EVOLUZIONE
(XIV, p. 664; App. II, I, p. 893)
Secondo le teorie più recenti si definisce e. biologica "il mutamento nella diversità e l'adattamento di popolazioni di organismi". L'e. è ormai scientificamente dimostrata: prove ne sono le serie di fossili incluse in strati geologici accuratamente datati con metodi radiometrici, gli studi sull'ereditarietà e le ricerche di biologia molecolare che permettono la ricostruzione delle modifiche avvenute nel tempo in determinate molecole e a cui fanno riscontro modifiche strutturali degli organismi. Il dibattito è invece ancora aperto su come e perché avviene una determinata serie evolutiva. Secondo la teoria sintetica, l'e. dipende dalla continua produzione di variabilità genetica − responsabile della produzione di individui con diversa capacità di sopravvivenza e riproduzione − e dal vaglio che l'''ambiente'' effettua su tutti i nuovi genotipi prodotti (selezione naturale darwiniana).
Dunque il processo evolutivo è un processo a due tappe: la prima consiste nei processi che generano una moltitudine di individui tra loro differenti e unici dal punto di vista genetico. Sia nelle specie a riproduzione agamica, sia in quelle a riproduzione sessuale le mutazioni forniscono la base primaria della variabilità genetica. Nelle specie a riproduzione sessuale, poi, la meiosi comporta la ricombinazione genica che, rimescolando i patrimoni genetici, offre la possibilità di costruire nuove combinazioni. Inoltre di ogni coppia di cromosomi omologhi ricombinati, solo uno, a caso, entra a far parte del gamete. La sovrapproduzione di gameti, specie maschili, la scelta dei partners e la selezione dei gameti che poi si uniscono alla fecondazione sono in larga misura fatti casuali: dunque le possibilità di produzione di variabilità in questa prima fase del processo evolutivo sono in pratica illimitate. La variabilità prodotta per ricombinazione non è prevedibile e non costituisce risposta a nessuna esigenza dell'organismo; deve comunque rimanere nei limiti imposti: 1) dalle sequenze di coppie di basi che costituiscono il genotipo, e 2) dalla funzionalità della proteina, una volta tradotta, nel suo contesto fisiologico. Recentemente è stato messo in evidenza un altro tipo di variabilità, la cosiddetta variabilità ''distorta'', e cioè quella che viene prodotta da elementi trasponibili (v. trasposone, in questa Appendice).
La seconda tappa del processo evolutivo inizia con la produzione dello zigote. Da questo momento in poi tutto quanto accade non è più casuale ma dipende dalla ''qualità'' del nuovo individuo: solo gli individui più efficienti nel far fronte alle congiunture ambientali sopravviveranno sino all'età della riproduzione e si riprodurranno con successo. Il successo di ciascun individuo è quindi in larga misura determinato dalle sue caratteristiche, basate sul patrimonio genetico. Bersaglio effettivo della selezione è comunque il fenotipo. Per questo certi geni moderatamente nocivi permangono nel pool genico della popolazione: le singole componenti del fenotipo non sono sottoposte separatamente alla selezione ma solo in quanto parti dell'intero organismo. La selezione naturale non elimina soltanto i fenotipi (e quindi i genotipi) meno adatti, ma favorisce quelli più adatti. Poiché gli individui favoriti sono il risultato della ricombinazione alla meiosi, la selezione naturale viene spesso considerata un processo creativo. Ciononostante, il processo selettivo non porta mai alla perfezione; infatti l'e. non è un processo teleologico, ma neppure è un processo deterministico: è soltanto opportunistico, e il suo successo è probabilistico. Infatti a ogni generazione non soltanto i genotipi ma anche le forze selettive mutano, per cui la risposta adattativa dovrà adeguarsi alle diverse situazioni.
Attualmente non esistono più dubbi sul fatto che la vita sulla Terra ha avuto un'unica origine. Circa tre miliardi di anni fa, quando ebbe inizio la vita sulla Terra, c'era un'atmosfera riducente, ricca di ammoniaca, metano e altri gas simili e totalmente priva di ossigeno. Sebbene alcuni passaggi siano ancora oscuri, ora siamo in grado di ricostruire con ragionevole accuratezza l'andamento dell'origine della vita a partire dai precursori abiotici presenti in natura. La teoria della discendenza comune di tutti gli organismi viventi, avvalorata anche dall'universalità del codice genetico (fatta eccezione per il codice mitocondriale; v. codice genetico, in questa Appendice), è stata accettata con grande entusiasmo da zoologi e botanici per il suo straordinario potere esplicativo; generazioni di tassonomi animali e vegetali hanno lavorato per elaborare tutti i dettagli della discendenza. Infatti, secondo questa teoria ci si aspetterebbe la completa continuità tra i vari taxa; gli evoluzionisti ritengono che tale continuità, se non è presente, c'è stata, e che le lacune sono dovute all'estinzione di determinate specie. Questo è quanto si è verificato per Archaeopteryx, anello di congiunzione tra rettili e uccelli, o per Ichthyostega tra pesci e anfibi.
Microevoluzione e macroevoluzione. − Bisogna distinguere i processi evolutivi in microevoluzione e macroevoluzione. L'origine di nuovi taxa superiori e l'acquisizione di nuove caratteristiche, come per es. le ali nel caso degli uccelli o l'adattamento alla vita terrestre nel caso dei tetrapodi o il sangue caldo nel caso degli uccelli e dei mammiferi, costituiscono eventi di tipo macroevolutivo, mentre gli eventi di tipo microevolutivo si verificano fino al livello di specie: speciazione e variazioni di frequenze geniche nelle popolazioni. A livello genetico la differenza tra microevoluzione e macroevoluzione è molto controversa: infatti tutti gli eventi macroevolutivi avvengono all'interno di una popolazione e in particolare a carico del genotipo di singoli individui, dunque sono contemporaneamente eventi microevolutivi. A livello fenotipico, invece, le differenze tra microevoluzione e macroevoluzione sono sostanziali: in quest'ottica gli eventi macroevolutivi non possono essere ricondotti alla microevoluzione. Ciò è in accordo con la moderna definizione di e. intesa come mutamento di caratteristiche adattative e diversificazione, e non solamente come mutamento di frequenze geniche. È noto già da tempo che determinate specie rimangono invariate per cento milioni di anni (i cosiddetti fossili viventi), mentre altre si modificano drasticamente in meno di centomila anni. La moderna teoria cosiddetta degli equilibri intermittenti (punctuated equilibria) di Eldredge e Gould (1972) fu abbozzata per la prima volta da Mayr nel 1942 e poi perfezionata nel 1954.
Questa teoria spiega l'andamento evolutivo naturale che mostra improvvisi cambiamenti alternati a lunghi periodi di stasi: secondo gli autori, i più significativi mutamenti si verificano generalmente durante brevi periodi di speciazione, dopo di che le specie si affermano e rimangono in pratica immutate anche per milioni di anni per poi, in gran parte dei casi, estinguersi. La speciazione sarebbe dunque un processo altamente innovativo, mentre le specie pienamente evolute sarebbero entità relativamente statiche. Inoltre gran parte dei cambiamenti dipenderebbe dalla speciazione di piccole popolazioni locali, di solito isolate e fuori dal territorio continuo della specie.
Prove di questa teoria sarebbero le limitate modificazioni delle specie fossili lungo la sequenza degli strati geologici (che non corrispondono mai all'e. di nuovi taxa) e l'incapacità generale della documentazione fossile di mostrare transizioni graduali da un importante gruppo a un altro, che non dipende da scarsità di reperti. Inoltre il modello per equilibri intermittenti spiega bene sia la presenza dei fossili viventi, che costituiscono uno spinoso problema per le teorie evolutive di tipo gradualistico, sia la ''radiazione adattativa'', e cioè la rapida diversificazione di forme di vita a partire da un antenato comune.
Anche se il dibattito sui meccanismi dell'e. biologica è ancora aperto, solo ulteriori dati di biologia molecolare e paleontologia permetteranno di adottare definitivamente il modello per equilibri intermittenti o quello gradualistico (v. fig.). Comunque va detto che l'approccio evoluzionistico costituisce lo stimolo più efficace affinché la ricerca biologica, a qualsiasi livello si compia, possa raggiungere una visione unitaria.
Bibl.: E. Mayr, Systematics and the origin of species, Magnolia (Mass.) 1942; Id., Changes in genetic environment and evolution, in Evolution as a process, a cura di J. S. Hushley, A. C. Hardy, E.B. Ford, Londra 1954, pp. 157-80; N. Eldredge, S. J. Gould, Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism, in Models in paleobiology, a cura di T. J. M. Schops, San Francisco 1972, pp. 82-115; S. M. Stanley, L'evoluzione dell'evoluzione, trad. it., Milano 1982; D. J. Futuyma, Biologia evoluzionistica, trad. it., Bologna 1985; N. Eldredge, Macroevolutionary dynamics: species, niches and adaptative peaks, New York 1989; L. Margulis, L. Olendzenski, Environmental evolution: effects of the origin and evolution of life on planet Earth, Cambridge (Mass.) 1991; E. Mayr, One long argument: Charles Darwin and the genesis of modern evolutionary thought, ivi 1992.