Evoluzionismo
Uno dei più importanti concetti della storia delle scienze sociali è quello di evoluzione. Nel XIX secolo la sociologia e l'antropologia si erano dedicate prevalentemente allo studio dell'evoluzione delle società umane, dalle forme più semplici e primitive fino a quelle contemporanee. Oggi l'evoluzione sociale è solo una delle molte questioni dibattute da sociologi e antropologi, ma ciò nondimeno essa resta un tema di importanza fondamentale. Forse, anzi, nessun altro concetto ha avuto maggior importanza in tutta la storia delle scienze sociali.
Che cos'è l'evoluzione sociale? Secondo molti evoluzionisti, per evoluzione sociale si intendono quei mutamenti sociali succedutisi seguendo una certa direzione o avvenuti secondo una sequenza lineare. È inoltre generalmente accettato che l'evoluzione sociale riguardi trasformazioni di natura qualitativa più che quantitativa. In altre parole, essa riguarda le trasformazioni verificatesi nel modello o nel tipo di società o di uno dei suoi sottosistemi, non la sua dimensione o diffusione.
Le teorie relative all'evoluzione sociale, delle quali ripercorreremo la storia nel prossimo capitolo, hanno mirato principalmente a identificare e a spiegare la direzione delle sequenze dei mutamenti sociali di natura qualitativa. Molti studiosi hanno sostenuto che le teorie evoluzionistiche presuppongono una sorta di sviluppo teleologico di possibilità latenti nella vita sociale; ma questo nella grande maggioranza dei casi non è vero. È stato anche sostenuto che le teorie evoluzionistiche postulano una rigida sequenza di stadi che tutte le società devono attraversare, mentre escludono la possibilità che si verifichino delle regressioni, come pure che la vita sociale possa subire dei lunghi periodi di stasi. Ma anche questo non è vero. Anzi, molto spesso tali teorie propongono delle tipologie flessibili che conferiscono alla storia un carattere in qualche modo aperto, e assumono che sia la continuità, sia il regresso siano importanti fattori sociali che, al pari dell'evoluzione, devono essere spiegati.
Le teorie dell'evoluzione della società umana risalgono al XVIII secolo, ma è solo nella seconda metà del XIX che esse si sono affermate con vigore. Anzi, questo periodo può a ragione essere considerato una sorta di 'età dell'oro' dell'evoluzionismo sociale. Benché vi siano stati molti sociologi evoluzionisti attivi in questo periodo, per ragioni di spazio sarà possibile prendere in considerazione solo i più importanti: Herbert Spencer, Lewis Henry Morgan, Edward Burnett Tylor, e Karl Marx e Friedrich Engels.
Il sociologo e filosofo sociale inglese Herbert Spencer (v. Peel, 1971 e 1972) formulò una legge generale del mutamento evolutivo, secondo la quale tutti i fenomeni manifesterebbero una tendenza a passare da uno stato di omogeneità incoerente a uno stato di eterogeneità coerente, cioè una tendenza all'incremento della differenziazione. L'evoluzione delle società umane sarebbe soltanto un esempio di come opera questa legge, valida peraltro anche per la terra e per la vita sulla terra, anzi per ogni cosa esistente nell'universo. Spencer, che concepiva l'evoluzione sociale in termini di incremento della differenziazione, utilizzò questo parametro per classificare anche le società. Egli individuò quattro modelli evolutivi delle società umane, che chiamò semplice, composto, doppiamente composto, triplamente composto. Questa classificazione andava dalle società primitive, politicamente prive di un capo, alle civiltà complesse. Spencer individuò anche un'altra tipologia, quella militare-industriale. Le società militari sono caratterizzate dalla subordinazione dell'individuo all'insieme sociale, mentre le società industriali sono quelle nelle quali gli individui godono di maggiore libertà. In generale Spencer riscontrò un movimento evolutivo dalle prime alle seconde.
Lewis Henry Morgan (v., 1877), un antropologo americano, elaborò un diverso concetto di evoluzione sociale: egli individuò nella storia umana tre principali "periodi etnici", che chiamò stato selvaggio, barbarie e civiltà. Si tratta fondamentalmente di stadi di sviluppo tecnologico, durante i quali gli uomini passarono dalle primitive società di cacciatori-raccoglitori a società complesse basate su un'agricoltura avanzata e sulla scrittura. Morgan prese in considerazione anche l'evoluzione del governo, della famiglia e della proprietà. Nella sua analisi delle istituzioni di governo, alla quale dedicò grande attenzione, egli individuò due principali modelli evolutivi: la societas, che comprende le società relativamente democratiche ed egualitarie organizzate in funzione delle relazioni di parentela, e la civitas, i cui principî di integrazione sono invece la proprietà e il territorio; le ineguaglianze sociali ed economiche sono qui ampiamente diffuse, ed esiste ormai lo Stato.
L'antropologo inglese Edward Burnett Tylor è famoso soprattutto per aver utilizzato il concetto di 'sopravvivenze' come base per una dimostrazione delle sequenze evolutive. Le sopravvivenze sono aspetti della cultura che si sono perpetuati in stadi di evoluzione sociale successivi a quello durante il quale ebbero origine. Secondo Tylor esse sono la prova che gli attuali stadi culturali si sono evoluti da stadi precedenti. L'evoluzionismo di Tylor si concentrava, molto più che in Spencer o in Morgan, sull'evoluzione degli aspetti mentali e ideativi della vita sociale, e specialmente sulla religione.
Le analisi di Marx e di Engels erano orientate in modo molto diverso rispetto a quelle di Spencer, Morgan e Tylor. Essi si dedicarono principalmente allo studio dei modi di produzione osservati nella storia mondiale. I modi di produzione costituivano delle concatenazioni di forze produttive (in senso lato, livello di sviluppo tecnologico) e di rapporti di produzione (forme di proprietà delle forze produttive). Nell'Ideologia tedesca (scritta nel 1845-1846) Marx ed Engels individuano quattro fondamentali stadi evolutivi, ognuno associato a un certo rapporto di produzione: il primo è quello del comunismo primitivo, caratterizzato dalla proprietà comune della produzione nell'ambito di gruppi di cacciatori-raccoglitori o di gruppi che praticano una forma rudimentale di agricoltura o di allevamento; lo stadio antico è caratterizzato da un'agricoltura su larga scala e dalla divisione della società in padroni e schiavi; nello stadio del feudalesimo la schiavitù si è trasformata in servitù e i rapporti primari di produzione sono tra proprietari terrieri e servi della gleba; lo stadio successivo è quello del capitalismo, le cui prime avvisaglie si hanno nell'Europa del XVI secolo, ma che si sviluppa nella sua forma moderna (capitalismo industriale) solo nel XVIII secolo. In questo stadio i rapporti di produzione sono tra capitalisti e proletari.
Dopo la morte di Marx, Engels elaborò ulteriormente, e in maniera un po' diversa, le proprie idee in fatto di evoluzionismo. Nel suo famoso Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) riprese molte delle idee di Morgan sull'evoluzione delle relazioni familiari e tra i sessi e sviluppò una teoria sull'origine dello Stato che ne sottolineava il carattere classista. In un'altra sua opera molto più astratta, l'Antidühring (1878), egli formulò due leggi dialettiche del mutamento che, al pari della famosa legge dell'evoluzione di Spencer, erano valide non solo per la società umana ma per qualsiasi cosa esistente nell'universo. Engels le chiamò "legge della trasformazione della quantità in qualità" e "legge della negazione della negazione"; queste leggi richiamano la nozione hegeliana delle "contraddizioni interne" a un fenomeno concepite come motore del movimento da uno stadio storico all'altro.
L''età dell'oro' dell'evoluzionismo sociale nel 1890 era praticamente conclusa e dopo di allora si ebbe una violenta reazione contro le teorie evoluzionistiche. In campo antropologico questa reazione fu capeggiata da Franz Boas e dai suoi seguaci e discepoli, e si protrasse fino agli anni quaranta e cinquanta di questo secolo. La scuola di Boas si opponeva alle teorie evoluzionistiche per quattro ragioni principali (v. Boas, 1940). In primo luogo i boasiani sostenevano che la metodologia di base degli evoluzionisti, il cosiddetto metodo comparativo, era priva di validità sul piano logico dato che utilizzava materiale etnografico (dati meramente sincronici) per ricostruire delle sequenze evolutive che presumibilmente avevano una dimensione storica (e quindi diacronica). In secondo luogo, gli evoluzionisti avevano sviluppato degli schemi rigidi di evoluzione unilineare che presupponevano che tutte le società progredissero passando attraverso la medesima sequenza di stadi. In terzo luogo, gli evoluzionisti non avevano dato il giusto riconoscimento al processo di diffusione, la cui esistenza, ampiamente dimostrata, toglieva efficacia alle loro argomentazioni. Infine, gli evoluzionisti equiparavano evoluzione sociale e progresso umano, denigrando in tal modo alcune culture valutate come stadi evolutivi 'inferiori'. Ragioni di spazio impediscono di esaminare compiutamente queste critiche (per una dettagliata discussione sull'argomento, v. Sanderson, 1990). Nei prossimi capitoli esse verranno riprese nel contesto di una più generale discussione dei punti principali relativi alla teoria evoluzionistica. Basterà per il momento dire che l'unica critica che ha un qualche fondamento è quella relativa all'equiparazione di evoluzione e progresso, ma anche questa deve essere meglio precisata.
Negli anni trenta l'estremo particolarismo storico che era stato fatto proprio dalla scuola antropologica di Boas cominciò a esser messo in discussione, mentre si manifestava una certa rinascita dell'evoluzionismo promossa dall'archeologo australiano V. Gordon Childe. In una serie di libri Childe (v., 1936, 1951 e 1954²) presentò una sua versione di quella che egli riteneva la visione evoluzionistica marxista della storia. Mettendo l'accento sui mutamenti tecnologici di vasta portata caratteristici della preistoria umana, egli individuò due grandi rivoluzioni tecnologiche avvenute in diverse regioni del mondo: la rivoluzione neolitica introdusse la domesticazione di piante e animali, dando agli uomini la possibilità di accumulare un surplus economico e preparando in tal modo la strada per la seconda rivoluzione, la rivoluzione urbana. Quest'ultima implicava un passaggio a forme di società umane molto più complesse, caratterizzate da specializzazione nell'attività lavorativa, da nette divisioni di classe, dall'urbanesimo e dalla nascita dello Stato.
A partire dagli anni quaranta l'antropologo americano Leslie White (v., 1943, History ..., 1945, 1947 e 1959) elaborò una versione dell'evoluzionismo sociale simile a quella di Childe. White riteneva che lo scopo delle teorie evoluzionistiche non fosse quello di cercar di spiegare certe sequenze specifiche di mutamenti storici (che era ciò che si proponeva la scuola di Boas), quanto quello di comprendere il movimento generale della cultura umana nel suo insieme. Per spiegare questa evoluzione, egli formulò una legge secondo la quale la cultura si evolve proporzionalmente alla quantità di energia utilizzata annualmente pro capite, ovvero in base all'aumento di efficienza con la quale questa energia viene utilizzata. In altre parole, il cambiamento tecnologico rappresenta la forza motrice dell'evoluzione culturale.
L'antropologo americano Julian Steward, il terzo protagonista di questa rinascita dell'evoluzionismo, reagì contro le concezioni evoluzionistiche di Childe e White - che egli definì evoluzione universale - considerate troppo generali ed eccessivamente semplificate. In alternativa egli propose quella che definì evoluzione multilineare (v. Steward, 1955), una teoria meno centrata sul movimento generale della storia e caratterizzata da una maggiore attenzione per le diverse linee lungo le quali si muove l'evoluzione sociale. Steward riconosceva l'esistenza di ampi parallelismi nei mutamenti storici, ma riteneva che non dovessero essere sopravvalutati. Vi erano inoltre molte linee differenti lungo le quali si irradiava l'evoluzione, che non potevano essere ignorate.
Anche nel campo della sociologia si verificò una sorta di rinascita dell'evoluzionismo, pur se un poco più tardi. Tale rinascita fu promossa dal sociologo Talcott Parsons, il quale si propose di applicare le sue concezioni funzionaliste a una teoria dell'evoluzione sociale (v. Parsons, 1966 e 1971). Egli individuò tre stadi evolutivi: le società primitive, caratterizzate da scarsa differenziazione e la cui vita sociale era centrata sulle relazioni di parentela; le società intermedie, molto più differenziate, e integrate dallo Stato e da istituzioni religioso-ecclesiastiche piuttosto che dalla parentela (Egitto e Mesopotamia rappresentano dei buoni esempi di queste società anche se nella loro forma più semplice; una versione più complessa ed elaborata, che Parsons chiamò degli imperi storici, è offerta da Cina, India, Roma antica e Impero ottomano; il terzo tipo di società è quello della società moderna, che cominciò a prendere forma nell'Europa nordoccidentale nel XVI secolo ma che raggiunse il suo completo sviluppo dopo la rivoluzione industriale. Le società moderne, presenti attualmente in tutto il mondo occidentale e in Giappone, sono caratterizzate da economie di tipo industriale, da forme di governo democratico, da elaborati sistemi di istruzione e dalla grande importanza attribuita all'individualità e al successo personale. Per Parsons l'ingrediente critico dell'evoluzione sociale è l'incremento della differenziazione. Le società sviluppano parti sempre più elaborate, e queste parti sono allo stesso tempo separate e integrate fra loro. Col progredire dell'evoluzione, le società registrano un "avanzamento adattativo", ovvero un generale miglioramento nel loro livello di funzionamento.
A partire dal 1960 circa sono stati compiuti una serie di importanti studi di tipo evoluzionistico da parte di antropologi americani, che molto spesso risentono dell'influsso di Childe e White. Marshall Sahlins (v., 1958) ha scritto un significativo libro sull'evoluzione della stratificazione sociale, chiaramente influenzato dall'importanza attribuita alla tecnologia da Childe e White. Egli ha anche pubblicato un rilevante articolo (v. Sahlins, 1960) nel quale opera una distinzione tra evoluzione generale ed evoluzione specifica, intendendo con la prima l'andamento generale dello sviluppo storico, e con la seconda il più specifico irradiamento della cultura e della società lungo molte linee. Sahlins ha sottolineato il fatto che ambedue questi aspetti dell'evoluzione, dato che rappresentano le due facce della stessa medaglia, devono essere indagati a fondo.
Elman Service (v., 1971 e 1975) e Robert Carneiro (v., 1970 e 1981) hanno fornito importanti contributi allo studio dell'evoluzione politica. Per caratterizzare quest'ultima, Service ha proposto la tipologia 'banda-tribù-dominio-Stato', che è stata ampiamente utilizzata nella ricerca etnografica e archeologica. L'evoluzione da uno stadio all'altro rappresenta un avanzamento verso sistemi politici più gerarchici e complessamente integrati. La teoria di Service può essere considerata in qualche modo funzionalista in quanto per essa le nuove forme politiche si evolvono grazie alla loro maggiore efficacia funzionale. Carneiro, invece, per spiegare l'evoluzione dei domini e degli Stati ha proposto una teoria del conflitto o della coercizione. Egli ritiene che la pressione demografica e la guerra contribuiscano a sviluppare sistemi politici più complessi in aree ambientalmente circoscritte, vale a dire in aree nelle quali il movimento delle popolazioni è impedito da barriere naturali quali catene di montagne, oceani o deserti. All'aumentare della pressione demografica e delle guerre alcune popolazioni, non essendo in grado di migrare, finiscono con l'essere conquistate e assoggettate da altri gruppi. Ne risulta un aumento della potenza e della complessità dei sistemi politici.
Gerhard Lenski (v., 1966 e 1970), per formazione un sociologo, ha messo a punto una ben nota teoria dell'evoluzione sociale che può in larga misura essere considerata un'estensione e un'elaborazione delle idee di Childe e White. Lenski considera l'espansione della tecnologia come il principale fattore che mette in moto il processo di evoluzione sociale: è grazie a tale fattore che le economie divengono più produttive e che si vengono a creare delle eccedenze. Questi cambiamenti tecnologici si ramificano in tutta la vita sociale e determinano fondamentali trasformazioni evolutive. Una delle più importanti applicazioni di questa teoria è stata il suo adattamento all'evoluzione della stratificazione sociale.
Marvin Harris (v., 1968, 1977 e 1979) ha invece proposto una concezione dell'evoluzione sociale molto diversa. Non solo egli non ritiene che la tecnologia rappresenti il motore propulsore dell'evoluzione sociale, ma anzi a suo avviso lungo tutto il corso della storia la maggior parte dei popoli si è opposta ai cambiamenti tecnologici a causa dei maggiori costi in termini di tempo e di energia che essi comportano. Ciò che spinge avanti l'evoluzione sociale è la tendenza degli uomini a subire un abbassamento del tenore di vita in conseguenza della pressione demografica e del degrado ambientale. Le persone devono allora lavorare più a lungo e più intensamente e infine migliorare la propria tecnologia - devono cioè intensificare la produzione - in modo da evitare che il loro tenore di vita subisca un nuovo abbassamento. Ma questi cambiamenti causano un ulteriore (e anche maggiore) impoverimento, e quindi il processo impoverimento-intensificazione-impoverimento continua. Come vedremo, a differenza di Lenski e della maggior parte degli altri evoluzionisti, nell'evoluzionismo di Harris si può individuare una tendenza antiprogressista.
Attualmente la situazione della sociologia e dell'antropologia è complessa. Negli ultimi anni si è riscontrata una sostanziale reazione contro le teorie generali del mutamento storico, e molti studiosi adesso ritengono di poter proporre solo teorie circoscritte a situazioni e percorsi storici specifici. Ciò ha determinato un deciso calo di fiducia nei confronti di qualsiasi tipo di teoria evoluzionistica. Anzi, alcuni studiosi di scienze sociali, come l'inglese Anthony Giddens (v., 1981 e 1984), hanno avanzato delle severe critiche nei confronti dell'evoluzionismo (per una dettagliata discussione sull'argomento, comprendente anche le risposte alle critiche più recenti, v. Sanderson, 1990, cap. 9). Ciò nonostante, molti sociologi e antropologi continuano a impegnarsi in analisi evoluzionistiche e la ricerca sull'evoluzione sociale non è stata certo abbandonata. Questo è specialmente vero nel caso dell'antropologia e dell'archeologia. L'archeologia ha da molto tempo fatto proprio l'indirizzo evoluzionista, e anche se alcuni archeologi se ne sono allontanati, la maggior parte di essi rimangono in questo ambito.
Forse la domanda più assillante in relazione al concetto di evoluzione sociale è la seguente: la storia umana si è svolta seguendo una precisa direzione? e fino a che punto? Poniamo la domanda in termini più chiari. Gli storici tradizionali sostengono da lungo tempo che gli eventi storici sono avvenimenti unici dei quali deve essere data una spiegazione nei loro stessi termini. La storia non mostra alcuna direzione generale, e pertanto gli evoluzionisti sociali presuppongono l'esistenza di qualcosa che in realtà non esiste. In anni recenti alcuni sociologi con un orientamento più storico hanno assunto un punto di vista analogo, divenendo anch'essi molto scettici in fatto di teorie evoluzionistiche (v. Nisbet, 1969; v. Mann, 1986).
La risposta degli evoluzionisti sociali è stata fondamentalmente quella di rivendicare ciò che aveva sostenuto Childe (v., 1951) molti anni fa: se trascuriamo molti dettagli e concentriamo la nostra attenzione su lunghi periodi della preistoria, possiamo individuare diversi schemi generali che vanno in una certa direzione. Secondo gli evoluzionisti contemporanei, il più importante di tutti è stato la rivoluzione neolitica: essa è collegata all'organizzarsi in villaggi stabili - circa 10.000 anni fa - della vita, basata sull'agricoltura, e alla nascita - circa 5.000 anni fa - della civiltà e dello Stato, cosa che comportò la creazione di un tipo di società totalmente nuovo. Ambedue questi eventi si sono verificati contemporaneamente in tutto il mondo.
Gli evoluzionisti sociali sostengono anche la totale infondatezza della critica secondo la quale le teorie evoluzionistiche hanno sempre natura unilineare - cioè esse sosterrebbero che tutte le società passano attraverso le stesse sequenze di stadi per arrivare alla stessa meta. È vero che gli evoluzionisti del XIX secolo avevano una concezione della storia decisamente (anche se non completamente) unilineare, ma la maggioranza degli evoluzionisti contemporanei riconosce esplicitamente l'esistenza di diversità e divergenze nella storia. Essi riconoscono, come già Sahlins alcuni anni addietro, che l'evoluzione sociale ha avuto esiti sia generali che specifici. Per usare la terminologia di Harris (v., 1968), essi riconoscono che l'evoluzione può essere parallela, convergente e divergente. Le società non seguono solo strade parallele, ma pur muovendo da punti di partenza diversi esse convergono, oppure divergono pur muovendo da analoghi punti di partenza.
Studiosi quali Maurice Mandelbaum (v., 1971), Robert Nisbet (v., 1969) e Anthony Giddens (v., 1984) sostengono che le teorie evolutive si basano su una logica esplicativa fondata sullo sviluppo (v. Sanderson, 1990); vale a dire che esse considerano l'evoluzione sociale come una successione logica di passaggi sequenziali, predeterminata al momento stesso del suo inizio. Questa nozione è strettamente correlata a quella di spiegazione teleologica, una spiegazione, cioè, che mette in rilievo la tendenza della storia a realizzare qualche fine prestabilito. Mandelbaum, Nisbet e Giddens rifiutano le spiegazioni fondate sullo sviluppo e teleologiche, sostenendo invece che quali che siano le tendenze della storia esse devono essere spiegate in termini di funzionamento di meccanismi causali ordinari (la cosiddetta spiegazione causale ordinaria, v. Sanderson, 1990).
In realtà, sembra che gli evoluzionisti del XIX secolo accettassero la spiegazione fondata sullo sviluppo. Spencer, per esempio, aveva formulato la sua grandiosa legge evolutiva valida per tutto ciò che esisteva nel cosmo, e Morgan parlava dello sviluppo di successivi modelli sociali dai primi "germi di pensiero". Tuttavia essi non si limitarono a questo tipo di spiegazione, perché utilizzarono anche la spiegazione causale ordinaria. Spencer attribuì un ruolo importante nell'evoluzione sociale a fattori quali la pressione demografica e la guerra, e più in generale può essere considerato una sorta di materialista. Morgan e Tylor erano fondamentalmente eclettici, ma spesso dimostrarono una propensione idealistica, tanto da attribuire all'espansione delle capacità della mente umana il ruolo di principale forza propulsiva dell'evoluzione sociale.
Tuttavia, se prendiamo in esame l'evoluzionismo di Marx ed Engels o le versioni contemporanee dell'evoluzionismo, la spiegazione basata sullo sviluppo non sembra affatto abbandonata. Marx ed Engels non avevano una concezione della storia basata sullo sviluppo o teleologica, ma avevano attribuito ai cambiamenti dei modi di produzione (conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione, lotta di classe, ecc.) un ruolo fondamentale per spiegare l'evoluzione sociale. E gli evoluzionisti contemporanei, con l'eccezione di Talcott Parsons nel quale è possibile individuare una sorta di logica dello sviluppo, basano le loro spiegazioni sui meccanismi causali ordinari. Childe, White e Steward erano materialisti. Secondo Childe e White la tecnologia è la forza propulsiva dell'evoluzione sociale, mentre Steward attribuì importanza primaria ai fattori ecologici. Anche nell'evoluzionismo di Lenski ritroviamo la stessa rilevanza della tecnologia presente in Childe e White. Carneiro e Harris possono essere considerati entrambi materialisti che hanno attribuito priorità causale ai fattori demografici, ecologici, tecnologici ed economici. Da tutto ciò risulta chiaramente che nell'evoluzionismo contemporaneo, perlomeno in antropologia, la tradizione materialistica ha avuto un ruolo predominante (in Parsons e nei suoi seguaci, invece, si riscontra una prevalenza della tradizione idealistica).
Come ha notato Anthony Giddens (v., 1984), il concetto di adattamento ha costituito, implicitamente o esplicitamente, un elemento essenziale delle teorie evoluzionistiche. Giddens deplora questo fatto e, come altri, lo utilizza per confutare l'evoluzionismo. Sia Giddens che Irving Zeitlin (v., 1973) sostengono che il concetto di adattamento è inestricabilmente connesso al funzionalismo e a tutti i suoi errori. Giddens sostiene addirittura che tale concetto spesso è usato in maniera così generica da perdere qualsiasi significato, e che esso implica una tendenza universale dell'uomo al dominio, che in realtà non esiste.
Per rispondere a Giddens bisogna in primo luogo riconoscere che, nel caso di alcune teorie evoluzionistiche, queste critiche hanno un fondamento reale. Tuttavia non c'è niente di sbagliato nel concetto di adattamento in sé, a patto di usarlo in modo appropriato. Questo punto risulta con chiarezza dal confronto delle teorie evoluzionistiche di Talcott Parsons e Marvin Harris. Parsons usa questo concetto in modo decisamente funzionalista, e pertanto risulta estremamente vulnerabile alle critiche di Giddens. Secondo Parsons è sempre una intera società (o uno dei suoi principali sottosistemi) a realizzare l'adattamento, sforzandosi di migliorarne il livello. L'evoluzione sociale è un processo in base al quale le società vanno incontro a un "avanzamento adattativo", cioè a un miglioramento nel loro livello di funzionamento. Anche la nozione di adattamento è vaga in Parsons. Egli sostiene che le società si adattano al loro ambiente, ma non è affatto chiaro cosa egli intenda. Inoltre, egli presuppone una universale aspirazione degli uomini al dominio, che li spingerebbe a portare le loro società verso livelli sempre più alti di efficacia funzionale.
Harris utilizza la nozione di adattamento in modo totalmente diverso. A suo parere, sono gli individui e non l'intero sistema sociale a portare avanti il processo di adattamento, che è visto pertanto in una prospettiva non funzionalista. Harris ha una concezione dell'adattamento fondamentalmente euristica. Egli ritiene che siano gli sforzi degli individui per soddisfare i propri bisogni e le proprie esigenze a dar origine a particolari ordinamenti sociali. In tal modo il concetto di adattamento diviene un punto di partenza per l'analisi sociale, una base per porsi utili domande. Harris evita di utilizzare questo concetto in modo vago, specificando non solo chi si fa carico di portare avanti il processo, ma anche a che cosa si cerca di adattarsi e quali sono i bisogni e le esigenze che si tenta di soddisfare attraverso questo processo. Infine, Harris non presuppone alcun desiderio universale di dominio da parte degli uomini. Durante tutta la durata della storia e della preistoria gli uomini hanno cercato di opporsi ai cambiamenti dei loro ordinamenti sociali, e hanno superato questa resistenza solo quando vi sono stati costretti da circostanze particolari, quali la pressione demografica o il degrado ambientale. I nuovi ordinamenti sociali non sono necessariamente superiori ai precedenti da un punto di vista adattativo, non c'è alcun "avanzamento adattativo" insito nell'evoluzione sociale. I nuovi ordinamenti rappresentano delle risposte al mutare delle circostanze, e sono adattativi solo in rapporto a quelle particolari circostanze (non in modo più generale o assoluto).
L'uso che è stato fatto del concetto di adattamento dalla maggior parte degli evoluzionisti sociali si colloca in genere tra i due estremi rappresentati da Parsons e Harris. In altre parole, essi sono in parte riusciti a utilizzarlo in modo adeguato, ma non a evitare alcune trappole. Ad ogni modo va riconosciuto che il concetto può risultare estremamente utile per l'analisi evoluzionistica, bisogna solo imparare ad avvalersi del suo impiego corretto evitando gli errori. (Per una più approfondita discussione sul concetto di adattamento, v. Sanderson, 1990, pp. 180-190).
Anche il concetto di progresso è stato considerato fondamentale per l'evoluzionismo e, al pari del concetto di adattamento, è stato utilizzato per confutarlo. È stato detto che le teorie evoluzionistiche presuppongono che l'evoluzione sociale implichi il miglioramento della condizione umana e una maggiore efficienza nel funzionamento della società.
Bisogna riconoscere che questa critica è abbastanza fondata. Gli evoluzionisti del XIX secolo sono noti per le loro posizioni decisamente ispirate al concetto di progresso, che sono la conseguenza del loro convinto etnocentrismo. E anche se la componente 'progressista' si è notevolmente ridimensionata e più precisamente definita in molte delle versioni moderne dell'evoluzionismo, essa ancora sopravvive. Childe e White ritenevano che l'espansione tecnologica comportasse un generale miglioramento della qualità della condizione umana, e Lenski ha perpetuato questa idea fino ai nostri giorni. Marshall Sahlins ha sostenuto che l'evoluzione generale porta a un incremento della "adattabilità complessiva", e Service ritiene che l'evoluzione dello Stato segni un deciso miglioramento del funzionamento politico delle società umane. Parsons può essere considerato ancor più 'progressista', dato che ritiene che le società moderne rappresentino il più alto stadio raggiunto finora dagli uomini, e che gli Stati Uniti siano la "nuova società-guida della modernità". Il 'progressismo' è stato senz'altro l'atteggiamento dominante durante tutta la storia dell'evoluzionismo sociale.
Tuttavia non esiste alcun legame intrinseco tra concezioni 'progressiste' ed evoluzioniste. È senz'altro possibile essere un evoluzionista e rifiutare l'idea che la storia umana sia stata sempre un processo ascendente come dimostra - ancora una volta - Marvin Harris. Infatti il suo è un evoluzionismo 'antiprogressista'. Il motore propulsore dell'evoluzione sociale è quella spirale di impoverimento ecologico e intensificazione della produzione che abbiamo ricordato in precedenza. Gli uomini mettono a punto nuovi modi di vivere principalmente perché sono costretti a farlo a causa dell'abbassamento del loro tenore di vita. Ma la documentazione relativa all'evoluzione sociale mostra che ogni nuovo modo di produzione è associato non a un più alto, bensì a un più basso tenore di vita. I primi orticoltori stavano in certo senso peggio dei cacciatori-raccoglitori che li avevano preceduti, e gli agricoltori stavano a loro volta peggio degli orticoltori.In conclusione, i critici dell'evoluzionismo hanno ragione quando affermano che una visione 'progressista' della storia umana non è sostenibile (v. Sanderson, 1990, pp. 201-203), ma ciò non implica un rifiuto totale dell'evoluzionismo.
Un argomento di vecchia data contro le teorie evoluzionistiche è che esse si basano su una concezione insostenibile, e cioè che tutti i mutamenti si producono all'interno delle società. Ma dal momento che le società interagiscono ed esercitano una grande influenza l'una sull'altra, gran parte delle trasformazioni in realtà ha origine esterna e non interna (v. Nisbet, 1969).
I seguaci di Boas all'inizio del secolo hanno fatto grande affidamento su argomentazioni di questo tipo, che si sono protratte fino ai nostri giorni (v. Mandelbaum, 1971). Essi hanno sostenuto che gli evoluzionisti del XIX secolo avevano ignorato la questione della diffusione - cioè che una società mutua elementi della cultura e della vita sociale da un'altra società - e che ciò toglieva validità alle loro argomentazioni. Leslie White (v., Diffusion vs. ..., 1945) riprese questa tesi parecchi anni fa e mostrò come essa fosse fondamentalmente falsa: gli evoluzionisti del XIX secolo erano perfettamente consapevoli del ruolo giocato dalla diffusione e seppero integrarlo con successo all'interno dei loro schemi evoluzionistici. Essi, ad esempio, riconoscevano che una società poteva mutuare da un'altra società degli elementi che avrebbe altrimenti potuto sviluppare autonomamente; sapevano anche che la diffusione era un processo altamente selettivo, nel senso che la scelta di ciò che una società mutuava da un'altra non era casuale. White, insomma, mise in chiaro come i primi evoluzionisti avessero preso in considerazione sia le cause esogene che quelle endogene dell'evoluzione sociale.
Ciò che è valido nel caso dei primi evoluzionisti lo è anche, a maggior ragione, per gli evoluzionisti a noi più vicini nel tempo. Pur attribuendo un ruolo prioritario alle influenze endogene, tutti i moderni evoluzionisti (Parsons rappresenta un caso un po' speciale) riconoscono anche l'importanza delle cause esogene. Nella teoria di Carneiro relativa alla nascita dello Stato, per esempio, questo avrebbe avuto origine dalle interazioni militari tra le società e al loro interno, in situazioni ambientali ben delimitate, ed anche a causa del fatto che alcune società ne conquistavano altre, subordinandosele. Nella teoria di Carneiro le influenze esogene non solo sono importanti, ma giocano un ruolo cruciale.
Negli ultimi anni ha avuto notevole diffusione la teoria del sistema-mondo messa a punto da Immanuel Wallerstein (v., 1974-1989). Questa teoria, relativa allo sviluppo del moderno mondo capitalista, attribuisce alle relazioni tra le società un'importanza molto maggiore rispetto a ciò che avviene all'interno di una determinata società. È stato detto che questa teoria rappresenta un tipo di evoluzionismo (v. Sanderson, 1990 e 1991), e alcuni studiosi la applicano ora anche ai primi periodi della storia e alla preistoria; essi si considerano in qualche modo degli evoluzionisti (v. Chase-Dunn e Hall, 1991). È quindi chiaro che le teorie evoluzionistiche attribuiscono importanza sia alle influenze esogene che a quelle endogene; anzi, le migliori tra queste teorie cercano di stabilire il giusto equilibrio tra fattori endogeni e fattori esogeni nelle varie fasi dell'evoluzione.
Nel mettere a punto i loro schemi, gli evoluzionisti del XIX secolo si avvalevano in modo massiccio del cosiddetto metodo comparativo, cosa che veniva pesantemente criticata dai seguaci di Boas. Il metodo comparativo implica l'uso di dati etnografici relativi a tipi molto diversi di società, per elaborare una tipologia evolutiva che si presume rappresenti la reale sequenza storica lungo la quale i diversi tipi di società si sono sviluppati. Gli evoluzionisti più recenti, come Nisbet (v., 1969), hanno continuato a muovere questa critica sostenendo, al pari della scuola di Boas, che il metodo comparativo implica delle inferenze troppo ardite per essere giustificate. L'uso del metodo comparativo è stato difeso, tra gli altri, da Harris (v. 1968), Carneiro (v., 1973) e Service (v., 1971). Harris ha notato che il metodo è irreprensibile in linea di principio, anche se si presta a essere usato impropriamente, e che questo stesso tipo di metodo è stato usato da biologi evoluzionisti e astronomi per organizzare i loro dati: perché mai, allora, il suo uso non dovrebbe esser lecito nelle scienze sociali? Una conclusione realistica che se ne potrebbe trarre è che il metodo comparativo è giustificato fintantoché le tipologie evolutive elaborate sulla base dei dati etnografici mostrino una buona corrispondenza con tipologie storiche elaborate in altro modo, cioè con quelle delineate dagli archeologi e dagli storici. E questo è esattamente ciò che avviene nei migliori lavori degli evoluzionisti contemporanei. Anche se il rapido aumento delle conoscenze prodotto dalla ricerca archeologica negli ultimi decenni rende il metodo comparativo meno necessario di quanto non fosse un tempo (v. Lenski, 1976), è tuttora un importante strumento metodologico e continuerà a essere utilizzato. (L'ottimo lavoro di Johnson ed Earle - v., 1987 -, frutto della collaborazione tra un antropologo culturale e un archeologo, rappresenta un buon esempio di studio recente basato in gran parte sul metodo comparativo).
L'enorme successo della biologia evolutiva ha spinto molti evoluzionisti sociali a tentare di stabilire dei parallelismi tra l'evoluzione sociale e quella biologica. Anzi, si è spesso cercato di andare ancora oltre e di elaborare delle teorie dell'evoluzione sociale sulla base dei dati dell'evoluzione biologica (v. Campbell, 1965; v. Langton, 1979; v. Cavalli-Sforza e Feldman, 1981), o addirittura di sviluppare delle teorie che dimostrassero la dipendenza dell'evoluzione sociale dall'evoluzione biologica (le cosiddette teorie coevoluzionistiche: v. Lumsden e Wilson, 1981; v. Boyd e Richerson, 1985).
Esistono certamente alcune somiglianze tra l'evoluzione sociale e quella biologica. In ambedue i casi si tratta di processi adattativi, per cui nelle teorie sviluppate dalle due discipline il concetto di adattamento ha certamente primaria importanza. Inoltre, in tutt'e due le forme di evoluzione esiste una caratteristica 'duplice' messa in evidenza da Sahlins, cioè una tendenza a procedere in una certa direzione e una quantità di irraggiamenti specifici. Vi sono però anche delle importanti differenze che sembrano indicare come sia un errore prendere l'evoluzione biologica a modello dell'evoluzione sociale.
In primo luogo, l'evoluzione biologica nella maggior parte dei casi implica una evoluzione specifica (divergente), mentre quella sociale implica un'evoluzione generale (parallela e convergente). I biologi evoluzionisti studiano in prevalenza l'evoluzione di forme di vita uniche, mentre i sociologi si dedicano per lo più allo studio di modelli sociali largamente simili fra loro. In secondo luogo, anche se i due tipi di evoluzione possono essere considerati dei processi di selezione naturale, esistono tra di essi delle differenze fondamentali relativamente a come opera la selezione naturale. Nell'evoluzione biologica la variazione sulla quale opera la selezione naturale è una mutazione genetica, che è un processo casuale. Nell'evoluzione sociale non esiste alcunché di equivalente, anzi i dati in nostro possesso sembrerebbero indicare che la grande maggioranza delle variazioni che si riscontrano nei modelli sociali e culturali sono il risultato degli sforzi prestabiliti e deliberati degli esseri umani. In terzo luogo, l'evoluzione biologica è un processo estremamente lento in confronto all'evoluzione sociale. Infine, nell'evoluzione biologica non esiste niente di analogo al processo di diffusione presente invece nell'evoluzione sociale. Gli organismi non sono in grado di scambiarsi geni per adattarsi ai mutamenti ambientali.
Lo studio dell'evoluzione sociale è stato portato avanti con serietà per ormai più di un secolo e mezzo, anche se come abbiamo visto vi sono stati dei periodi di interruzione. Negli ultimi cinquant'anni è stato portato a termine un tale numero di studi da parte degli studiosi della società - sociologi, etnologi, archeologi, ecc. - che adesso disponiamo di un notevole bagaglio di conoscenze. Sappiamo molto sull'evoluzione delle antiche comunità agricole, sull'evoluzione della civiltà e dello Stato, sulla nascita del mondo industriale moderno e capitalista. Grazie all'accumularsi delle conoscenze in campo etnografico e all'uso del metodo comparativo ci è in gran parte nota l'evoluzione di molti dei settori e dei sottosistemi delle società umane, specie per quanto riguarda la tecnologia, i sistemi economici, le forme politiche, la famiglia e le relazioni di parentela, la religione, i rapporti tra i sessi e la stratificazione sociale. Abbiamo ancora molto da imparare, ma il progresso fatto in questi campi dagli evoluzionisti sociali è stato notevole. (Una gran parte delle conoscenze sull'evoluzione sociale è compendiata in Sanderson, 1987; v. anche Harris, 1979, pp. 77-114; v. Lenski e altri, 1991).
Oltre all'indagine su molti argomenti di maggiore o minore rilevanza, una delle cose più importanti che rimane da fare è l'elaborazione di una teoria dell'evoluzione sociale allo stesso tempo esauriente e sintetica. Questo ci permetterebbe di tentare di interpretare la lunga storia dell'evoluzione sociale, dai suoi albori ai giorni nostri. Gli antropologi sono riusciti a fornire un soddisfacente resoconto dell'evoluzione sociale nelle società preindustriali e precapitaliste, e i sociologi hanno svolto un lavoro teorico di grande importanza sull'evoluzione del mondo industriale e capitalista moderno, a partire dalle sue origini nel XVI secolo. Tuttavia, nessuno finora è riuscito a compendiare queste conoscenze in un unico quadro interpretativo coerente, e questa è la grande sfida che dobbiamo affrontare. È probabile che ben presto le interpretazioni in chiave evoluzionistica della società umana torneranno a godere di grande popolarità, e possiamo pertanto guardare al futuro con fiducia nella convinzione che sapremo assolvere questo importante compito.
(V. anche Darwinismo sociale; Evoluzione culturale umana, processi della).
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