FAÀ DI BRUNO, Antonino (talvolta Antonio)
Nacque ad Alessandria il 10 nov. 1762 da Carlo, marchese di Bruno e conte di Carentino, e da Angiola (o Angelica) Beccaria Incisa Grattarola dei conti di S. Stefano Belbo. Svolti con buon profitto gli studi nel seminario di Alessandria, dove era stato introdotto da mons. G. T. Derossi, vi fu ordinato sacerdote; passato al regio ateneo torinese, vi consegui prima la laurea in teologia il 15 maggio 1788, e poi quella in utroque iure il 3 luglio 1789.
Fece una prima esperienza di cura d'anime, come coadiutore del parroco di Bruno, feudo paterno, ma il 19 nov. 1789 venne nominato dal re Vittorio Amedeo III convittore della R. Accademia ecclesiastica di Superga (se ne mostrerà sempre fiero, tanto da ricordarlo nella sua prima pastorale di vescovo), istituzione che dal 1730 accoglieva dodici sacerdoti selezionati per qualità, dottrina e nascita, cui era conferito il titolo di cappellani regi, che venivano preparati alle maggiori cariche ecclesiastiche e diplomatiche. A Superga rimase per cinque anni, distinguendosi per "conoscenza d'uomini, pietà e rettitudine di giudizio", anche se motivi di salute lo costrinsero ad interrompere i corsi e a ritirarsi in Alessandria. In seguito venne notato per le sue doti di oratore e predicatore dal duca dei Chiablese, che lo volle abate perpetuo e canonico prevosto dell'insigne collegiata di Desana presso Vercelli, con titolo e privilegi di protonotario apostolico: questa prevostura garantiva una considerevole rendita, che fu tuttavia soppressa dalle confische del 1799, e trasformata solo quattro anni più tardi in una pensione di 600 lire al Faà.
Passata la tempesta napoleonica, per la durata della quale si hanno di lui pochissime notizie, il re Vittorio Emanuele I il 13 dic. 1817 designò il F. al vescovado vacante di Asti, onde Pio VII lo preconizzò per quella sede il 16 marzo 1818. Fu consacrato a Roma in S. Ignazio il 24 marzo 1818, dal card. G. M. della Somaglia. Il giorno stesso il F. indirizzò la sua prima Epistola pastoralis ad clerum et populum universae dioecesis Astensis (Romae 1818). L'ingresso in Asti ebbe luogo il 1º ag. 1818.
Il F. trovò la diocesi in una situazione piuttosto precaria: infatti, alla morte di mons. P. Arborio di Gattinara nel gennaio 1809, era stato eletto vicario capitolare dai canonici E. Dani dei conti di Magnano, mentre Napoleone il 9 febbr. 1809 nominava vescovo il canonico di Carcassonne F. A. Dejean, senza curarsi dell'assenso di Pio VII, che non acconsentì mai alla consacrazione di questo, sicché il capitolo di Asti non volle mai accettarlo come legittimo. Alla Restaurazione il Dani, già imprigionato nel forte di Fenestrelle e liberato il 9 maggio 1814, riprese il suo posto di vicario capitolare, mentre il Dejean abbandonava la città il 4 e il 10, su richiesta del capitolo, inviava da Torino la sua rinuncia. Dunque il Dani, ultrareazionario e sostenitore dell'assolutismo regio, prese a reggere la diocesi spalleggiato dal capitolo e dalla parte più retriva della popolazione.
Per questi motivi l'insediamento del F., animato da propositi di tolleranza e di pietà, e da spirito di rinnovamento, non avvenne senza aspri contrasti, procurando al nuovo vescovo una "vita travagliatissima, per l'odio che gli portavano i fanatici dell'intolleranza civile e religiosa ai suoi tempi, mentre egli era di liberali e umanissimi sensi". Non bisogna però dare a queste generiche aspirazioni un valore politico, perché, dopo i primi tempi che videro qualche blanda innovazione, egli venne trincerandosi dietro forme sempre più tradizionali, ed ossequienti alle direttive governative, come dimostra l'esame dei suoi documenti pastorali, escluso beninteso quello ben noto del 1821 (pastorali del 10 febbr. 1823, 18 marzo 1826, 15 luglio 1828). In ogni caso le sole vicende di spicco della vita del F. sono senza dubbio quelle legate ai moti piemontesi del 1821, che meritano un esame approfondito.
L'essere stata Asti in quell'occasione (forse in memoria del sanguinoso fallimento del 1797) una delle città del Piemonte meno partecipi di quei moti, rende ancora più singolare l'atteggiamento assunto dal suo vescovo, l'unico (con quello di Vercelli G. M. Grimaldi) a prendere pubblicamente posizione favorevole alle novità, delle quali dopo tutto la maggiore in Asti era stata la destituzione del sindaco P. Mazzetti di Frinco ad opera della giunta rivoluzionaria di Alessandria, mentre l'intendente conte P. I. Petitti di Roreto rimaneva al suo posto (e ci ha lasciato interessanti testimonianze degli avvenimenti: cfr. Alcuni documenti inediti sulla rivoluzione in Asti (marzo-aprile 1821), in Rivista di storia, arte e archeol. della prov. di Alessandria, s. 3, V [1921], pp. 124 ss.). Circa gli eventi militari, ancor più modesti, una colonna di federati condotta dal capitano V. Ferrero, proveniente da Torino, dove aveva invano tentato di sollevare la popolazione, giunse ad Asti la sera del 12 marzo, accolta da acclamazioni e festeggiamenti: un palco fu eretto in piazza S. Secondo, da cui i professori che guidavano gli studenti torinesi arringarono la folla, che si limitò ad acclamare fino alla partenza del drappello per Alessandria; ma mill'altro si verificò, e senza eccessivi problemi l'intendente poté mettere al sicuro i fondi della provincia.
Quando arrivò la notizia che Carlo Alberto aveva giurato il giorno 15 marzo la costituzione di Spagna e l'entusiasmo popolare esplose (ma senza eccessi), il F., forse anche spinto da qualche punta di risentimento verso il Dani ed il capitolo, si rivolse pubblicamente con una lettera pastorale al clero e al popolo per avallare con la sua autorità il nuovo governo, peraltro ancora del tutto legittimo fino all'intervento di Carlo Felice.
Non v'è dubbio però che questa tanto discussa pastorale del 19 marzo 1821 non fu frutto di una coscienza liberale rivoluzionaria, ma solo di una generica volontà di pacificazione degli animi e di giustizia, accompagnata da una certa ingenuità che spinse il F. ad immagini un po' ardite, come quella di paragonare la fine del governo assoluto alla caduta delle mura di Gerico per divino intervento, metafora che gli peserà non poco al ristabilimento dell'ordine precedente. Per il resto egli si limitava ad auspicare "che Dio misericordioso si degni di rassodare a pubblico bene quanto a pubblici voti si ottenne", perché "digitus Dei est hic", egli inoltre ottemperava alla circolare ricevuta dal ministro in carica, quando ordinava un solenne Te Deum per il giorno seguente, "inerendo all'incarico avutone dalla R. Segreteria di Stato".
Forse questo documento non avrebbe avuto il clamore e le conseguenze che ebbe se non fosse stato pubblicato, il 6 aprile successivo, su La Sentinella subalpina (foglio divenuto irreperibile), ad opera del fratello del F., Francesco, sindaco di Bruno, il quale però, in seguito, sosterrà che ciò era avvenuto del tutto accidentalmente, perché una copia della pastorale si trovava per errore fra altri documenti destinati alla pubblicazione; e in effetti, quando il 17 genn. 1822 Francesco Faà dovette giustificarsi dinnanzi alla R. Commissione superiore di scrutinio, fu creduto, e ottenne l'archiviazione del procedimento "per pura inavvertenza". Avendo in seguito il vescovo chiesto a tutti di "lacerare e consegnare alle fiamme" le copie originali del documento (che pure fu, dopo il 1848, più volte pubblicato), esse divennero introvabili, e solo nel 1921 N. Gabiani riuscì a prendere visione di una di esse rilegata con altre carte nella biblioteca del seminario di Asti ed ivi scoperta dal rettore A. Marocco.
Conclusisi i moti, è certo che da principio il F. non fu molestato in alcun modo, e solo una certa retorica risorgimentale volle esagerarne le persecuzioni, parlando perfino di un suo preteso duro imprigionamento per tre mesi nel convento dei cappuccini di Asti (cfr. La Farina e Brofferio), mentre tale convento non esisteva più dal 1801, e vi sono indiscutibili testimonianze che la notizia è priva di fondamento (cfr. C. L. Grandi, La Repubblica d'Asti del 1797, seguita da un sommario …, Asti 1851, pp. 371 ss.; F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti italiani, III, Firenze 1852, pp. 94 s.). Al contrario, il F. visse indisturbato nel suo palazzo, senza alcun cenno di disapprovazione dalla S. Sede, finché Carlo Felice da Modena non conferì i pieni poteri al governatore di Torino I. Thaon di Revel di Pralungo, e questi non istituì una delegazione di militari e magistrati per esaminare i delitti commessi nel corso dei moti di marzo: in quel clima ìnquisitorio venne anche il turno della pastorale del Faà.
Questi fu allora convocato a Torino, dove giunse il 13 giugno per presentarsi al Thaon. Fu deciso di richiedere a Roma un intervento punitivo, e la pratica fu presentata al cardinale segretario di Stato il 4 luglio 1821 dal conte G. Barbaroux. Così il 10 settembre successivo Pio VII si vide costretto ad indirizzare al F. un breve che, sia pur con toni accorgi e paterni, gli ordinava di fare pubblica ritrattazione ed ammenda. Da parte sua il vescovo già dal 4 aprile aveva inviato ai parroci della diocesi una lettera a stampa che li esortava ad uniformarsi a qualsiasi comando del cav. Pelletta di Cortazzone rappresentante del governo in Asti, e con circolare pure a stampa del 15 aprile aveva obbedito all'invito, trasmessogli dalla segreteria di Stato, di indire un solenne Te Deum per il giorno 17. Fino all'ultimo sperò che l'incriminato documento del 19 marzo "potesse meritarsi qualche benigno compatimento", ma quando, il 18 settembre, ricevette il breve pontificio, non esitò un istante ad obbedire di buon grado: già il 21 la pastorale di ritrattazione era stampata e distribuita, e fu letta dai parroci sul pulpito. Essa riproduceva il testo del breve per intero, seguito da una prolissa e integrale ritrattazione, il cui tono non può non esser stato molto umiliante per il prelato (anche questo documento è diventato pressoché introvabile, e fu pubblicato solo nel 1892 da C. Braggio).
Con questo comportamento il F. sperava di aver meritato il perdono, ed il 25 aprile, inviando a mons. C. Chiavarotti arcivescovo di Torino il testo della ritrattazione, chiedeva il suo intervento per rientrare nelle grazie del nuovo sovrano, il che, nonostante qualche promessa, non avvenne mai; e se il card. G. Morozzo gli scrisse in data 6 ottobre che il re accettava di riceverlo, avvenne proprio il contrario: trovandosi Carlo Felice a passare per Asti, gli ordinò di non presentarsi alla carrozza con le altre autorità, ma anzi di lasciare la città per quel giorno. In compenso Pio VII in data 13 ottobre gli aveva inviato una lettera affettuosa in cui si dichiarava perfettamente soddisfatto del suo comportamento di pentito.
Negli anni successivi il F. si dedicò esclusivamente al suo ministero, largamente caritatevole verso gli infermi e i carcerati, anche con uso dei suoi beni personali, ma certo non gli mancarono amarezze e umiliazioni da parte del canonico Dani e della sua camarilla (come traspare da alcune espressioni del suo testamento del 5 nov. 1829), anche se in compenso fu generalmente amato dal popolo.
Aveva sempre praticato con eccezionale perizia (e si ironizzò su questo) alcune attività artigianali, eccellendo nella scultura in legno: sua è la bella ViaCrucis della chiesa del Gesù, poi traslata a S. Caterina. Inoltre fu appassionato collezionista di farfalle e di dipinti.
Il 16 luglio 1829 fu colpito da repentino malore, ma volle continuare ad adempiere ai suoi impegni, ed il 21 ottobre ricevette nel suo palazzo i reali delle Due Sicilie di passaggio per Asti; si aggravò il 28, e morì ad Asti il 10 nov. 1829.
Fonti e Bibl.: Bruno (Alessandria), Archivio Faà, mss., cassetto 5, n. 259 bis, carte di A. F. (testamento); Archivio di Stato di Torino, Affari politici, Alta polizia, Commissione superiore di scrutinio, Deliberazionì, 17 genn. 1822; Torino, Archivio arcivesc., lettera 25 sett. 1821 all'arciv. C. Chiavarotti. Per le opere a stampa, oltre a quanto già citato nel testo cfr. P. L. Bima, Nei funerali di s.e.rev.ma mons. A. F. dei marchesi di Bruno e Fontanile e conte di Carentino, Carmagnola 1829 (per il trigesimo della morte); A. Brofferio, Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, II, Torino 1850, p. 49; Id., I miei tempi, VII, Torino 1859, pp. 69 s.; G. La Farina, Storia d'Italia dal 1815al 1850, I, Torino 1851, p. 340; N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia..., II, Torino 1865, pp. 204 s.; F. Daneo, Vite di Sandamianesi segnalati nelle lettere, scienze ed arti, Torino 1889, p. 127 (per i rapporti col can. Dani); C. Braggio, La rivoluzione piemontese del 1821, in Giornale ligustico, XIX (1892), pp. 215 ss.; G. Bosio, Storia della Chiesa d'Asti, Asti 1894, p. 313; D. Olivero, Genealogia della nob. famiglia Faà marchesi di Bruno..., Alessandria 1913; E. Nava, Ilvescovo d'Asti e i moti del 1821, in Riv. di storia, arte e archeol. per la prov. di Alessandria, XXX (1921), pp. 153 ss.; M. Avetta, Uomini della Restaurazione, Torino 1922, p. 51; A. Segre, Ilcarteggio Pozzi e Della Valle col Vallesa ed altri documenti sui moti piemontesi del marzo 1821, in La rivoluzione piemontese del 1821. Studi e documenti, Torino 1922, II, pp. 535 s.; N. Gabiani, Ilvescovo di Asti e i moti del 1821, Asti 1925; G. Burroni, I francescani in Asti, Asti 1938, p. 172; A. Goidanich, Uomini, storie e insetti italiani nella scienza del passato. I precursori minori, I, Firenze 1972, p. 1060 (sull'attività di entomologo del F.); G. Marsengo-G. Parlato, Dizionario dei piemontesi compromessi nei moti del 1821, 11, Torino 1986, p. 1; R. Lanzavecchia, A. F. vescovo di Asti (1818-29), in Il Platano, XIII (1988), pp. 70-87.