FREZZA, Fabio
Nacque a Napoli presumibilmente nell'ultimo decennio del sec. XVI, da Decio e Maria Rosso. Alla sua nobile famiglia, originaria di Ravello, era appartenuto il giureconsulto Marino (più noto con il cognome Freccia, mentre il F. intenzionalmente firmò sempre come Frezza: cfr. Bozza, pp. 122 s.), autore del trattato De subfeudis e consigliere della Camera di S. Chiara, carica più tardi riscoperta dallo zio Cesare. C. De Lellis (p. 167) ci informa che il F. sposò una nipote, da cui non ebbe figli. Le poche notizie relative agli studi ci vengono fornite dallo stesso F. nella presentazione della sua prima opera: "Però essendomi io dato allo studio delle leggi, e avendo ancorché in assai giovane età, cioè d'anni deciotto, preso il titolo di Dottore di quelle, ho desiderato di istruirmi etiandio della Scienza Politica" (Massime, p. 3). Nella scelta di questi studi, maturata intorno al 1612, gli fu maestro il rodigino Girolamo Frachetta, che soggiornava in quel tempo a Napoli; da lui il F. ricevette una decisiva sollecitazione allo studio di Tacito, che era allora assunto da tanti scrittori a maestro di teoria politica.
Comunque poco più che uno spoglio delle pagine della storiografia classica e un florilegio di consigli e norme di comportamento per il buon principe è la prova d'esordio del F., un ampio centone di luoghi letterari, dedicato a Filippo infante di Spagna, intitolato Massime, regole et precetti di Stato e di guerra cavati dai libri degli Annali e dell'Istorie e dalla vita di Giulio Agricola di Cornelio Tacito, dai Panegirici di Plinio Secondo a Traiano, et d'altri autori ad altri principi (Venezia 1614; 2ª ed., Napoli 1616).
Lo sforzo di conoscere e assimilare il pensiero storiografico degli antichi si tradusse comunque assai presto in disegno teorico nei venti Discorsi politici e militari (Napoli 1617), dedicato al principe di Urbino, l'adolescente Federico Ubaldo Della Rovere, in onore del quale egli ricostruisce la genealogia di questa casa e di quella dei Montefeltro.
Con scrupolo erudito il F. dà un quadro sinottico delle edizioni dei classici (soprattutto greci e latini) da lui utilizzate e nel corso della trattazione suffraga sempre le sue tesi con l'autorità di vari scrittori. In ciascun discorso egli propone, infatti, una questione. Partendo dalla presentazione di un fatto storico o semplicemente da un aneddoto che si poteva adattare a uno sviluppo problematico. Applicando poi la "forma del dibattito forense" alla "critica delle istituzioni" (Persico, p. 390), egli passa all'esposizione delle tesi favorevoli e contrarie, per concludere infine con la dichiarazione delle sue opinioni.
Lo scritto del F. è un tipico prodotto della pubblicistica della "ragion di Stato". Di questa scuola di pensiero egli riprende i temi (trattazione dei metodi di governo e dei rapporti tra il principe e i sudditi, descrizione dell'indole dei popoli, spiegazione delle cause dei conflitti militari e altro), ma soprattutto l'atteggiamento riguardo all'interferenza della sfera dell'utilità politica in quella dell'etica. Pur essendo anch'egli lettore di Machiavelli, cercò di salvare - almeno programmaticamente - il punto di vista della morale, asserendo, tra l'altro, la necessità che il potere si fondasse non sul timore, ma sulla benevolenza. Ma anche se si muove in mezzo a questioni rassicurantemente desunte dalla storiografia antica, il F. non appare un osservatore astratto e inadeguato della realtà. Nella sostanza egli è ben conscio della specificità dei meccanismi della vita pratica, e spesso si interroga per interpretare i vari aspetti della vita contemporanea, anche nei suoi caratteri sociali ed economici.
Quest'attitudine all'analisi dei fatti concreti si riscontra soprattutto nei dieci Discorsi intorno ai rimedii di alcuni mali ai quali soggiace la città e il Regno di Napoli (Napoli 1623), dedicati al viceré A. Alvarez de Toledo, duca d'Alba.
Abbandonando infatti le ambizioni teorico speculative, il F. procedette a uno studio di tipo sociopolitico. L'atteggiamento dell'autore è ufficialmente ossequioso e devoto, ma egli intraprende la sua opera mosso dal bisogno di illustrare "le cose che travagliano" Napoli, "degne per lor gravezza di rimedio e di riforma", non nascondendo quindi le sue recriminazioni, pur attutite dalla formalità protocollare. C'è in verità alla radice di questo scritto non tanto una volontà di opposizione politica quanto la sincera esigenza di mostrare le disfunzioni di una certa pratica amministrativa. E infatti fin dal primo libro il F. assume un tono di denuncia, sostenendo che "due infermità patisce il Regno di Napoli": la "poca copia del pane" e "l'alloggiamento di soldati". Anzi quest'ultimo problema, così gravoso per gli abitanti e fonte di sopraffazione e scontento, costituisce uno degli argomenti più dibattuti dal F., che nel terzo discorso indica nella presenza di guarnigioni militari all'interno dei centri abitati uno dei mali più grandi della società napoletana insieme con il "soverchio peso" delle "gabelle" e alla rapacità dei "tanti Commissarii, che sono come sanguisciughe o Arpie". E, fondandosi sulla convinzione che il principe è molto più "tenuto" di "procurare il ben de' suoi popoli" che "il comodo dei suoi soldati", auspica un ridimensionamento dei presidî militari, accennando all'esempio di Venezia, la cui politica viene peraltro elogiata anche per l'allestimento delle "forze marittime". I Discorsi, in verità, contengono corrette analisi riguardo all'individuazione dei profondi mali della Napoli del Seicento (pressione demografica, litigiosità giudiziaria, esosità dei balzelli, transito e saccheggio dei soldati); ma sul piano propositivo offrono soluzioni generiche e inadeguate, che diventano astratte e velleitarie, quando, spostandosi in politica estera, l'autore immagina improbabili spedizioni navali contro la Turchia e l'Egitto.
Rivoltosi successivamente a interessi filosofico-scientifici, il F. fu autore del Discursus animastici de externis sensibus (Neapoli 1636), dedicato a Ferdinando II di Toscana, in omaggio alle benemerenze della famiglia de' Medici verso gli studi sperimentali.
Dalla corrispondenza intercorsa tra il 1621 e il 1626 con Giulio Giordano (conosciuto attraverso il Frachetta) apprendiamo che il F. aveva ottenuto, tramite il duca di Urbino, l'onorificenza dell'Ordine spagnolo di Calatrava (1618). Successivamente, dopo avere invano brigato presso il viceré di Napoli per essere nominato consigliere di Stato, acquistò nel 1626, sempre per intercessione dei Della Rovere, il titolo di duca di Castro. Il F. morì a Napoli nel 1636.
Oltre alle opere citate, rimangono 26 lettere al Giordano e ad altri corrispondenti (Pesaro, Biblioteca Oliveriana, ms. 1605).
Fonti e Bibl.: C. De Lellis, Famiglie nobili del Regno di Napoli, Napoli 1671, III, p. 167; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1678, p. 79; B. Chioccarelli, De illustribus scriptores qui in civitate et Regno Neapolis…, Neapoli 1780, pp. 157 s.; G. Ferrari, Corso su gli scrittori politici ital. (1802), Milano 1929, pp. 344, 613, 647; T. Persico, Gli scrittori politici napoletani dal 1400 al 1700, Napoli 1912, pp. 388-402 (rec. di V. Cian, in Giorn. stor. della letteratura italiana, XXXI [1913], p. 221); T. Bozza, Scrittori politici italiani dal 1550 al 1650, Roma 1949, pp. 122 s.; G. Mazzatinti, Invent. dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, XLVIII, p. 136.