RAIMONDI, Ezio
RAIMONDI, Ezio. – Nacque a Lizzano in Belvedere (Bologna) il 22 marzo 1924, da Adolfo e da Adelfa Fioresi, in una famiglia poverissima.
Dopo avere conseguito il diploma di abilitazione magistrale e, nel 1941, la maturità classica, si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna, laureandosi il 23 ottobre 1945 con una tesi su Francesco Petrarca. Fin dal 1947 pubblicò i primi lavori di carattere letterario su Convivium e Studi petrarcheschi, due riviste dirette da Carlo Calcaterra, suo relatore di tesi, dedicati, oltre che a Petrarca, agli umanisti Girolamo Claricio e Francesco Filelfo, ad Alfieri, Leopardi, Verga. Formatosi in una Bologna da sempre periferica rispetto all’idealismo, ebbe modo di frequentare, oltre a Calcaterra, che idealmente gli trasmise il rigore documentario e l’impegno erudito della Scuola storica torinese, anche personalità eccentriche e geniali quale Roberto Longhi, da cui apprese, applicata ai manufatti artistici, la filologia e la critica del testo.
In un dopoguerra culturalmente rigoglioso ma confuso, Raimondi cominciò a riconoscere accordi e scambi fra discipline contigue e a saggiarne le concordanze dei diversi metodi. Appena finita la guerra si imbatté nelle opere di Martin Heidegger, leggendole di prima mano quando ancora in Italia ben pochi ne conoscevano il nome. Negli anni Cinquanta, quando le Annales non erano ancora diventate una sorta di mito per gli storici, leggeva le opere di Lucien Febvre non ancora tradotte. Intanto, attraverso sia la romanistica sia la storia dell’arte prese l’abitudine, con la mediazione di Ernst Robert Curtius e Henri Focillon, di considerare il testo letterario quale sistema di relazioni.
L’ardimento sperimentale di Raimondi si può cogliere fin dal suo primo libro, Codro e l’Umanesimo a Bologna (Bologna 1950), un tema suggeritogli da Calcaterra che, reduce dalla stesura di una storia dell’Università di Bologna (Alma mater Studiorum, Bologna 1948), gli propose di studiare appunto il metodo filologico di Antonio Cortesi Urceo, detto Codro. Il risultato non fu però limitato alla semplice analisi linguistica delle opere dell’estroso umanista, perfettamente integrata con una ricerca storica di forte impronta antropologica che, con piglio narrativo e drammatico – e se si vuole antiaccademico –, metteva già a frutto le letture di Huizinga e di Febvre, fautore di una «histoire à part entière».
Dopo la monografia su Codro Raimondi si adeguò allo stile accademico, ma le forti tensioni di una critica letteraria «desiderosa di riprendere contatto con il fronte in movimento delle scienze umane» (Politica e commedia, Bologna 1972, p. 7) rimasero sempre e tralucono nei sottintesi più laconici, soprattutto nei lavori su Muratori, Manzoni e Tasso o in certe opzioni per la critica simbolica, dove permane la sfida lanciata ai testi per coglierne il senso più profondo. Non pochi lavori di Raimondi riverberano fin sul titolo l’irrequietezza ermeneutica: da Rinascimento inquieto (Palermo 1965; poi Torino 1994) a un capitolo del Romanzo senza idillio (Torino 1974), consacrato a Manzoni e denominato «La ricerca incompiuta».
Se le prime pubblicazioni si muovono ancora, sia pure con una diversa impostazione, sulla scia di Calcaterra (Petrarca, la storia dell’Università di Bologna, Alfieri), dalla metà degli anni Cinquanta esse si orientarono verso nuove direzioni. In quel decennio Raimondi fu professore di ruolo nell’istituto magistrale Laura Bassi di Bologna e nel contempo assistente volontario e lettore all’Università di Bologna, presso la quale conseguì l’abilitazione alla libera docenza in letteratura italiana. In quegli anni fece la conoscenza di Gianfranco Contini che, avendo apprezzato il libro su Codro, gli propose di collaborare alla sua antologia dei Poeti del Duecento (Milano-Napoli 1960). Il rapporto con Contini si fece particolarmente stretto tra il 1952 e il 1954, quando Raimondi, avendo ottenuto per concorso un comando presso l’Accademia della Crusca, fu esentato dall’insegnamento bolognese e distaccato a Firenze per attendere all’edizione critica dei Dialoghi di Torquato Tasso, che uscì a Firenze nel 1958.
Rispetto a quella di Cesare Guasti, la nuova edizione concesse maggior rilievo ai manoscritti dei singoli dialoghi, le cui storie testuali sono spesso diverse e indipendenti le une dalle altre, rispetto alle stampe unitarie che, pubblicate senza l’approvazione di Tasso, sfuggirono al suo controllo e di conseguenza non ne rispecchiarono la volontà.
Dopo questo cimento filologico Raimondi, che nel frattempo si era sposato il 1° ottobre 1955 con Maria Pession, ricevette l’incarico di allestire un’antologia di Trattatisti e narratori del Seicento, uscita nel 1960. L’occasione gli diede modo di studiare a fondo l’età barocca, i cui risultati furono raccolti in Letteratura barocca (Firenze 1961 e 1982) e Anatomie secentesche (Pisa 1966).
In quel tempo la critica letteraria era ancora condizionata dai luoghi comuni che crocianamente volevano il Seicento un’età di decadenza. I saggi raimondiani, sorretti dall’«ipotesi di una storia letteraria a impianto sociologico», innovarono profondamente il concetto di Barocco, ricondotto «alle sue dimensioni concrete» attraverso una dialettica pluralistica in cui risolvere «la storia delle idee, il gioco della sensibilità, la sperimentazione delle forme, le figure della vita morale» (ibid., p. XII). Di particolare rilevanza fu l’attenzione dedicata a Emanuele Tesauro, rivelatosi in nulla inferiore a un Baltasar Gracián o ai massimi intellettuali europei del tempo, nel quale la tradizione retorica è restituita al ruolo di un’antropologia della cultura e a una moderna semiotica alla quale non sono estranee le scoperte della nuova ottica galileiana.
Un merito di queste indagini innovative spetta, accanto alle intuizioni mai scontate, alle letture sempre più estese di autori allora quasi ignoti in Italia, come Arthur O. Lovejoy, Walter Benjamin, Gaston Bachelard, Alexandre Koyré, Robert Lenoble. Oltre che all’iniziativa personale, l’estensione degli orizzonti culturali di Raimondi si dovette anche alle amicizie con il gruppo raccoltosi intorno alla Società editrice il Mulino, della cui associazione culturale e del cui consiglio editoriale fu a lungo presidente.
In un contesto più franco e meno diplomatico di quello universitario, egli ebbe modo di arricchire la sua nativa curiosità intellettuale e di ampliare ulteriormente l’accezione meramente umanistica o ‘bellettristica’ della letteratura. Ne fanno fede le centinaia di schede o recensioni che soprattutto tra il 1958 e il 1965 uscirono anonime nella rivista Il Mulino, poi raccolte in piccola parte in Le stagioni di un recensore (Parma 2010).
Promosse, inoltre, la traduzione di autori stranieri che contribuirono a fare del Mulino un editore culturalmente d’avanguardia e a introdurre in un’Italia ancora legata al magistero crociano nuove metodologie e indirizzi di studio. Basti ricordare, per tutti, la Teoria della letteratura di René Wellek e Austin Warren (Bologna 1956), Ragione e rivoluzione di Herbert Marcuse (Bologna 1965), o la fondazione della rivista Lingua e stile (1966), sensibile alle nuove metodologie dello strutturalismo, ma senza condividerne l’esoterismo terminologico e gli eccessi aprioristici.
Negli anni Sessanta la posizione accademica di Raimondi si consolidò: professore straordinario di letteratura italiana dal 1° febbraio 1962 e ordinario tre anni dopo, sempre nell’Università di Bologna, nell’anno accademico 1963-64 tenne per incarico anche l’insegnamento di filologia italiana nell’Università di Padova, in contemporanea con la carica di direttore dell’Istituto di filologia italiana nell’Ateneo bolognese, mantenuta fino al decennio successivo. Non si sottrasse mai ai doveri istituzionali, come è provato, a partire dall’anno accademico 1957-58, dalla direzione del Collegio universitario Irnerio, senza però che in alcun caso le sue ricerche, com’è testimoniato da una bibliografia priva negli anni di soluzione di continuità, subissero distrazioni o rallentamenti.
Venne per esempio a fissarsi in un libro fortunato fin dal titolo (Il lettore di provincia, Firenze 1964) la lunga frequentazione delle opere di Renato Serra, letto fin dagli anni universitari, allorché Raimondi stabilì una solida amicizia con Franco Serra, il nipote dello scrittore cesenate, che gli mise a disposizione la sua raffinata biblioteca. Nell’Esame di coscienza di un letterato emerse, pur nell’appartenenza a una consuetudine votata allo studio appartato e tranquillo, un intellettuale che avvertì la crisi del classicismo, dominato dal sentimento fortissimo di un contrasto tra la generazione sua e quella del suo maestro Carducci. In un homme de lettre in apparenza smagato ed elegante si colse la tensione di un’antinomia più profonda, piena di contraddizioni. Un’analoga fenomenologia dei sistemi aperti fu poi applicata a un Machiavelli che, nelle pronunzie di Politica e commedia, fu messo in relazione con la filosofia naturalistica del Rinascimento, i cui influssi sembrano comparire nel finale del Principe.
I libri di Raimondi non trasmettono semplici informazioni, ma un impulso, uno stile intellettuale, una mobilitazione concettuale sempre pronta a rimettersi in discussione, come si conviene a un maestro senza dogmi. In Metafora e storia (Torino 1970), accanto ad alcuni saggi petrarcheschi degli anni Cinquanta, si compiono raffinati esercizi esegetici sulla Commedia dantesca dove le competenze della retorica, rivalutata nei suoi caratteri di esercizio scientifico e di spirito critico, si radicano nell’antropologia dei comportamenti, delle credenze, delle configurazioni sociali, mentre una sottile attitudine stilistica elabora una critica simbolica quanto mai funzionale alla ritualità sacra imperante nel Medioevo. Nuove prospettive scaturiscono dal confronto tra la conoscenza dell’opera letteraria e l’interrogazione di altri testi meno prevedibili. Di qui l’interesse per la teoria della letteratura e dei nuovi metodi, dalla neoretorica allo strutturalismo, dall’ermeneutica alle Tecniche della critica letteraria, per dirla con il titolo di un testo del 1967, l’anno in cui, grazie anche a questo libro, fu insignito con il premio Antonio Feltrinelli. I risultati si vedono negli studi interdisciplinari sull’influenza delle scoperte e delle teorie scientifiche nella letteratura e nella sensibilità collettiva, alla quale si applicano, in combinazione non eclettica con altri metodi, quelli della «history of ideas» di Lovejoy, la stessa che guidò Raimondi, insieme con Paolo Rossi e Antonio Santucci, a fondare nel 1980 la rivista Intersezioni, nata all’indomani di frequenti soggiorni negli Stati Uniti dove, in qualità di visiting professor, si recò con la moglie e la figlia Natalia per tenere corsi, tra il 1968 e il 1978, presso le Università Johns Hopkins, City University di New York, UCLA.
In Scienza e letteratura (Torino 1978) l’analisi non si ferma alla pagina letterariamente ‘bella’ degli scienziati, come aveva fatto la critica precedente, ma ne riabilita l’impulso epistemico e l’ethos di chi interroga la natura. È un rovesciamento di prospettiva che si verifica nel Romanzo senza idillio (Torino 1974), a seguito del quale I promessi sposi non furono più letti in chiave pacificante e Biedermeier.
Il cristianesimo di Raimondi trovò in Manzoni lo scrittore più congeniale, facendogli vedere che nel suo romanzo il lieto fine è solo apparente e illusorio, mentre in realtà esprime la consapevolezza che la vita sia una «ricerca incompiuta» (p. 173), nella quale a contare diventa semmai, più che il soddisfacimento delle risposte, il «dibattere e cercare insieme», secondo l’espressione manzoniana alla fine dell’opera.
Forse l’esempio più felice per comprendere quanto sia stato influente il magistero di Raimondi riguarda l’interpretazione, affidata infine al Silenzio della Gorgone (Bologna 1980), che egli diede di D’Annunzio, uno scrittore di cui si deprecò a lungo il ‘decadentismo’ dei costumi. Raimondi, con una lettura sociologica, interpretò la sua mondanità non già come l’atteggiamento di un debosciato, ma come uno dei primi esempi di divismo quanto mai funzionale nella nascente era della réclame. Talché, concludeva Raimondi rovesciando i luoghi comuni della critica letteraria, «il cosiddetto istinto dannunziano appare anche, in fondo, il frutto di un calcolo, di una intelligenza che anticipa e asseconda con le proprie invenzioni le inquietudini, i furori nascosti di una società in equilibrio precario» (p. 81). Da quel momento, la critica dannunziana cambiò decisamente rotta.
Divenuto nel frattempo socio dell’Accademia nazionale dei Lincei (1987), con la pubblicazione delle Pietre del sogno (Bologna 1985) Raimondi riprese le frequentazioni giovanili di Alfieri per indagare nel suo teatro tragico un’antropologia rivelatrice di una modernità sensibile ai misteri e ai segreti dell’inconscio, di cui si ripercorrono gli aspetti più reconditi. Il sublime non è più un livello di stile, ma una visione del mondo che accoglie nelle dissonanze della parola laconica le passioni oscure e negative della paura e del terrore.
Dietro tali risultati, tanto sorprendenti quanto persuasivi, ha sempre agito una diffusa rete di letture. Per questo, soprattutto dopo l’uscita dall’università per raggiunti limiti d’età (1999) e nel ventennio in cui fu presidente dell’Istituto per i beni culturali della regione Emilia-Romagna (1992-2011), si interrogò sempre più spesso sul ruolo del lettore.
Dalla sua prospettiva ermeneutica la lettura è un’esperienza inquieta perché consiste in un mettersi in rapporto con l’altro e comprenderlo. Per Raimondi il libro è una creatura vivente e non per caso i titoli delle ultime opere alludono a questa realtà: Il volto nelle parole (Bologna 1988), Le voci dei libri (a cura di P. Ferratini, Bologna 2012). Il rapporto del lettore con la pagina scritta esige una sua «responsabilità», nel senso etimologico che richiede sempre un ‘responso’, una presa di posizione. In altre parole, Un’etica del lettore (Bologna 2007), in quanto l’atto del leggere predispone all’ascolto, educa al rispetto integrale e quindi alla tolleranza. Nel concepire la lettura come un dialogo con l’autore del testo che si ha davanti, Raimondi ha applicato anche all’indagine letteraria la disponibilità e l’apertura con cui nella vita ha esercitato la politica del confronto, della sperimentazione di nuovi cammini.
Morì a Bologna il 18 marzo 2014.
Opere. La bibliografia degli scritti fino al 1994 è raccolta in E. Raimondi, I sentieri del lettore, a cura di A. Battistini, I-III, Bologna 1994, III, pp. 533-583. Oltre alle opere citate nel testo si segnalano in particolare: Il concerto interrotto, Pisa 1979; Poesia come retorica, Firenze 1980; I lumi dell’erudizione, Milano 1989; Le figure della retorica, Torino 1990 (in collab. con A. Battistini); La dissimulazione romanzesca, Bologna 1990; Le poetiche della modernità in Italia, Milano 1990; Un europeo di provincia: Renato Serra, Bologna 1993; Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna 1995; La retorica d’oggi, Bologna 2002; Il senso della letteratura, Bologna 2008; Ombre e figure. Longhi, Arcangeli e la critica d’arte, a cura di G. Fenocchio - G. Zanetti, Bologna 2010.
Fonti e Bibl.: Una prima autobiografia di Raimondi è Conversazioni: una speranza contesa, a cura di D. Rondoni, Rimini 1998, poi superata da Camminare nel tempo, a cura di A. Bertoni - G. Zanetti, Reggio Emilia 2006 e Bologna 2015. Su Raimondi maestro di generazioni di studenti: A. Battistini, Presentazione di Mappe e letture. Studi in onore di E. R., a cura di A. Battistini, Bologna 1994, pp. 7-14. Tra le tante interviste rilasciate: M. Baiardi, E. R., Firenze 1990. Sul critico letterario: A. Stabile, E. R., in I buoni maestri, Milano 1988, pp. 141-164; A. Asor Rosa, [Laudatio], in L’Archiginnasio d’oro a E. R., Bologna 1991, pp. 9-16; A. Battistini, E. R., in Il Mulino, LXIII (2014), 3, pp. 505-514.