Ezzelino III da Romano
Nacque nel 1195, terzo di questo nome, nella domus denominata originariamente da Onara e successivamente da Romano da due castelli dislocati rispettivamente nell'alta pianura e nel Pedemonte veneto. Nel dettare il suo testamento nel 1223, Ezzelino II non solo lasciò ai figli Alberico ed E. un ricchissimo patrimonio e una potenza militare invidiabile, distribuiti equamente fra i due territori di Vicenza e di Treviso, ma consegnò loro altresì la responsabilità e i vantaggi della guida di una variegata coalizione di forze regionali ormai dilatata anche in seno alle città di Treviso, Vicenza, Verona e in minor misura Padova, contrapposta a una speculare, vasta pars politica al cui vertice erano gli Estensi, la cui base territoriale di potere si estendeva a nord e a sud del basso corso dell'Adige e che erano stati ugualmente capaci di assumere il controllo di un eterogeneo blocco di clienti e fautori che aggregava soggetti da tutta la Marca trevigiana e dalle vicine città di Ferrara e di Mantova.
Il prevalere dell'uno o dell'altro schieramento alla guida di tale o talaltro comune ne produceva mutamenti significativi di indirizzo nella politica estera, determinando di volta in volta per i da Romano possibilità d'intesa o aperte divergenze d'interessi. Lo stesso E., ad esempio, ancor giovanetto, nel 1213 partecipò col padre a una spedizione militare organizzata dai padovani contro gli Este. Nonostante episodici momenti di allentamento della rivalità col casato estense (nel 1221 lo stesso E. sposò Zilia, sorella del conte Rizzardo da Sambonifacio, che a sua volta impalmò Cunizza, sorella di E. e di Alberico), i due da Romano mantennero e consolidarono il loro ruolo di indiscussi capiparte nello scenario regionale della Marca trevigiana, guadagnando alla propria causa un affollato seguito di amici e fideles, in un crescendo di fervidi consensi ma anche di aspre ostilità. Nel corso del terzo decennio del Duecento la lotta politica si fece particolarmente dura un po' dovunque, ma specialmente nello scacchiere cittadino di Verona, città essenziale per il controllo della valle dell'Adige, dove i da Romano si esposero più volte a sostegno dei Montecchi, loro massimi partigiani, contro Rizzardo da Sambonifacio e i suoi, creando situazioni di estrema instabilità nel governo del comune. In questo stesso periodo, pressoché sempre ostile a E. e ai suoi si mantenne la sola Padova, che insidiò sistematicamente le strategie dei da Romano e perseguitò E. "quasi fosse un lupo", come osserva il cronista Rolandino.
Contrariamente a quanto una lettura a posteriori degli eventi ha finito per far credere, i da Romano erano per tradizione antimperiali e antisvevi. Ancora all'epoca della dieta imperiale di Cremona e della ricostituzione della seconda Lega lombarda del 6 marzo 1226, E. rimaneva su posizioni di sostanziale ostilità a Federico II. La sua azione, infatti, si rivelò decisiva contro l'imperatore, perché in qualità di podestà di Verona presidiò a vantaggio della Lega lo sbarramento della chiusa d'Adige, impedendo alla cavalleria tedesca di accorrere in aiuto dello Staufen da nord. Nel 1227, riconciliatosi l'imperatore coi comuni grazie alla mediazione papale, i rettori della Lega avevano fatto pressione affinché E. lasciasse la podesteria di Verona. E. e i suoi finirono per reagire a questo indebolimento delle loro posizioni con un ennesimo colpo di mano. Nell'estate del 1230 riebbero il controllo della città dell'Adige, incarcerarono lo stesso conte Rizzardo da Sambonifacio e insediarono come podestà il fedele alleato ferrarese Salinguerra Torelli. In un clima di altissima tensione che pervadeva tutta l'Italia settentrionale, gli stessi capi della Lega si fecero consegnare il conte e, scaduto il mandato di Salinguerra, insediarono come podestà a Verona il milanese Guido da Rho, col compito di interdire alle truppe imperiali la discesa in Italia dal Brennero.
Fu solamente in questa situazione di difficoltà, in cui si vennero a trovare tanto E. quanto Federico II, che si realizzò fra i due un'intesa destinata a durare fino alla morte del secondo. I rettori della Lega lombarda compirono un imperdonabile errore di valutazione, facendo propria l'ostilità verso i da Romano della parte più oltranzista del variegato fronte antimperiale. Consentirono infatti, senza intervenire, che i da Romano fossero attaccati a Treviso e a Bassano. Nella riunione dello stato maggiore delle forze alleate di Bologna del novembre 1232, poi, il veto opposto da Verona e da Mantova a che E. e Alberico entrassero a far parte della Lega fu respinto solo di fronte alle energiche proteste di Gerardo Maurisio, il giudice vicentino fiero partigiano della famiglia romanense, che in qualità di messo minacciò il passaggio dei due fratelli nel campo imperiale. Anche se non si accoglie la spiegazione che i capi della Lega disattesero smaccatamente le promesse fatte ai da Romano e li tradirono, si deve comunque ammettere la fallace parzialità e l'insipienza dei medesimi nel gestire l'affaire del feroce conflitto fra partes che dilaniava la Marca trevigiana. Come e quando sia stato preparato il protocollo d'intesa fra i da Romano e Federico II si ignora. Di certo, l'obiettiva convergenza di interessi produsse fin dal 14 aprile 1232 un ribaltamento interno a Verona. E. e il fratello, infatti, decisero di sottrarsi dalla posizione di debolezza e d'isolamento in cui erano stati cacciati occupando con le armi la città. Fatto prigioniero il podestà, subito accolsero un messo imperiale con un contingente di duecentocinquanta armati, prestando all'imperatore e non più alla Lega il giuramento di fedeltà. L'esplicita scelta di campo a favore di Federico era ribadita già il mese successivo dalla promessa fatta da Alberico pro se et fratre in quel di Pordenone di conservare fedele all'Impero la città occupata anche in assenza degli aiuti militari richiesti. Il 3 dicembre Gerardo Maurisio si recava in Puglia nella domus imperiale d'Apricena a impetrare da Federico II un paio di privilegi a favore dei due fratelli, anche nell'intento di frenare gli attacchi e le devastazioni di cui in più sedi i da Romano e le loro terre erano fatti oggetto dagli avversari. In questi diplomi di piena protezione, E. e il fratello erano qualificati come nostri esperti fideles e se ne lodava la generosa devozione dimostrata all'Impero.
Iniziava così tra E. e Federico II una lunga e solida collaborazione che si rivelò decisiva tra il 1236 e il 1237, nel corso del rinnovato tentativo federiciano di risolvere militarmente il negotium Lombardiae, e andò evolvendo in seguito secondo una linea di crescente autonomia del primo dal secondo.
Allontanatosi il sovrano dalle regioni venete e fallito miseramente il tentativo di pacificazione generale tra famiglie magnatizie, partiti e città propugnato da frate Giovanni da Schio e dal movimento penitenziale dell'Alleluia del 1233, E. dovette accollarsi i maggiori oneri anche militari per difendere le sorti dello schieramento filofedericiano nello scacchiere della Marca. Un prestito di ben 20.000 lire ottenuto da Cremona nel 1234 grazie ai buoni uffici di due legati imperiali mostra l'assoluto rilievo che ormai gli si riconosceva nel complesso delle forze padane impegnate a sostenere l'Impero. Per quanto Federico fosse per il momento cauto nell'alienarsi l'appoggio degli avversari di E., è evidente che i fatti lo convinsero della bontà della scelta di puntare su di lui quale più sicuro campione della propria causa nel Nord-Est dell'Italia. Sul finire dell'inverno del 1236, alla notizia dell'imminente discesa dell'esercito imperiale dalla Baviera, tutta la Marca ripiombò in uno stato di fibrillazione. A Verona i Montecchi con E., dubitando della neutralità del podestà, un ufficiale delle terre papali, occuparono con la forza la città, prevenendo i partigiani dell'Estense attivi in nome della Lega. E. stesso assunse la carica di rettore assieme a Bonifacio da Panico, facendo immediatamente entrare un nutrito presidio di cavalieri tedeschi e di arcieri saraceni. È incerto se E. si sia personalmente recato ad Augusta alla corte imperiale, come vorrebbe Rolandino. Di certo incontrò col fratello l'imperatore a Trento il 12 agosto. A Federico, che si trovò aperta la Val Lagarina, fu così agevole insediarsi a sua volta a Verona con tremila cavalieri. E. assicurò l'appoggio decisivo delle sue truppe nei movimenti che l'esercito imperiale fece fino a Cremona e di qui nuovamente nella Marca fino alla conquista di Vicenza nella festività di Ognissanti. Richiamato improvvisamente in Germania l'imperatore, E. proseguì col nunzio imperiale Geboardo di Arnstein la lotta contro le forze della Lega, ottenendo la resa di Padova, massimo baluardo del fronte antifedericiano, nel febbraio del 1237.
L'ambiguità della situazione creatasi fu subito chiara. Il cronista Rolandino osserva che la città fu data al conte Geboardo "in nome dell'imperatore e in sua vece", ma nei fatti nulla si decideva nei consigli del comune contro o senza il parere di Ezzelino. Ufficialmente si trattava insomma della restaurazione di un potere neutrale e superiore alle parti; di fatto era E. a orientare, secondo propositi e calcoli decisamente partigiani, l'azione degli emissari dell'Impero. Federico mostrò del resto subito piena fiducia nei confronti del suo paladino, incaricandolo ufficialmente fin dal 28 aprile 1237 di risolvere la querelle sulla sorte del favoloso patrimonio di Iacopo da Sant'Andrea, rivendicato dal potente Tiso da Camposampiero, che da un quindicennio lacerava il mondo magnatizio padovano. Il bisogno di Federico II di non privarsi del sostegno militare di tanti esponenti dell'aristocrazia militare delle regioni venete lo indusse tuttavia a un atteggiamento più conciliante e a frenare in qualche misura gli eccessi di E. e dei suoi, tant'è che in occasione del decisivo scontro di Cortenuova coi comuni lombardi ribelli del 1237 poté avere dalla sua in campo anche Azzo VII d'Este, Rizzardo da Sambonifacio, Giacomo da Carrara e altri fieri rivali di Ezzelino. Di fronte alle sollecitazioni di costui a procedere su una linea oltranzista di bandi, incarcerazioni e confische, almeno fino al 1239 l'atteggiamento dell'imperatore sembrò ancora ispirarsi a linee di maggiore conciliazione ed equità, pur esiliando non pochi ostaggi, soprattutto padovani. La congiuntura politica sospingeva tuttavia fatalmente il sovrano a lasciare mano libera a Ezzelino. Nelle città venete l'ossequio all'imperatore si traduceva nell'accettazione di fedeli funzionari pugliesi, cremonesi o toscani in qualità di rettori. Lo stesso imperatore volle tentare una riorganizzazione più accentrata dell'Italia comunale, creando un vicariato della Marca trevigiana che andava dal fiume Oglio al Tagliamento, cui era preposto colui che deteneva insieme la podesteria di Padova. Nemmeno questa costruzione, tuttavia, avrebbe potuto reggersi senza l'appoggio decisivo di Ezzelino. Pertanto, nella veste giuridicamente non definita di leader del partito imperiale, questi continuò abilmente a bollare come nemici dell'Impero i suoi avversari personali, proseguendo la sistematica azione militare di demolizione delle basi operative degli Estensi e dei loro seguaci ed eliminando col carcere o col confino gli antichi oppositori (si pensi alla neutralizzazione di religiosi come Arnaldo da Limena e Giordano Forzatè, poi beatificati nel clima di demonizzazione postuma cui E. andò incontro). Un'ennesima attestazione della fiducia dell'imperatore a quello che nei fatti si profilava ormai come l'arbitro delle sorti della Marca giunse quando nella Pentecoste del 1238 questi ebbe in sposa la figlia naturale di Federico II, Selvaggia.
I limiti della politica imperiale e la sempre maggiore libertà d'azione di E., dettata dalla sua formidabile posizione di forza, si manifestarono con chiarezza già sul finire degli anni Trenta per ragioni obiettive. Specie dopo la nuova scomunica che gli piombò addosso nel 1239, Federico II avvertì l'esigenza di un giro di vite contro nemici vecchi e nuovi. Azzo VII d'Este, i Sambonifacio e altre grandi famiglie della Marca e di Ferrara passarono all'aperta ribellione. A Treviso si ebbe il voltafaccia di Alberico da Romano, il quale, forse per sopraggiunti dissidi col fratello, ma certo anche per la drastica decisione di Federico II di esiliare a sud sotto pretesto di pacificare la Marca la figlia Adeleita assieme al giovane promesso sposo Rainaldo figlio del marchese d'Este, decise di passare nel campo avverso all'imperatore. Insomma, il 'pericoloso partigiano' serviva a Federico più di quanto questi non servisse al primo. Nell'Italia padana, il controllo del compatto blocco di territori veneti che si aggiungevano a isolate basi operative quali Cremona o Parma conferiva infatti all'imperatore un potente, inatteso strumento d'azione contro il temibile fronte di avversari che la tensione col Papato andava coagulando in unitaria pars Ecclesiae. L'appoggio di E., inoltre, assicurava in ogni momento l'indispensabile comunicazione fra l'Italia e il Regno tedesco. Sul finire del 1239 lo stesso papa lamentava l'abusiva occupazione di alcuni castelli fatta a danno del vescovo di Treviso da E.: un motivo in più per cementare l'agreement fra l'imperatore e il suo fiero sostenitore, il cui padre si era peraltro già guadagnate da tempo presso la Curia romana pessima fama e aspre rampogne in quanto notorio fautore dell'eresia.
Per sei anni (1239-1245) E. e Federico II non s'incontrarono più, ma quest'ultimo poté fare costante affidamento su E. per rintuzzare con successo le continue minacce esterne che, rinfocolate anche da un massiccio fuoruscitismo, venivano da Treviso, Mantova, Brescia e, dopo il 1240, anche da Ferrara. Il tutto con la complicità di Venezia, pesantemente lesa nei suoi interessi commerciali di terraferma e con la benedizione del Papato, ormai nemico votato di Federico II. I costi dell'anomala ma in qualche modo obbligata collaborazione fra i due furono presto evidenti.
Nel febbraio 1244 E., prendendo a pretesto certe indebite sottrazioni di denaro dalle casse comunali di Padova, prese l'unilaterale iniziativa di destituire dalla carica di podestà, e dunque di vicario imperiale, il cognato Galvano Lancia, inviato direttamente da Federico II due anni prima, lasciando morire in prigione due suoi ufficiali. Al suo posto E. insediò il fuoruscito bresciano Guizzardo di Realdesco e dopo di lui, con podesterie assolutamente anomale per durata, i parenti Guecello da Prata e Ansedisio Guidotti. Anche a Vicenza, nel 1242, dopo la breve podesteria di Guglielmo Visdomini, un mantovano designato da E. per commissione dell'imperatore, E. assunse direttamente la carica di rettore, per tornare dopo il 1245 a imporre podestà padovani a lui devoti. Così pure a Verona, dove nel 1241 cominciò la lunga podesteria di Enrico da Egna, nipote di E., dopo una sequenza di cremonesi e parmensi che si possono tutti credere inviati da Federico II. Ben più che nel ripudio della moglie Selvaggia, in questa ormai autonoma capacità di disporre a piacimento anche delle massime cariche di governo nei comuni veneti e nel pieno controllo militare della regione va ravvisato l'esplicarsi di un progetto di autonoma signoria più o meno tacitamente accettata dall'imperatore. Non è un caso peraltro che, al di là dei larghi consensi che E. riuscì a suscitare ben più di quanto un'interessata propaganda antiezzeliniana ha voluto far credere, secondo i cronisti egli cominciasse a essere comunemente definito nel Veneto continentale fin dal 1238 col solo, eloquente titolo di dominus: il signore o, meglio, il padrone.
L'episodio della grande dieta di Verona convocata nel 1245 da Federico II, senza tenere conto delle differenti versioni datene dai cronisti, può dar la misura della sostanziale pienezza di poteri ormai realizzata da Ezzelino. Rolandino presenta allusivamente l'episodio, in cui si scatenò una violenta rissa con ferimenti di alcuni tedeschi e l'abbandono anticipato della città da parte del duca d'Austria, come un tentativo dell'imperatore, allarmato dall'eccessiva indipendenza di E., di assicurarsi il diretto controllo della città. Tant'è che, secondo il cronista, il da Romano si sarebbe premunito facendo accorrere alla spicciolata un gran numero di soldati fedelissimi, tenendo strettamente vigilate le porte e le torri cittadine e allertando segretamente i veronesi affinché non tollerassero prepotenza alcuna da parte delle truppe tedesche. Minimizzata da altri, la vicenda è comunque indicativa della coscienza che E. aveva della propria forza e della sua ferma volontà e capacità di farla valere. Resta il fatto che l'imperatore, forse anche per la delicatezza del momento (si era all'indomani della convocazione del concilio di Lione) scelse di non rompere con E., che infatti si distinse ancora al suo fianco nella spedizione militare nel Milanese dell'ottobre 1245, ottenendo aperte lodi dal sovrano. L'immagine di un E. rispettato e temuto pure dall'imperatore sembra essere recepita da un racconto de Il Novellino, che narra di una disputa occorsa fra i due a proposito della pretesa di ciascuno di avere la spada più bella, finita con la vittoria del da Romano solo dopo che costui, sguainandola, avrebbe indotto il suo nutritissimo e temibile seguito armato a fare altrettanto.
I titoli di E., del resto, continuarono a lievitare negli anni seguenti. Nei confronti del fratello Alberico, ufficialmente sempre collocato sul fronte avverso, operò una politica di logoramento, sottraendogli, anche grazie all'appoggio dell'alleato satellite Tolberto da Camino, il nerbo dei vassalli e delle masnade di cui di-sponeva e gran parte del distretto trevigiano. A sud E. rintuzzò i fastidiosi rigurgiti di revanscismo alimentati dal marchese d'Este. Verso nord conquistò nel 1248 le due città vescovili di Feltre e Belluno, assicurandosi in tal modo il dominio dell'intera regione.
Per quel che riguarda gli aspetti formali della signoria di E., il quadro che emerge risulta articolato e dinamico, certo lontano dall'immagine di cieca e gratuita 'tirannide' che finì per imporsi dopo la sua morte. Senza negare le pressioni, le confische, gli attacchi armati nei confronti di gruppi magnatizi ostili (particolarmente intensi a Padova), e perfino la prima autonoma sentenza di condanna a morte comminata nel 1242 a un sospettato di tradimento (fenomeni comunque tipici dei governi comunali dell'epoca), va riconosciuto che E. mantenne un ossequio almeno di facciata verso le istituzioni comunali. Gli stessi violenti scontri con il marchese d'Este, ad esempio, acquistarono nella propaganda ezzeliniana la parvenza di una lotta a chi si opponeva ai mandata Imperii et comunis Padue. Maurisio dichiara apertamente che con la sua sagacia E. seppe guadagnarsi il favore di settori consistenti dell'aristocrazia militare perfino nell'avversissima Padova, ma anche un testimone decisamente a lui sfavorevole quale Rolandino offre una rievocazione postuma delle origini della 'tirannide' riconoscendo che E. procedette "con cautela e gradualità", comunque "senza impeto e violenza". Quantunque privo di un titolo ufficiale e senza produrre catastrofi costituzionali nella Marca, E. poté insomma far valere la sua endoscopica conoscenza degli equilibri politici e sociali della regione e ne condizionò dall'interno la vita in forme pressoché illimitate, spacciando ogni atto repressivo come normale contromisura a manifesti tradimenti o insurrezioni armate contro lo stato. Solo dal 1244 si può ammettere una vigorosa sterzata in senso fortemente autocratico del suo regime. In ogni caso, la crescita e la normalizzazione dello stabile predominio di E. e del suo blocco di aderenti sulla regione veneta dovette derivare dalla paura ma anche dalla deferente ammirazione fra quanti auspicavano un potere capace di sedare l'endemica turbolenza intestina delle città e le devastanti lotte intercittadine che avevano infuriato nella Marca trevigiana per decenni.
Negli anni seguenti le vicende politiche generali successive alle plurime scomuniche papali e la stessa deposizione dell'imperatore dovettero intensificare la collaborazione fra E. e Federico II, come dimostra anche lo scambio di messi, doni e corrispondenza fra i due (sono rimaste non meno di sette lettere), da parte dello Svevo ridondante di lodi per l'esemplare devozione e i servigi resi all'Impero dal da Romano. E. fornì sicuramente con i suoi un decisivo sostegno nelle campagne militari contro i comuni lombardi ribelli fra il 1247 e il 1249. A Cremona egli compare ripetutamente tra i massimi dignitari di corte. L'intimità con l'imperatore si accrebbe quando, secondo l'usuale costume di corroborare i vincoli di amicizia mediante alleanze matrimoniali, l'imperatore combinò le nozze del figlio Enzo con una nipote di E. già prima del febbraio 1249. Il puntello ezzeliniano si rivelava insomma indispensabile per tenere a bada tutta la strategica valle del Po. La perfetta intesa fra i due non cessò nemmeno quando, nel corso del 1249, E. compì un gesto che impressionò gli stessi contemporanei. Escogitato uno stratagemma per far uscire dalla rocca di Monselice, fatta realizzare dal sovrano, il capitano apulo che vi soggiornava con la sua guarnigione (forse, secondo nuove recentissime scoperte, tale Ruggero da Nicastro), E. si impadronì arbitrariamente di questa piazzaforte che da generazioni costituiva una formidabile camera specialis Imperii. Anche di fronte a un'iniziativa tanto audace da sembrare un vero tradimento resse un asse che, al di là di tutto, aveva ragioni politiche e si fondava su un calcolo bilanciato di costi e vantaggi.
Sul piano della gestione del potere s'è di recente tentato di individuare e analizzare l'intensità e le forme del consenso goduto da E. presso le aristocrazie e i ceti emergenti del Veneto di terraferma (specie a Bassano e nel fidatissimo Pedemonte, a Verona, a Vicenza). Collusioni ci furono sicuramente con parti significative delle élites giudiziarie e della cultura, con vasti settori del mondo produttivo, con ampi strati della società rurale. Nemmeno la reale, durevole ostilità della Curia romana (dopo ripetuti inviti a ravvedersi, la scomunica da parte di Innocenzo IV arrivò il 4 marzo 1244) e l'attacco portato per ragioni politiche da E. ai vertici delle Chiese locali al fine d'addomesticarle eliminarono del tutto i margini per possibili contatti e intese col variegato mondo ecclesiastico. Si può oggi dire che E. fu personaggio di eccezionali qualità e di smisurate ambizioni e che la sua signoria ‒ pur sanguinaria e feroce nella sua fase finale ‒ fu fenomeno rilevante e complesso, il quale diede per la prima volta unità politica visibile al Veneto, anticipando tendenze di governo e atteggiamenti ideologici che avrebbero fatto scuola, suggestionando non pochi signori di Lombardia, a partire dagli Scaligeri. Fu comunque dal finire degli anni Quaranta che si ebbe la progressiva trasformazione del suo potere personale in un oppressivo regime fatto di intimidazioni, ricatti, spoliazioni, espulsioni, incarcerazioni, condanne a morte, stragi: in breve, in quel 'terrore', in quella 'tirannia inaudita e inopinabile', che lo portò a far terra bruciata intorno a sé. Ed è altrettanto innegabile che furono soprattutto gli ultimi cruciali anni del suo dominio i responsabili della lunga e precoce demonizzazione della sua figura. La bolla con cui Alessandro IV lo scomunicò nel 1248 ne condannava la "efferata crudelitas" dimostrata "accecando bimbi innocenti, ammazzando brutalmente gli adulti con diversi tipi di torture […], castrando sia uomini sia donne" (G.B. Verci, Storia degli Ecelini, I-III, Bassano 1779: III, p. 309).
Scomparso Federico II, E. giocò il tutto per tutto e affrontò ogni rischio per mantenere la sua costruzione politica, in una fatale esasperazione della propria autorità. La sua condizione, unica in Italia, di signore regionale pienamente indipendente, tra l'altro privo di eredi, lo sospinse, di fronte all'incalzare di una vasta coalizione di avversari interni ed esterni (tutti i fuorusciti veneti; gli Estensi e la lega dei guelfi lombardi di Mantova, Ferrara, Bologna; Venezia; la Curia romana e i suoi legati), a giocare la carta di nuovi referenti e di nuove alleanze sullo scenario nazionale e internazionale. Nel 1252, si alleò (e tornò ad allearsi nel 1254) con l'altro grande signore padano di fede ghibellina Uberto Pallavicini. In un susseguirsi di fortissime tensioni dovette far fronte a un'autentica crociata armata promossa contro di lui, definito dal papa "scandalo della fede e minaccia del popolo cristiano". E. continuò nondimeno a destreggiarsi con estrema abilità anche sul terreno militare, rioccupando Trento ribellatasi, tentando di impadronirsi di Mantova, compensando la grave caduta di Padova (20 giugno 1256) con la conquista di Brescia, riconciliandosi ‒ se mai se ne era veramente distaccato ‒ col fratello Alberico, padrone di Treviso (8 maggio 1257). I violenti contrattacchi e le defezioni nel vasto fronte dei sostenitori ne minavano tuttavia la forza nella Marca trevigiana, obbligandolo a rabbiose e disumane reazioni. Purtuttavia E., collegatosi coi cremonesi, riuscì a catturare lo stesso legato papale Filippo, arcivescovo di Ravenna, in prossimità del fiume Oglio (settembre 1258), seminando il panico fra gli avversari. Solo i reiterati sforzi diplomatici della Curia romana di mettere in piedi nell'alta Italia il più vasto schieramento possibile di oppositori e il conseguente passaggio di Uberto Pallavicini e Buoso da Bovara nel campo delle forze guelfe finirono per ribaltare una situazione che ancora nella primavera del 1259 volgeva a tutto favore di E. e dei suoi. Puntando attivamente su Alfonso di Castiglia anziché su Manfredi quale candidato alla corona imperiale, ma di fatto conducendo sotto l'etichetta 'ghibellina' una personale politica da principe territoriale assolutamente inedita nell'Italia comunale, il da Romano volle uscire dall'accerchiamento. Contando su un'imminente venuta del re spagnolo aspirante imperatore in Lombardia, prese segreti accordi coi ghibellini di Milano e tentò l'impresa di conquistare la città lombarda. Ma proprio l'avventuroso tentativo, verosimilmente sproporzionato alle sue possibilità, di puntare su una più vasta signoria lombarda finì per causarne la caduta e la fine. Per quanto disponesse di un formidabile esercito, nel corso dell'impresa E. finì col trovarsi accerchiato. Nel tentativo di forzare presso Cassano il blocco nemico sul fiume Adda, fu ferito a un piede da un dardo. Catturato, morì (o si lasciò morire) qualche giorno più tardi, forse il 1o ottobre 1259. Tradotto nel vicino castello di Soncino, vi fu sepolto onorevolmente.
fonti e bibliografia
Fra le cronache ezzeliniane v. Gerardo Maurisio, Cronica dominorum Ecelini et Alberici fratrum de Romano (aa. 1183-1237), a cura di G. Soranzo, in R.I.S.2, VIII, 4, 1913-1914; Parisio da Cereta, Annales Veronenses, a cura di G.H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, XIX, 1866, e soprattutto Rolandino da Padova, Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane, a cura di A. Bonardi, in R.I.S.2, VIII, 1, 1905-1908.
Per quanto riguarda altre fonti, fra le novità più significative si segnalano almeno: E. Cristiani, La consorteria da Crespignaga e l'origine degli Alvarotti di Padova (secoli XII-XIV), "Annali dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici", 1, 1967-1968, pp. 173-237; T. Pesenti Marangon, Università, giudici e notai a Padova nei primi anni del dominio ezzeliniano (1237-1241), "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 12, 1979, pp. 1-62; F. Scarmoncin, Comune e debito pubblico a Bassano nell'età ezzeliniana (dai documenti dell'Archivio del Museo civico: aa. 1211-1259), Bassano 1986; I documenti del comune di Bassano dal 1259 al 1295, a cura di F. Scarmoncin, presentazione di G. Fasoli, Padova 1989; S. Bortolami, 'Callidissimus exactor in pecunia congreganda'. Gli uomini e le finanze di Ezzelino da un documento del 28 giugno 1255, e G. De Sandre Gasparini, Tra religione e politica. La famiglia veronese dei da Brolo. Le religiones novae, Ezzelino da Romano, entrambi in Tempi, uomini ed eventi di storia veneta. Studi in onore di Federico Seneca, a cura di S. Perini, Rovigo 2003, rispettivamente alle pp. 83-94, 93-111.
Ricordando per la bibl. precedente solo le biografie di G.B. Verci, J.M. Gitterman, W. Lenel e F. Stieve, un vero rinnovamento di prospettive è intervenuto con la pubblicazione degli Studi ezzeliniani, a cura di G. Fasoli, Roma 1963.
Sui rapporti di E. con Federico II la migliore messa a punto rimane tuttavia quella di L. Simeoni, Federico II ed Ezzelino da Romano, in Studi su Verona nel Medioevo di Luigi Simeoni, II, a cura di V. Cavallari, "Studi Storici Veronesi", 10, 1959, pp. 131-155.
Fondamentale è anche l'antologia di saggi intitolata Nuovi studi ezzeliniani, a cura di G. Cracco, Roma 1992.
Tra i più recenti lavori vanno ricordati ancora: G.M. Varanini, La Marca Trevigiana, in Federico II e le città italiane, a cura di P. Toubert-A. Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 48-64, nonché altre sparse e puntuali ricerche: U. Pistoia, La valle di Primiero nel medioevo. Gli statuti del 1367 e altri documenti inediti, Venezia 1994 (contenente anche un inedito documento federiciano dell'ottobre 1237); S. Bortolami, Monselice 'oppidum opulentissimum'. Formazione e primi sviluppi di una comunità semiurbana del Veneto, in Storia, cultura e arte di un centro 'minore' del Veneto, a cura di A. Rigon, Treviso 1994, pp. 101-171.
Per la cultura trobadorica e le tematiche politiche federiciane ed ezzeliniane in essa dibattute v. G. Folena, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in Id., Culture e lingue del Veneto medievale, Padova 1990, pp. 1-138.