo organo è differente nei diversi animali. Per fare qualche esempio, il numero di vertebre cervicali del topo e della giraffa è identico, anche se ovviamente la loro lunghezza è differente, così come la struttura e il funzionamento del cuore e dei reni sono anch'essi identici. Prendendo in considerazione un gruppo più vasto quale quello dei Vertebrati, che comprende i Pesci (cartilaginei e ossei), gli Anfibi, i Rettili, gli Uccelli e i Mammiferi, è possibile in alcuni casi vedere come molti organi che compaiono nel gruppo più primitivo (quello dei Pesci cartilaginei, che sono comparsi per primi nella storia evolutiva, come si desume dallo studio dei fossili) si conservano, seppure adattati alle nuove situazioni, nei gruppi più recenti. Un caso tipico è rappresentato dal sistema circolatorio, e in particolare dal cuore, che presenta nei Pesci un singolo atrio e un singolo ventricolo, due atri e un solo ventricolo negli Anfibi, due atri e due ventricoli non completamente separati nei Rettili, due atri e due ventricoli completamente divisi nei Mammiferi e negli Uccelli. Questi cambiamenti progressivi sono correlati a esigenze funzionali del sistema circolatorio; in ogni caso, la condizione più semplice è quella presente nell'organismo che è comparso per primo sulla scena dell'evoluzione. Considerazioni analoghe possono essere fatte per il rene, l'encefalo e altri organi. Tutte queste osservazioni sono interpretabili nella maniera più logica supponendo la formazione di piani strutturali che sono andati lentamente evolvendo, a seconda delle specifiche necessità dei diversi organismi: per es., il sistema circolatorio è drasticamente cambiato nei Vertebrati con il passaggio dalla vita acquatica a quella terrestre.
Queste conclusioni sono ulteriormente avvalorate dallo studio dell'embriologia. Haeckel per primo ha notato che gli organismi sono fra loro molto più simili nella vita embrionale di quanto non lo siano nella vita adulta. Inoltre, nel corso della vita embrionale si formano, spesso senza mai divenire funzionali, organi che sono presenti e funzionali in organismi più primitivi. Queste osservazioni sono state da Haeckel stesso sintetizzate nell'aforisma "l'ontogenesi ricapitola la filogenesi". Gli esempi più famosi della legge di Haeckel sono rappresentati dalla comparsa nell'embrione di tutti i Vertebrati terrestri di fessure branchiali non funzionali (vestigia delle branchie), e da quella di un pronefro e di un mesonefro non funzionali (organi escretori), presenti nello stadio adulto dei Vertebrati primitivi e sostituiti nei Vertebrati superiori dal metanefro. Ma anche considerando nell'insieme l'intero mondo animale è impossibile non notare che la struttura della gastrula prima della formazione del mesoderma ricorda la struttura delle Spugne e dei Celenterati. Anche se la legge di Haeckel non vale sempre rigorosamente, è innegabile che lo sviluppo embrionale in parte ricapitoli i passaggi evolutivi. Non è stato ancora chiarito perché nel corso dell'evoluzione si siano spesso conservate le vestigia di strutture evolutivamente primitive, ma certamente è impossibile spiegarne l'esistenza senza ammettere che gli organismi siano derivati evolutivamente l'uno dall'altro.
3.
Poiché ogni organismo attuale è il frutto dell'evoluzione e deriva quindi da organismi che l'hanno preceduto, è evidente l'interesse di ricostruire, per quanto possibile, l'evoluzione delle specie. La ricostruzione degli alberi filogenetici può essere effettuata sulla base di diversi metodi, i quali non solo non si escludono a vicenda, ma, al contrario, forniscono dati che possono essere utilizzati globalmente.
a) Lo studio dei fossili. I reperti fossili dovrebbero in teoria registrare, anche temporalmente, la comparsa delle varie specie sulla Terra. Tuttavia, dato che, come si è detto sopra, le serie fossili sono enormemente incomplete, questo sistema non può servire altro che a delineare le grandissime linee dell'evoluzione. È tuttavia necessario notare che, anche se lo studio dei fossili permette soltanto la costruzione di serie filogenetiche approssimative, questo è l'unico sistema con cui si riesce a datare il momento nel quale si è verificato un determinato evento evolutivo. Inoltre, lo studio dei fossili può dare informazioni importantissime su serie limitate di organismi, specialmente se coprono periodi di tempo non troppo lontani, e si rivela essenziale, per es., nella ricostruzione della filogenesi della nostra specie.
b) Il confronto delle sequenze aminoacidiche nelle proteine e dei nucleotidi negli acidi nucleici. Alcune proteine (lo stesso discorso vale per gli acidi nucleici e non sarà quindi ripetuto) presentano struttura simile e identica funzione pur appartenendo a organismi diversissimi tra loro: per es. il citocromo C, deputato al trasporto degli elettroni nella respirazione cellulare, è presente con identica funzione in tutti gli organismi aerobi, mentre l'emoglobina, molecola responsabile del trasporto di ossigeno, è presente in tutti i Vertebrati, in alcuni Invertebrati e in alcune piante. Esaminando la sequenza aminoacidica delle emoglobine di diverse specie, vediamo che esse, pur presentando delle diversità, conservano una somiglianza tale da poter affermare con sicurezza che tutte le emoglobine derivano da uno stesso gene ancestrale che è andato diversificandosi nelle varie specie, verosimilmente in base alle diverse esigenze degli organismi. Nonostante alcune notevoli eccezioni, le emoglobine delle varie specie in media differiscono tra loro tanto più quanto più lontana è la loro derivazione dall'antenato comune. Questo aumento progressivo nelle differenze fra le sequenze aminoacidiche permette di sapere quanto due specie sono evolutivamente lontane fra loro e di tentare, usando opportuni modelli matematici, di ricostruirne la filogenesi. Poiché però esistono eccezioni alle regole anzidette (specie certamente imparentate presentano sequenze aminoacidiche molto diverse se nel corso della loro evoluzione sono state sottoposte a forte diversificazione ambientale, e viceversa presentano poche differenze se sono rimaste in ambienti molto simili), per poter costruire su basi molecolari un albero filogenetico attendibile è necessario che sia rispettato il principio per cui l'analisi deve essere eseguita su diverse proteine o su altre macromolecole e i dati, nelle linee generali, devono essere fra loro coerenti. Inoltre l'albero filogenetico non deve essere in contrasto con i dati ottenuti dalla fisiologia, dall'embriologia, dall'anatomia comparata e dalla paleontologia. Per es., un albero filogenetico dei Mammiferi basato sulla sola analisi del citocromo C sembra stabilire che il canguro (marsupiale) è più vicino al coniglio che all'uomo. La conclusione è manifestamente assurda, poiché il coniglio e l'uomo sono entrambi dei Placentati mentre il canguro non lo è. Un minimo di buon senso ci dice che i Placentati devono essere più vicini fra loro di quanto non lo siano ai Marsupiali. In realtà questo dato è sufficiente a dirci che la filogenesi basata sul solo citocromo C non è sufficiente. Prendendo in esame i dati su più proteine, si ottengono alberi in accordo anche con gli altri parametri. Comunque siano stati costruiti, gli alberi filogenetici su base molecolare non sono in grado di indicare i tempi assoluti (in anni) delle divergenze evolutive. Molti biologi hanno accettato una teoria, sviluppata soprattutto da M. Kimura (1968), secondo la quale l'evoluzione delle proteine è dovuta soprattutto alla fissazione casuale di mutazioni neutrali, prive cioè di valore selettivo. Secondo Kimura, tale fissazione procederebbe linearmente, con il tempo: la variazione nella sequenza aminoacidica fra due specie diverse potrebbe pertanto essere utilizzata come orologio molecolare e misurare in anni i tempi della divergenza dall'ultimo antenato comune. Un'analisi più accurata dei dati e, soprattutto, il fatto che dati sempre più numerosi hanno permesso analisi più attendibili hanno però dimostrato che il processo non è lineare, che le sostituzioni aminoacidiche sono in gran parte dovute a processi selettivi e che l'orologio molecolare non esiste.
c) Lo studio dell'anatomia comparata, dell'embriologia e della fisiologia. Informazioni preziose per ricostruire la filogenesi degli organismi si possono trarre dagli studi comparativi dell'anatomia, dell'embriologia e della fisiologia. L'esempio del sistema circolatorio dei Vertebrati, cui abbiamo già fatto cenno, è sufficiente per capire come attraverso questi studi si possono tracciare le vie filogenetiche. Nei Pesci il cuore presenta due sole cavità, un ventricolo, che spinge il sangue venoso povero di ossigeno alle branchie, da dove dopo essersi ossigenato attraversa i tessuti, e un atrio, che riceve il sangue ormai privo di ossigeno. Il sistema diviene più complesso negli Anfibi adulti, nei quali si osserva, in relazione alle difficoltà poste dalla respirazione aerea, lo sdoppiamento dell'atrio: una cavità atriale riceve sangue venoso, mentre l'altra riceve sangue arterioso. Tale maggiore complessità del sistema circolatorio compare solo negli Anfibi adulti, mentre le forme larvali (girini) che vivono nell'acqua hanno un sistema circolatorio uguale a quello dei Pesci. Il sistema si complica ulteriormente nei Rettili (specie in quelli più evoluti come i coccodrilli) con la divisione in due anche del ventricolo, in modo da consentire la completa divisione fra sangue venoso e sangue arterioso. Uccelli e Mammiferi hanno un sistema circolatorio sostanzialmente identico a quello dei coccodrilli. Con il progredire dell'evoluzione dei Vertebrati si assiste quindi a un progressivo aumento della complessità del sistema circolatorio, che si adegua alle mutate esigenze fisiologiche. Queste osservazioni, che possono valere anche per altri sistemi, quali il nervoso, l'escretore ecc., permettono di stabilire come si sia evoluta la linea dei Vertebrati e forniscono dati in perfetto accordo con quelli che si possono desumere dallo studio dei fossili. Si tratta ovviamente solo di un esempio, ma simili ragionamenti si possono estendere all'intero mondo dei viventi.
4.
Utilizzando i metodi di analisi che sono stati descritti sinora, sembrerebbe che il processo evolutivo sia in molti punti discontinuo. Sono tuttavia possibili molte spiegazioni per questa apparente discontinuità: per es. l'ala degli Uccelli sembra comparire all'improvviso, tuttavia è perfettamente possibile che il fatto possa essere spiegato con l'incompletezza delle serie fossili e con l'estinzione di tutte le forme intermedie. Nell'evoluzione della cellula esiste, invece, una sicura discontinuità, rappresentata dal passaggio dalla struttura cellulare tipica dei procarioti (batteri) a quella degli eucarioti (protozoi, funghi, piante e animali). I due tipi cellulari hanno al loro interno una struttura abbastanza omogenea, pur essendo diversissimi tra loro. Gli eucarioti, assai più complessi dei procarioti, sono comparsi sulla Terra molto più tardi, forse 2 miliardi di anni fa.
Due considerazioni rendono particolarmente difficile spiegare in maniera logica la comparsa evolutiva della cellula eucariotica. Innanzitutto la sua struttura, che è enormemente più complessa di quella procariotica, presenta numerosissimi apparati e organelli e numerosissime proteine di grandissima importanza funzionale (basti pensare agli istoni) del tutto assenti nei procarioti. Resta completamente irrisolto il problema di come e perché si siano formate queste strutture e queste molecole, dato che necessariamente gli eucarioti devono derivare dai procarioti che li hanno preceduti nella scala evolutiva. Inoltre, nel passaggio da procarioti a eucarioti non solo è cambiata la struttura della cellula, ma sono cambiati tutti, o quasi, i sistemi di regolamentazione cellulare, cioè i sistemi con cui la cellula si adatta alle variazioni ambientali. Anche accettando l'ipotesi che la cellula eucariotica si sia formata in seguito alla simbiosi fra varie specie batteriche, non si riesce a spiegare come né perché una tale cellula si sia formata, cioè quali vantaggi selettivi presentassero per il primitivo eucariote la formazione di strutture così complesse e il cambiamento dei sistemi di regolazione cellulare. È assolutamente evidente che la cellula eucariotica ha possibilità evolutive maggiori di quella procariotica: tutte le forme di vita pluricellulari complesse sono infatti eucariotiche. Viene quindi spontaneo pensare che la struttura e il funzionamento dell'eucariote siano necessari per le sue potenzialità evolutive. È tuttavia assurdo e ingenuamente finalistico pensare che la cellula eucariotica si sia evoluta in quanto possedeva la capacità di evolvere organismi complessi. Bisogna piuttosto cercare di capire quali caratteri hanno conferito alla primitiva cellula eucariotica un vantaggio selettivo tale da consentire il verificarsi di cambiamenti così incredibilmente complessi come quelli che attualmente vediamo. Questa domanda per il momento non ha risposta.
5.
Si ritiene che la vita sia nata circa 4 miliardi di anni fa. A questo dato si arriva considerando che i più antichi fossili identificati come tali (qualcosa di simile ai batteri attuali) sono stati trovati in rocce sedimentarie risalenti a circa 3,5 miliardi di anni fa. Dal momento che la nascita della vita è certamente precedente, in quanto i batteri sono già organismi piuttosto complessi, si indica come data approssimativa 4 miliardi di anni, cioè circa 500 milioni di anni dopo la formazione della Terra. Purtroppo non sono molte le conoscenze sulle condizioni del pianeta in quel periodo. L'atmosfera era probabilmente riducente, sicuramente non conteneva ossigeno libero, ma non c'è accordo fra gli studiosi circa la sua composizione. La temperatura era probabilmente più elevata di quella attuale, anche se non doveva superare i 100 °C. È probabile che nel periodo precedente la comparsa della vita sulla Terra si sia formata una grandissima quantità di composti organici anche complessi, come aminoacidi, basi puriniche e pirimidiniche, composti del tipo dell'eme, che costituiscono la base di ogni forma di vita attuale.
Numerosissimi esperimenti, realizzati sulla falsariga del primo compiuto da S.L. Miller nel 1973 (Miller-Orgel 1974), hanno dimostrato che fornendo a una atmosfera riducente, contenente azoto, carbonio e vapore acqueo, energia sotto una qualsiasi forma (raggi ultravioletti, scariche elettriche, luce, onde d'urto) può avvenire la sintesi abiologica di numerosissimi composti organici. Questi composti, in assenza di organismi capaci di metabolizzarli e di ossigeno in grado di ossidarli, dovevano inevitabilmente accumularsi sulla terra e nei mari. Più di questo non sappiamo; non riusciamo a concepire un organismo in cui non esista il dualismo proteina-acidi nucleici che caratterizza tutte le attuali forme di vita, né come questo complicatissimo sistema si sia formato dal nulla: non possiamo fare altro che improbabili ipotesi, senza peraltro essere in grado di provarle. Non è possibile estrapolare dati dagli organismi attuali, perché quelli più semplici, i batteri, sono esseri già straordinariamente complessi, né è possibile prendere in considerazione i virus, poiché questi sono tutti parassiti obbligati di cellule complesse e non possono quindi essere pre-esistenti a esse. In realtà non solo non riusciamo a fare ipotesi attendibili sul protorganismo, ma nemmeno riusciamo a concepire come esso si sia evoluto in una struttura così sofisticata, quale quella di un microrganismo dotato di complesse catene metaboliche e di altrettanto complessi sistemi di utilizzazione dell'energia. Inizialmente tutte le forme di vita erano necessariamente eterotrofe, cioè sfruttavano composti ricchi di energia formatisi nella precedente era abiologica. La vita eterotrofa però non poteva durare all'infinito: o gli organismi riuscivano a evolvere un sistema per utilizzare una fonte rinnovabile di energia o la vita era necessariamente condannata all'estinzione.
L'evoluzione della fotosintesi ossigenica, che libera cioè l'ossigeno, delle alghe verdi azzurre è il sistema con cui la vita ha risolto questo problema. Impronte di organismi simili alle attuali alghe verdi azzurre sono presenti in sedimenti datati circa 2 miliardi di anni fa, ma la fotosintesi ossigenica è certamente molto più antica. In rocce di circa 2 miliardi di anni fa si trovano segni di ossidazione superficiale, i quali dimostrano che già allora era presente nell'atmosfera ossigeno in quantità tale da produrre tracce visibili di ossidazione. Poiché tutto l'ossigeno dell'atmosfera deriva dall'attività fotosintetica (l'atmosfera primitiva era certamente priva di ossigeno), i segni di ossidazione dimostrano che organismi fotosintetici si erano formati ben prima di 2 miliardi di anni fa. Residui di alghe probabilmente eucariotiche, invece, sono state rinvenute in rocce risalenti a un miliardo e mezzo di anni fa.
Le rocce restano assai povere di fossili fino a circa 550 milioni di anni fa, epoca in cui si fa iniziare l'era geologica del Cambriano, quando i fossili stessi diventano all'improvviso frequentissimi. Ancora più sorprendente è il fatto che gli organismi che compaiono all'inizio del Cambriano appartengono a numerosi ordini diversi. Sono organismi marini in cui sono rappresentati tutti i principali gruppi di Invertebrati ancora oggi esistenti, tra i quali si trovano, per es., Celenterati, Molluschi, Echinodermi, Trilobati, da cui sono probabilmente derivati i Crostacei e tutti gli altri Artropodi. Contemporaneamente compaiono i primi Vertebrati e le prime piante marine.
L'improvvisa comparsa e la diversificazione della vita nel Cambriano non hanno ancora una spiegazione plausibile. Si è dapprima pensato che le rocce più antiche consentissero solo eccezionalmente la conservazione di residui fossili; questo tuttavia non corrisponde al vero poiché è possibile trovare, anche se raramente, organismi precambrici perfettamente conservati. D'altra parte non è logicamente possibile che organismi così differenziati si siano formati in un periodo di tempo evolutivamente brevissimo ed è per questo motivo che lo straordinario fiorire della vita nel Cambriano costituisce tuttora un grande mistero evolutivo. Dopo il Cambriano compaiono progressivamente forme di vita sempre più evolute, che colonizzano la terra emersa e danno gradualmente origine alle forme attuali. L'evoluzione non consiste soltanto nella comparsa di forme di vita sempre più complesse, ma anche nella scomparsa di forme prima fiorenti che per qualche ragione hanno perso la loro capacità competitiva e si sono estinte. Un caso tipico è rappresentato dalle Trilobiti, comparse immediatamente prima del Cambriano e scomparse improvvisamente nel Permiano (270 milioni di anni fa). Più nota è la misteriosa scomparsa dei dinosauri, che si estinsero in massa nel Cretaceo (135 milioni di anni fa) dopo avere dominato la scena nel periodo antecedente. In effetti, nel corso dell'evoluzione non solo si sono estinti gruppi di organismi che erano più o meno imparentati, ma più di una volta sono avvenuti eventi catastrofici che hanno portato alla scomparsa di buona parte delle specie che precedentemente popolavano il pianeta. Recenti ricerche hanno permesso di individuare cinque estinzioni principali: esse sarebbero avvenute, rispettivamente, alla fine dell'Ordoviciano, nel tardo Devoniano, alla fine del Permiano, alla fine del Triassico e alla fine del Cretaceo. Sulle cause che provocarono queste estinzioni di massa non abbiamo ancora idee abbastanza chiare. Molti studiosi ormai sostengono che l'estinzione del Cretaceo sia stata causata dall'impatto di un meteorite, il cui cratere è stato identificato al largo dello Yucatan (Messico); l'urto avrebbe provocato una nube di polvere tale da comportare profonde modificazioni del clima, portando così all'estinzione di molte specie. Non sappiamo, tuttavia, se questa ipotesi reggerà nel tempo: mentre l'impatto del meteorite è ben dimostrato, è incomprensibile perché ne abbia dovuto far le spese proprio un gruppo estremamente diversificato come era quello dei dinosauri, e non gli altri Rettili e i Mammiferi.
6.
Nel processo continuo dell'evoluzione l'ultimo nato è l'uomo e la sua comparsa è particolarmente importante. Questa non è solamente un'affermazione antropocentrica. Per la prima volta è presente sulla Terra un essere capace di ragionare sul fenomeno della vita e di modificarne volontariamente il corso. Tutti i gruppi importanti di organismi comparsi sulla Terra hanno profondamente modificato il corso dell'evoluzione - per es. la comparsa delle specie fotosintetiche ha totalmente cambiato la composizione dell'atmosfera, quella degli Insetti ha completamente mutato l'evoluzione delle specie vegetali che li utilizzano per l'impollinazione -, ma solo l'uomo è capace di pianificare e di modificare volontariamente il processo evolutivo.
Se l'uomo è inserito nell'evoluzione ed è stato preceduto da esseri viventi diversi e meno complessi, l'attuale Homo sapiens sapiens è l'ultimo anello di una catena che ha portato all'ominazione. Si pone allora un problema fondamentale, cioè quando un essere vivente possa cominciare a chiamarsi uomo. Come in tutti i processi evolutivi è impossibile dare una risposta precisa. Si è soliti attribuire il nome di uomo a esseri che adottavano abitualmente stazione eretta e locomozione bipede e che utilizzavano e costruivano abitualmente e coscientemente strumenti. Bisogna ricordare però che questa definizione è solo approssimativa perché l'uso più o meno continuo di strumenti è noto anche in altri esseri viventi, per es., le scimmie antropomorfe cui non attribuiamo la dignità di uomo.
a) I primi Ominidi. In base ai dati attualmente in nostro possesso, forse 5-7 milioni di anni fa in Africa orientale compariva una nuova specie, l'Australopithecus afarensis, la cui locomozione era sicuramente bipede e il cui volume cranico, se raffrontato alla dimensione del corpo, era del 30-40% più grande di quello degli attuali scimpanzé. Circa 3 milioni di anni fa (ma forse assai prima) l'australopiteco era sicuramente capace di costruire, almeno occasionalmente, semplicissimi utensili di pietra. Nello stesso periodo, derivata probabilmente dall'afarensis, compare nella stessa zona dell'Africa una specie più evoluta, che è stata battezzata con il nome di Homo habilis. Contemporaneamente a quest'ultimo fa la sua apparizione anche una nuova specie di australopiteco con caratteristiche più evolute dell'afarensis, l'Australopithecus robustus. Le caratteristiche del cervello dell'Homo habilis sono già decisamente umane e anche il volume cranico aumenta considerevolmente, fino a raggiungere in alcuni casi gli 800 cm3 . Questo dato per la verità è difficilmente interpretabile perché non è noto il peso corporeo degli individui di Homo habilis, che però viene stimato intorno a 40-50 kg. In concomitanza con l'aumentare del volume cranico e delle caratteristiche umane del cervello si ha l'associazione sempre più frequente di resti umani con manufatti di pietra seppure estremamente semplici. La transizione evolutiva che ha portato all'Homo habilis è contemporanea a una trasformazione climatica, in seguito alla quale l'Africa orientale ha acquisito un clima sempre più arido. Si pensa che l'aumento dell'aridità e quindi l'esistenza di spazi aperti, liberi dalla foresta, abbiano giocato un ruolo molto importante nell'evoluzione del bipedismo, in quanto la stazione eretta permette di spaziare su orizzonti più ampi. Come conseguenza del bipedismo le mani possono essere utilizzate liberamente; a sua volta il libero uso delle mani e degli strumenti rende evolutivamente vantaggioso l'aumento dell'intelligenza e quindi della capacità cranica. Circa 1,6 milioni di anni fa compare un uomo estremamente più simile a quello attuale, l'Homo erectus. Gli esemplari più antichi finora trovati provengono sempre dall'Africa orientale (Kenya), anche se rappresentanti di Homo erectus sono stati rinvenuti in varie parti dell'Africa e in gran parte dell'Asia. La datazione dei reperti varia fra 1,6 milioni di anni e poco più di 200.000, e forse, secondo dati molto recenti, 30.000 anni fa. Questa specie si è diffusa nel mondo dal suo luogo di origine (forse l'Africa) mantenendosi fisicamente inalterata per più di un milione di anni. Le sue caratteristiche sono decisamente umane: in alcuni esemplari il volume della scatola cranica raggiunge i 1300 cm3 e anche la struttura dello scheletro è molto vicina a quella dell'uomo moderno.
La comparsa dell'Homo erectus coincide con un progresso tecnologico nella lavorazione dei manufatti di pietra. Compare un tipo di ascia, chiamata bifacciale, che resterà sorprendentemente inalterata per circa un milione di anni: solo circa 50.00 anni fa infatti si afferma una tecnica più evoluta di lavorazione della selce, denominata tecnica di Levallois, che permette la produzione di strumenti più piccoli e raffinati. Si ritiene che l'Homo erectus utilizzasse coscientemente il fuoco, prerogativa che probabilmente ne ha permesso la migrazione e lo stanziamento in ambienti altrimenti inospitali. Secondo alcuni studiosi, i resti del cranio di Zhoukoudian (Pechino) mostrano già segni di una primitiva ritualità: il forame occipitale sarebbe stato infatti artificialmente allargato per permettere una forma di cannibalismo rituale del tipo ancor oggi praticato in Nuova Guinea. Fra i 400.000 e i 700.000 anni fa compaiono in Europa e in Asia occidentale nuovi tipi umani, Homo sapiens arcaico o Homo neanderthalensis, con capacità cranica più o meno identica a quella dell'uomo attuale, ma con alcune caratteristiche delle ossa del cranio e di quelle corporee sufficientemente diverse da poterlo distinguere dall'Homo sapiens sapiens. La cultura dell'uomo di Neanderthal è molto più avanzata di quella dell'Homo erectus, sia nella tecnologia dell'industria litica e nel costante uso del fuoco, sia per la presenza di una cultura non strettamente legata alla sopravvivenza: sicuramente i neanderthaliani seppellivano i morti con cerimonie funebri e avevano cura dei feriti. Sorprendentemente, prima di estinguersi (ammesso che si siano estinti), hanno vissuto fianco a fianco con uomini moderni per decine di migliaia di anni utilizzando le stesse tecniche e le stesse pratiche culturali, come è dimostrato dai reperti delle oasi di Quafzech in Israele.
b) L'uomo moderno. L'uomo moderno, Homo sapiens sapiens, si distingue per alcuni caratteri scheletrici sia dall'uomo di Neanderthal sia dall'Homo erectus. È interessante chiedersi se si tratti di specie diverse, cioè incapaci di incrociarsi tra di loro, o di varietà della stessa specie: una domanda che si rivela fondamentale per cercare di capire l'origine dell'uomo attuale. Tutti gli uomini oggi presenti sul pianeta hanno le caratteristiche dell'Homo sapiens sapiens, anche se gli individui delle varie razze differiscono fra di loro per particolari fenotipici anche scheletrici. I più antichi reperti dell'Homo sapiens sapiens sono stati come al solito trovati in Africa orientale. Gli esemplari ossei più antichi sono stati datati, con qualche imprecisione, a circa 100.000 anni fa. Anche se, come abbiamo già detto, la capacità cranica è pressoché identica, l'Homo sapiens sapiens differisce per molti caratteri scheletrici dall'uomo di Neanderthal: il cranio è più rotondo, la faccia più piatta, gli incisivi più piccoli e la base del cranio completamente curva, caratteristiche da cui si può dedurre uno sviluppo meno pronunciato delle masse muscolari. I ritrovamenti di resti umani attribuibili a Homo sapiens sapiens in continenti diversi dall'Africa sono più recenti e sono datati fra i 40-50.000 anni fa per quelli europei, forse 70.000 anni in Asia e in Australia. Le differenze temporali tuttavia non sono sufficientemente ampie da poter affermare con certezza, sulla base delle evidenze fossili, l'origine della specie. È probabile che l'uomo si sia originato in Africa e di là sia migrato in altri continenti. Si deve comunque ricordare che la probabilità di trovare un fossile in una certa area dipende da almeno due fattori fondamentali: l'intensità con cui in una determinata area sono state condotte le ricerche e la probabilità, legata a complessi fattori ecologici, che in quell'area il fossile si conservi. Stabilire quindi l'origine geografica di una specie sulla base dell'antichità dei ritrovamenti è estremamente difficile ed è necessaria molta cautela. Può anche essere messo in dubbio che gli uomini attuali derivino tutti da un singolo evento (ovunque esso si sia verificato), cioè - per così dire - che una singola Eva abbia dato origine a tutti gli uomini attuali.
Poiché è difficile che i reperti fossili possano dare una risposta definitiva a queste domande, i genetisti e gli antropologi cercano di risolvere il problema con altri strumenti di indagine. Ne è nata una discussione assai accesa che ha portato a formulare due ipotesi assai diverse fra loro. La prima sostiene che l'intero genere umano derivi da un'ipotetica Eva africana, i cui discendenti hanno poi popolato tutta la Terra soppiantando le altre specie (o razze?) di uomini. La seconda ipotesi sostiene l'origine multiregionale dell'uomo attuale: ovunque si sia formato il primo uomo simile a quello attuale (forse in Africa), i suoi discendenti migrando si sarebbero mescolati con i discendenti degli uomini preesistenti (Homo erectus e Homo neanderthalensis), che non costituivano quindi specie diverse, e ne avrebbero mantenute alcune caratteristiche. La prima ipotesi si basò inizialmente su analisi genetiche dei siti polimorfici del DNA mitocondriale ottenute da A.C. Wilson e R.L. Cann (1992). Il DNA mitocondriale nell'uomo è ereditato unicamente per via materna e può rivelarsi particolarmente utile nelle indagini antropologiche, in quanto ha la caratteristica di mutare molto più velocemente del DNA nucleare, peculiarità che lo rende utile anche per analisi evoluzionistiche su tempi relativamente brevi. Wilson e Cann analizzarono il DNA mitocondriale di numerose popolazioni umane e trovarono che queste differivano fra loro per varie mutazioni: in base all'analisi dei siti polimorfici, costruirono un albero genealogico delle popolazioni umane da cui stabilirono che la popolazione più antica era quella africana. A loro parere, tale ricostruzione permetteva anche di stabilire l'età approssimativa dell'origine dell'uomo e le epoche in cui le varie popolazioni che si sono diffuse negli altri continenti avevano lasciato l'Africa. Lo studio inoltre dimostrava che fra le popolazioni africane si aveva la massima variabilità nel DNA mitocondriale, un dato compatibile con il fatto che la popolazione africana fosse la più antica del mondo. Tuttavia, gli stessi dati furono successivamente analizzati da altri statistici i quali conclusero che con essi era possibile costruire ben 8000 alberi genealogici equiprobabili e che di questi circa un quarto poneva l'origine dell'uomo al di fuori dell'Africa. I risultati dei genetisti erano quindi tutt'altro che inoppugnabili e occorrevano molte altre indagini prima di giungere a una conclusione. Veniva inoltre messa in discussione la possibilità di datare con sufficiente esattezza un qualsiasi evento della filogenesi umana sulla base di dati molecolari del tipo di quelli utilizzati.
Nello stesso tempo alcuni antropologi (Thorne-Wolpoff 1992) notavano che l'ipotesi di un'Eva africana era in contrasto con i dati della paleontologia. Secondo questi studiosi, alcuni caratteri peculiari e distintivi di molte popolazioni attuali, caratteri che erano già presenti nell'Homo erectus e assenti nelle popolazioni africane (per es., la struttura del canale che ospita il nervo mandibolare, la struttura delle arcate sopraorbitarie), si sono mantenuti inalterati in loco per centinaia di migliaia di anni, derivando quindi probabilmente dalle popolazioni preesistenti, mentre se tutte le popolazioni attuali fossero derivate da un unico capostipite africano la morfologia sarebbe dovuta essere quella degli immigrati africani. Unica alternativa, difficile da accettare, è che lo stesso carattere sia mutato e la mutazione si sia fissata indipendentemente per due volte consecutive nella stessa località. Un'altra seria difficoltà sollevata dagli antropologi è la seguente: se l'Homo sapiens sapiens, in un tempo relativamente breve (100-200.000 anni), è riuscito a dominare e a provocare l'estinzione di tutte le popolazioni che lo hanno preceduto, esso doveva avere un qualche forte vantaggio selettivo e verosimilmente una cultura superiore a quella delle altre popolazioni umane. Gli uomini provenienti dall'Africa dovevano dunque portare con sé la propria cultura, poiché non si è mai visto che un essere culturalmente superiore migrando accetti la cultura di quello inferiore senza lasciare traccia della propria. La conclusione degli antropologi culturali è che l'uomo attuale non ha una derivazione recente dall'Africa (o da qualsiasi altro luogo), ma deriva da una serie di incroci fra le popolazioni evolutesi localmente dagli stanziamenti di Homo erectus e dell'uomo di Neanderthal e altre popolazioni umane migranti. È probabilmente troppo presto per decidere quale di queste teorie sia vera; una teoria organica dell'evoluzione dell'uomo deve tuttavia prendere in considerazione i dati che provengono da ogni disciplina, dalla genetica come dalla paleontologia.
7.
Fra tutte le specie animali quella umana è l'unica ad aver sostituito, completamente o quasi, l'evoluzione culturale all'evoluzione biologica come fattore di progresso. I rapidissimi cambiamenti della società dell'uomo nelle ultime decine di migliaia di anni sono dovuti in nulla, o in minima parte, all'evoluzione biologica (sia le potenzialità intellettive sia la struttura corporea non sono in questo periodo apprezzabilmente cambiate) e lo sono invece al perpetuarsi e accumularsi delle conquiste culturali. Nell'evoluzione culturale le invenzioni, cioè i prodotti dell'ingegno umano, giocano il ruolo che nell'evoluzione biologica hanno le mutazioni. Il risultato è tuttavia completamente diverso: le invenzioni si susseguono con ritmo assai più accelerato che le mutazioni, per cui i cambiamenti causati dall'evoluzione culturale sono assai più rapidi di quelli dovuti all'evoluzione biologica. Inoltre, l'evoluzione culturale ha un andamento 'infettivo', o se preferiamo una trasmissione orizzontale, in quanto la cultura si trasmette ad altri uomini non correlati e non soltanto ai discendenti genetici di chi ha fatto l'invenzione. L'evoluzione culturale, quindi, influenza la fitness (adattività) dell'intera società e non solo quella di chi ha fatto l'invenzione e dei suoi discendenti (in genetica si definisce fitness la probabilità che ha ciascun individuo di lasciare figli fecondi). Il risultato finale dell'evoluzione culturale è la tendenza ad abolire l'evoluzione genetica e quindi a equiparare la fitness genetica di ogni membro della popolazione, a meno che questi non sia portatore di difetti genetici molto gravi. Tuttavia, l'abolizione o la forte riduzione dei processi selettivi non lascia la popolazione inalterata, ma porta al contrario al suo progressivo deterioramento genetico. Si deve infatti ricordare che le mutazioni sono quasi sempre deleterie: in assenza di selezione tendono quindi ad accumularsi mutazioni che influenzano in maniera negativa il funzionamento di ogni parte del nostro corpo (compreso il cervello). Non si tratta di un ragionamento teorico, ma della descrizione di un processo che è in realtà sotto gli occhi di tutti: per es. l'enorme frequenza di individui con difetti della vista (miopia, astigmatismo ecc.) è in parte dovuta a difetti genetici ed esistono dati che ci mostrano come la frequenza dei difetti sia maggiore nelle popolazioni di più antica civilizzazione, nelle quali il rilassamento della selezione è durato più a lungo ed è quindi maggiore il numero di difetti genetici che si sono accumulati. Identiche correlazioni si possono stabilire per molti altri difetti in cui si dia una forte componente genetica. Questo andamento è chiarissimo per un carattere molto comune e geneticamente ben caratterizzato quale il daltonismo. Considerando l'ipotesi di un'ulteriore evoluzione dell'uomo, il problema principale consiste nel capire quale possa essere il futuro di una specie che ha abolito quasi completamente l'evoluzione biologica sostituendola con l'evoluzione culturale, processo estremamente veloce e privo di sistemi automatici di controllo. Si tratta nella storia della vita, vecchia di quasi 4 miliardi di anni, di qualcosa di assolutamente nuovo ed è difficile prevedere i risultati di questo esperimento, che dipendono in larga parte dalle capacità dell'uomo di saper amministrare saggiamente i prodotti dell'evoluzione culturale.
Di evoluzione ed evoluzionismo parleremo nella cornice di un largo, e selettivo, frammento di storia della scienza biologica. Un termine della concezione scientifica della vita e un concetto, più precisamente una nozione o idea della scienza, giungono a correlarsi molto tempo dopo che il termine era entrato nell'uso con un significato diverso e virtualmente opposto, e dopo tempo non breve dall'entrata dell'idea nel vivo del dibattito scientifico: il termine è 'evoluzione', l'idea è la trasformazione delle specie viventi. Il secolo della rivoluzione scientifica, il Seicento, aveva avviato l'osservazione microscopica delle minime forme di vita. Ma ancor prima che l''occhiale' galileiano si mutasse nell''occhialino' e il bisogno di sapere visivo abbracciasse la prossimità insieme alla lontananza delle cose osservabili, negli anni del Galilei anziano e del giovane Cartesio era ripresa la ricerca conoscitiva su un affascinante problema della natura.
Da che cosa trae origine un individuo vivente? Agli epigenisti, convinti che la generazione sia l'effettivo costituirsi di un'entità prima inesistente per l'azione di un principio sottile o immateriale sulla materia, si contrappongono negli anni della rivoluzione scientifica i preformisti, poco dopo chiamati anche evoluzionisti, per i quali la forma dell'individuo preesisterebbe miniaturizzata nell'uovo. I teorici della preformazione non tarderanno a dover postulare un organo primario della linea germinale umana, l'ovaio di Eva, nel quale si sarebbe potuto osservare miniaturizzato, inscatolato - emboîté, emboîtement sono termini che appartengono al lessico settecentesco del preformismo di lingua francese - l'intera umanità discesa dalla coppia primitiva. Guardiamoci dall'ironizzare: L'ovaio di Eva s'intitola un recente saggio (Pinto-Correia 1997) che attualizza il problema dal punto di vista del genoma umano. Si parla con tutta serietà di una 'Eva africana' e di una 'Eva mitocondriale'. Per tornare al punto di partenza, ricorderemo che sui due versanti, epigenistico e preformistico, di una biologia che ancora non si chiama così - il termine entrerà nell'uso a fine Settecento per unificare la morfologia e una fisiologia di recente nascita - troviamo due esemplari figure di osservatori e teorici della vita: W. Harvey e M. Malpighi.
Nel campo epigenistico il fisiologo Harvey, attivo tra Londra e Oxford, medico di Giacomo I, pagava il proprio tributo intellettuale alla filosofia aristotelica della natura nella scoperta della circolazione del sangue, attraverso il concetto di circolo e circolarità, e al secolo meccanico, adottandone l'ancora germinale intuizione di grandezze fisiche conservative. Più che lo Harvey fisiologo interessa qui l'embriologo, convinto che la forma venga da una forma preesistente, ma convertitasi in 'agente efficiente', sulla materia, e rimasta identica a sé stessa, sebbene inosservabile, durante tale conversione. L'Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus esce nel 1628, le Exercitationes de generatione animalium vengono pubblicate nel 1651.
Non è eccessivo avvicinare ed equiparare a I. Newton, più precisamente al Newton ottico, geniale ma problematico, la personalità dell'embriologo preformista Malpighi. La forma deriva da una forma sempre osservabile come tale. All'occhio vengono in aiuto le lenti. Malpighi è compreso nella sua grandezza e paragonato dai contemporanei a Colombo: "alter microcosmi Columbus". La Royal society lo elegge tra i propri soci e i saggi embriologici malpighiani escono a Londra, non sappiamo se per opportunità o per prudenza. Negli anni Sessanta del 17° secolo, con Malpighi e i naturalisti olandesi, si afferma la microscopia nelle scienze della vita. Gli infiniti sono due, come aveva sostenuto B. Pascal, e vi conducono due diverse strade: quella verso la dimensione vivente minima parte dall'uovo e dagli insetti. Attorno agli insetti nasceranno una 'Bibbia della natura' e una vera e propria teologia, la théologie des insectes. Ma la matrice del nuovo organismo è cercata nell'uovo. Nel 1677, nella cerchia dell'olandese A. van Leeuwenhoek, viene scoperto lo spermatozoo, e tuttavia personalità del peso scientifico di L. Spallanzani, A. Haller, C. Bonnet escluderanno che esso partecipi alla produzione di un nuovo organismo. I preformisti ovisti prevalgono nettamente per numero e autorità sui preformisti animalculisti. La generazione, si noti, non è ancora una fecondazione, nel senso dell'unione di due germi: lo diventerà in pieno Ottocento, con le ricerche dell'embriologo O. Hertwig sulle uova del riccio di mare. Il maschio esercita per il momento una funzione stimolante attraverso un''aura', una delle entità sottili al confine tra il materiale e l'immateriale che la scienza del secolo meccanico postulava, non potendo appagarsi di materia soggetta all'attrazione e alla repulsione newtoniane e non osando appoggiarsi su una realtà inestesa e imponderabile. Dietro i preformisti e la loro ricerca della forma miniaturizzata c'era molto materialismo atomistico di stampo democriteo e stoico. Malpighi ne era stato contagiato durante il giovanile insegnamento a Pisa dal galileiano G.A. Borelli. Ma c'era un materialismo diverso, di stampo epicureo e dunque naturalistico. I due materialismi erano affini e solidali nella riluttanza a compiere quel passo dall'osservabile all'inosservabile, dalla fisicità percepibile al concetto intellegibile di causa, che nel secondo libro della Fisica Aristotele aveva indicato come la svolta avvenuta nell'iniziale indagine speculativa sulla natura. Nel preformismo c'era anche l'opposto di ciò, per es. tra i seguaci della citata 'teologia degli insetti': un atteggiamento devoto che ritroveremo in C. Linneo e che per il momento aveva interesse a svuotare la natura di qualsiasi causalità diversa da quella meccanica dell'urto tra corpi mobili. Ma il meccanico Newton nello Scolio generale alla seconda edizione (1713) dei Principia avrebbe raffigurato un Dio ovunque presente e senziente, associandosi di fatto all'esigenza più profonda della filosofia spinoziana e alla prospettiva di stretta inerenza della natura al divino, sostenuta dal cartesiano N. de Malebranche.
Mettiamo un punto fermo. L'evoluzione nasce come parola all'interno del problema della generazione, durante la rivoluzione scientifica moderna, sullo sfondo di filosofie le quali disputano non su problemi marginali, ma sull'essenza dell'essere. Esiste un saldo nesso tra teoria scientifica e teoria filosofica, anche se quest'ultima è spesso implicita. Rispetto al termine evoluzione, il processo generativo rappresenta il referente reale. Ma il referente generativo presenta affinità sostanziali con il futuro referente evolutivo nel senso postdarwiniano e posthaeckeliano. Ontogenesi e filogenesi non sono tanto diverse da non rappresentare distinte proiezioni di uno stesso problema: come l'entità vivente - individuo, varietà, specie - prima non sia e poi sia. Si consideri che il problema è tale da far prevedere il coinvolgimento della razionalità scientifica. Se A diventa B senza contenerne le premesse, la teoria scientifica può essere colpita nella sua possibilità di compiere affermazioni invarianti rispetto alla variabile temporale. Perché mai, se l'entità biologica cambia senza presupposti virtuali del cambiamento, non potrebbe allo stesso modo cambiare quel momento più profondo e sostanziale della realtà, per cui teoria dell'evoluzione ed evoluzionismo - ben distinti l'una dall'altro, come accenneremo - si presumono veri? Che senso avrebbe dunque invocare una verità e difenderla da chi non la condivide?
"Majus enim, et divinius inest in generatione animalium mysterium, quam simplex congregatio, alteratio, et totius ex partibus compositio: quippe totum, suis partibus prius constituitur, et decernitur; mistum prius, quam elementa". Queste parole di Harvey suggellano la prospettiva della rivoluzione scientifica moderna sul problema della generazione riproduttiva. È un arduo problema che finisce nell'inosservabile, mentre il preformismo s'illudeva di semplificarlo riportandolo a entità geometriche. L'altro problema, la generazione evolutiva, tenuto in serbo per il secolo successivo, accentuerà la portata problematica della vita nella vicenda terrestre e cosmica. Ma la razionalità scientifica rimarrà il terreno sul quale riportare, ordinare e interpretare i protocolli sempre lacunosi delle osservazioni. La gallina alle spalle dell'uovo aveva costituito un argine alle inquietudini della ricerca: ma proprio essa entrerà in discussione, la prima gallina progenitrice di tutte le altre. G.-L. Buffon s'interrogherà sul primo cavallo, naturalmente senza dare risposta. Secolo di sostanziali conquiste conoscitive - nella meccanica razionale, nell'astronomia, nell'elettrologia, nella chimica: fondamentale, quest'ultima -, il Settecento irrigidisce la contrapposizione tra preformismo ed epigenismo, fino a permettere che il secondo, l'epigenismo, ponga al primo, il preformismo, un'opzione estrema: ridefinirsi o scomparire. Le date sembrano contraddire ciò che affermiamo: il gran testo del preformismo ovista, le Considérations sur les corps organisés del ginevrino Bonnet esce nel 1762 e riceve un'accoglienza trionfale. Ma tre anni prima, nel 1759, K.F. Wolff, un laureando dell'università prussiana di Halle, ha inferto un colpo mortale al preformismo, associandolo alla sua dissimulata premessa meccanicistica e, dunque, cartesiana. Nulla di osservabile corrisponde alla preformazione nello sviluppo embrionale. Come premessa dello sviluppo, come sua causa, occorre postulare una 'vis essentialis', noi diremmo un fattore fondamentale energetico. Dietro l'osservabile c'è una forza inosservabile, che assume su di sé la funzione di presidio allo sviluppo, rappresentato fino a ieri dalla gallina malpighiana rispetto all'uovo. Dopo più di un secolo dall'abbozzo del saggio cartesiano sull'uomo, De l'homme (1633), con lo schema di un'embriologia meccanica, e a pochi anni da L'homme machine (1747) del disinvolto J.O. de La Mettrie, medico mediocre ma pur sempre allievo del sommo iatromeccanico H. Boerhaave nell'università di Leida, con la Theoria generationis di Wolff affiora in guisa di un clamoroso fallimento il limite intrinseco alla geometrizzazione della natura e della vita: limite, anche, dell'anatomia priva dell'integrazione fisiologica. L'organismo-macchina è una finzione senza passato e senza futuro. La vita è processuale e funzionale. È da notare che proprio nell'edizione tedesca della memoria wolffiana, la Theorie von der Generation del 1764, ampliata e meglio organizzata, il termine evoluzione tende a uscire dal significato preformistico di 'dispiegamento di qualcosa che era inviluppato', per avvicinarsi a quello epigenetico e osservativo di 'sviluppo'. Per l'esattezza, Evolution si lega a Entwicklung. È una svolta, il segno di una concezione della vita che è giunta al termine del proprio corso. Ormai il destino del preformismo è interno all'epigenismo: chiamando 'essentialis' la sua 'vis', è come se Wolff aprisse la porta all'istanza opposta alla sua. Che cosa sia la fecondazione, da cui prende l'avvio il processo generativo, non è ancora chiaro. Per Wolff il seme maschile procura il nutrimento di quello femminile: mentre si muove una personalità di prestigio europeo come Spallanzani per dare addosso ai 'vermicellai' che attribuivano un ruolo comprimario nella generazione ai 'vermicelli', cioè allo spermatozoo. Anche il sesso maschile ha subito i suoi torti nel corso della storia. L'epigenismo ha assorbito il preformismo, accettando il parametro della razionalità inosservabile, ma collegandosi con l'esperienza attraverso gli strumenti ottici che servono per ampliarla: Wolff è anche lui voce autorevole della rivoluzione scientifica moderna. Un epigenismo siffatto può esprimere da sé la teoria fecondativa della generazione e sperare d'impostare la teoria evolutiva della discendenza. La seconda si anteporrà alla prima per ragioni d'ordine processuale.
Qui cade cronologicamente e concettualmente il caso Linneo, che dobbiamo ricordare per l'ampiezza immensa del suo orizzonte conoscitivo e per la sagacia della sua attività classificatoria. Mentre una biologia, che diamo ormai per nota, sta rizzando un argine al corso cieco del materialismo meccanico, imputandogli aporia dopo aporia, e positivamente allineando idea dopo idea, Linneo s'illude di ripristinare l'atteggiamento devoto nello spazio euristico e dialettico della vita. Ha ventotto anni quando esce a Leida, nel 1735, la prima edizione, dodici pagine in folio, del suo Systema naturae, con l'appoggio di persone che contavano e tra queste del già citato Boerhaave. Forse agli epigoni del meccanicismo l'atteggiamento devozionale di Linneo dispiaceva assai meno del pugnace epigenismo di Wolff: l'importante era che il mondo, creato da Dio ed esistito da sempre, funzionasse alla maniera cartesiana. Aperto da un 'introito' di sapore biblico, il Systema linneano si basa sull'assunto che le specie oggi riconoscibili e numerabili sono quelle inizialmente create da Dio. È un postulato ricco di ambiguità, centrato su un'asserzione di carattere empirico: la specie concepita come entità immodificabile, vero invariante della vita. Momento, dunque, di quel passaggio dall'identico al diverso che, assieme ad altre istanze provenienti dalle assiomatiche del pensiero scientifico moderno, poteva confluire in un ritrovato e atteso concetto di creazione. Specie immutabili in una natura ordinata, finalistica, rasserenante, cominciata ieri e destinata forse a finire domani: la prospettiva del naturalista Linneo può essere compendiata in tal modo. Del resto, l'età del mondo risulta di poche migliaia di anni secondo la tavola cronologica annessa alla Scienza nuova di G. Vico, contemporaneo di Linneo.
Le idee che stanno per affermarsi prima che il 18° secolo finisca sono opposte a quelle che avevano sorretto la costruzione naturalistica linneana. E la biologia devota del grande svedese, diversamente da quel che era avvenuto con il naturalismo filosoficamente consapevole di uno Harvey, rappresenterà un'ipoteca grave sulla teoria biologica. Non meno grave è l'ipoteca posta negli stessi anni, sempre sulla teoria biologica, da G.E. Stahl, medico e chimico dell'Università di Halle. Ci sono gl'incontri mancati, nella storia, e qui ne registriamo uno, tra il vitalista Stahl e l'epigenista Wolff nell'ancor giovane università della Prussia, alla quale appartenevano entrambi: Stahl muore nel 1734, la lezione di Wolff sulla teoria della generazione è, come abbiamo ricordato, del 1759. La chimica in quegli anni apparteneva ancora alla medicina nella ripartizione delle competenze accademiche. Linneo scivola sul concetto di specie, Stahl su quello di combustione. La rivoluzione chimica di A.-L. Lavoisier, per cui la combustione non è separazione del flogisto, ma aggiunta dell'ossigeno al corpo che brucia, è diretta contro la teoria dei fluidi imponderabili, strettamente legata in Stahl a una teoria della vita di stampo animistico. E così il meccanicismo trionfa o crede di trionfare, tra Sette e Ottocento, tenendo una mano sui trattati di meccanica analitica - d'Alembert, Lagrange, Laplace -, e con l'altra mano indicando la bilancia, capace di pesare la materia con la pretesa di determinare oggettivamente l'essere, il reale. Biologia devota e vitalismo animistico finiscono con l'infliggere insieme una gran ferita a un movimento di idee partito da Harvey, assestatosi con Wolff in piena coerenza con la metodologia della rivoluzione scientifica, e culminato nella Critica del giudizio (1790) di I. Kant attraverso una profonda riflessione sul finalismo della natura vivente.
Il bisogno di epigenismo, che è bisogno di riflessione filosofica sul pensiero e sulla natura, sta per diventare acutissimo con G.L. Buffon e J.-B. Lamarck. Buffon è l'anti-Linneo: la sua lunga vita attraversa quasi tutto il secolo e i quarantaquattro volumi della Histoire naturelle, générale et particulière lo scavalcano, concludendosi dopo la morte dell'autore. Buffon ha il merito storico di aver trasformato il parigino Jardin des Plantes nel Musée d'histoire naturelle, un punto di riferimento dell'Europa scientifica. Scrive da saggista geniale e da intellettuale rangé, allineato o inquadrato, ovviamente tra i philosophes. È convinto che l'età della Terra sia molto maggiore di quanto ritenevano i contemporanei, e che il tempo funga da 'grande operaio della natura'. Le specie si modificano per influenza dell'ambiente e di ogni specie si modifica in tal modo il 'prototipo generale', che Buffon non ha difficoltà a riconoscere, pur non sapendo precisarne l'origine. Riceve così spiegazione l'antifinalismo di tante strutture: una per tutte, l'enorme e fragile becco del tucano. Lamarck è invece un grande e originale naturalista: la sua Histoire naturelle des animaux sans vertèbres è un classico della zoologia e appartiene al nuovo secolo. Si vuole ed è 'naturalista filosofo', ma come filosofo è ragionatore confuso, incoerente, spesso contraddittorio. Tutti i corpi organizzati del globo sono produzioni successive della natura 'con l'aiuto di un tempo sufficiente'. La natura ha piani di sviluppo e piani di degradazione, anzi di annientamento delle singole strutture. Ma anche l'ambiente agisce sugli organismi, modificandoli: non direttamente bensì attraverso il 'sentimento interno' che promuove l'uso degli organi. I piani della natura sono un piano solo, dal quale hanno tratto origine tutti gl'individui viventi. Con Buffon e Lamarck la vita si dà un parametro nuovo e illuminante: la storicità. Ma l'espulsione dell'epigenesi e del concetto che più le è proprio, la virtualità reale, ma non spaziotemporale e dunque inosservabile, non riesce né all'uno né all'altro autore. Il trasformismo lamarckiano, anzi, ha anche una dichiarata radice epigenetica.
Sarà G. Cuvier a restituire alla teoria dell'epigenesi il diritto di emettere affermazioni prescrittive. Cuvier abbandona le specie di Linneo e le sostituisce con gli embranchements, i tipi zoologici. Lo segue K.E. von Baer, che riesce a isolare nel follicolo di Graaf l'ovocellula dei Mammiferi. Un tipo non si trasforma in un altro: ogni tipo è una struttura, structure, cioè un'unità correlata da una molteplicità di parti. Tra Le règne animal di Cuvier (1817), l'Embriologia comparata (1828) di von Baer, la prima edizione del darwiniano l'Origine delle specie (1859), edizione non ancora inquinata dall'influenza del delirante profeta di Jena, E. Haeckel, su Ch. Darwin, e l'Introduction à l'étude de la médecine expérimentale di C. Bernard (1865), si costituisce l'abbozzo di una teoria della vita, che in Bernard non esita a darsi il termine che finora era mancato: création, "creazione". La creazione di Bernard scavalca a ritroso il tipo di Cuvier, si apre all'attrattiva profonda delle proprietà e funzioni della vita, riscopre l'individuo dentro la classe ed esprime l'esigenza di un passaggio causale da ogni entità che sia un A - una proprietà o funzione rispetto a un'altra, un insieme classificatorio rispetto a un altro, un questo rispetto a un quello - a ogni entità che sia un B, diversa dalla precedente. Quale sia la causa del passaggio da A a B, se risieda nell'essere o nella natura, Bernard non dice.
Dopo Bernard si affievolisce la filosofia della vita, con le eccezioni dell'embriologo H. Driesch nell'area della ricerca biologica e, fuori di esse, del filosofo H. Bergson e dell'antropologo P. Teilhard de Chardin. La teoria dell'evoluzione si trasforma in evoluzionismo e quest'ultimo in monismo nell'opera di Haeckel, che assorbe la sottile riflessione evolutiva del primo Darwin - lo splendido capitolo dell'Origine delle specie sulla variazione correlata degli organi - nel programma dichiaratamente antilinneano di una natura che non ha bisogno del Dio creatore, perché crea direttamente da sé tutte le diversità che contiene. La biologia devota, dopo un secolo e mezzo, ha prodotto la propria antitesi. Il fisico E. Schrödinger potrebbe aver aperto una fase della biologia teorica, meglio forse teoretica, con la riflessione sul rapporto tra frequenze della meccanica statistica e ordine codificato della genetica, contenute nelle lezioni dublinesi del 1943, confluite nel saggio Che cos'è la vita? (1945), più volte ripubblicato. A questa fase vigilata, ma non reticente di riflessione, si ricollega la presente analisi. Veniamo ai concetti. La vita solleva quattro problemi sostanziali. Il primo è la sua esistenza. L'Universo è un 'Universo che comprende la vita' e, attraverso essa, comprende la corporeità umana e giunge al pensiero. La scienza odierna è diventata conoscenza alternativa: di tutto c'è il diverso. La prima, inattesa scoperta di diversità alternativa ha riguardato, nel 19° secolo, lo spazio euclideo e si è poi generalizzata. Anche la vita potrebbe non esserci stata, nel patrimonio dell'esistenza. Ma la vita fa da ponte con il pensiero, che rifiuta la casualità di sé stesso perché il caso non lo limita, non riuscendo a intaccare l'universalità prospettica e l'incondizionato movimento del pensare. È oggetto di analisi e di giudizio, il caso: e non sfugge alla cruda legge di un'alternativa possibile e pensabile. La vita umana è natura giunta a pensare, abbiamo detto. Formulare un'alternativa razionale alla casualità della vita è decisione che si ripercuote sull'Universo, sull'esistenza. Il secondo problema sollevato dalla vita è l'unità del molteplice. All'accanto della geometria, al dopo della meccanica, si aggiunge la correlazione, in forma di struttura o di programma, e dunque la simultaneità della morfofisiologia. Questo problema ha subito un brusco arricchimento di evidenza. Quando il vecchio J.S. Bach improvvisò al fortepiano una fuga a cinque voci per Federico II, fu - commenta l'informatico D. Hofstadter (1979) - come se giocasse a occhi bendati sessanta partite di scacchi, vincendole tutte. Eppure la situazione accennata è poca cosa rispetto al genoma umano: un pianoforte con 100.000 geni e 3000 megabasi, ciascuna composta di un milione di basi elementari. Tre miliardi di tasti in uno strumento che, dopo aver posto in essere le correlazioni spaziali dello sviluppo e della forma consolidata, deve provvedere ai ritmi periodici della funzionalità organica, disseminati in entità cellulari innumerevoli. In quale iperspazio di simultaneità va inserito un insieme cosiffatto, e quale fattore ne coordina l'azione? Ancora, la vita è funzionale e ogni funzione dipende da un'altissima complessità di mediazioni, di passaggi. Ma, all'inizio e al termine dell'analisi, il quesito sulla funzionalità è il seguente: si geometrizza o no la funzione, è sufficiente o no il modello dell'uomo-macchina? E nel caso che sia insufficiente, come spiegare una funzione, se non partendo da una 'proprietà' - termine di Bernard - della vita? E se la proprietà supera la spazialità, qual è la dimensione della natura alla quale appartiene? Estensione e temporalità ci dicono che la natura è 'accanto', 'dopo' e 'insieme'. Che cos'altro ci dice la funzionalità della vita sulla costituzione dell'Universo nel quale viviamo?
Infine, c'è la vita come storia, l'evoluzione. Un primo fatto: la vita che è, non sempre è stata, e la vita che è stata, non sempre è. E un secondo fatto: la variabilità della vita in tutti i raggruppamenti tassonomici. La differenza con la macchina, persistente, soggetta a logorio ma non a cambiamento, diventa radicale. E dire che la macchina ha dietro di sé la potenza del pensiero umano, la vita sembra non aver alcunché. È lecito, ha fondamento pensare l'evoluzione come macroepigenesi? È plausibile porre un grumo denso e ricchissimo di possibilità, per l'appunto evolutive, all'inizio del viaggio della vita, sulla Terra e forse altrove? Quest'evoluzione è pensabile: il pensiero si trova a ragionare sull'ieri e sul domani come sull'oggi, conservando la propria invarianza rispetto al tempo e interrogandosi sul rapporto fra permanenza e trasformazione, in questo caso evoluzione, cioè fra essere e mondo.
Un altro scenario si delinea, se non si ammette il postulato di una macroepigenesi: l'evoluzionismo sopravviene a spiegare l'evoluzione. Il grumo iniziale di virtualità, per l'evoluzionismo, non c'è mai stato. Di volta in volta la vita si è fatta senza premesse, e qualcosa di diverso a sua volta prodotto dal caso - l'ambiente, la competizione per la sopravvivenza - ha scelto tra le offerte casuali della vita. Ma l'evoluzionismo così concepito non è pensabile, perché il pensiero continuerebbe a supporre che l'accaduto qui e ora sarebbe comunque potuto esistere ovunque e sempre. Una natura priva di precondizioni sarebbe da pensare tutta quanta all'opposto di quel che fa il pensiero, quando progetta e quando ragiona. E non basta. Il caso e il cambiamento casuale diventerebbero leggi, invarianti, in quanto affermazioni razionali. Il caso come evento si trasformerebbe o tenterebbe di trasformarsi nel caso come principio, rinunciando alla temporalità e occasionalità che gli sono connaturate. Il dilemma della razionalità scientifica, che abbia affrontato il problema dell'evoluzione, è ormai palese. Una via porta dal fatto evolutivo alla legalità che lo condiziona, anzi lo innerva. Legalità che si accorda con una causalità non temporale: di tutte le diversità interne alla vita, ma anche di un Universo che contiene una vita la quale, nell'uomo, fa da tramite al pensiero. L'altra via porta dal fatto evolutivo a eventi circoscritti, temporali e solo fortuitamente ripetibili. La legge che tende a identificarsi con la creazione; l'evento che non può non assimilarsi al caso. L'opzione dilemmatica del pensiero, tra evoluzionismo e creazione, acquista l'irrecusabilità delle premesse razionali da cui deriva.
La creazione che è giunta anche storicamente ad affiancarsi al termine evoluzione, quando si è parlato da parte di filosofi e scienziati di 'evoluzione creatrice', per quanto s'è detto dev'essere considerata un momento costitutivo, strutturale del processo evolutivo. La sua traccia dev'essere cercata nel grumo iniziale della vita. Inoltre, per la genesi che non può essere casuale di una vita che pensa, deve trovarsi traccia dell'atto creativo anche nel grumo iniziale del mondo. Postavi da quella realtà atemporale, l'essere, con cui continuamente dialoga il pensiero. E che, per stare all'origine dell'Universo delle esistenze, per averlo presumibilmente concepito, voluto e orientato, mostra di avere in sé tutta la ricchezza dell'evoluzione e altra ancora di tanto maggiore, la ricchezza del possibile non esistente, in aggiunta alla forza di un creare originario e incondizionato.
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