FRANGIPANI, Fabio Mirto
Nacque probabilmente a Napoli nel 1514 da Isabella Monsenis y Gord, nobildonna spagnola, e da Pietro. Non si hanno notizie significative circa la sua formazione, che però venne sin dall'inizio finalizzata alla carriera ecclesiastica. Il 30 luglio 1537, in sostituzione dello zio Alessandro, fu nominato vescovo di Caiazzo. Il F. si legò strettamente alla famiglia del pontefice Paolo III e cercò nello stesso tempo di manifestare la propria fedeltà al viceré spagnolo, nel cui territorio era la sua diocesi. Anche se un po' tardi rispetto alle sue aspettative, l'ingresso del F. nel funzionariato pontificio avvenne nel giugno 1555 proprio grazie all'appoggio del cardinale Alessandro Farnese, con la nomina alla vicelegazione di Ascoli, dove era stato inviato per punire i responsabili dell'omicidio del predecessore Sisto Bezio, inseguito e pugnalato in sagrestia. Di fronte all'azione sacrilega e alla gravità dell'insubordinazione, il F. palesò immediatamente determinazione e severità indubbie: condannò in contumacia i tredici congiurati e operò confische e distruzioni. Dopo l'elezione di Paolo IV Carafa nel maggio 1555, si trovò a fronteggiare le incombenze, per lui probabilmente imbarazzanti, determinate dalla guerra scoppiata tra il pontefice e la Spagna. Il 7 ag. 1556 fu nominato governatore di Perugia, carica alla quale affiancò per breve tempo (1557) la vicereggenza di Todi. Nel suo governo, assecondando la volontà dei Carafa e divenendo strumento del loro pesante fiscalismo, si occupò di ottenere dai Perugini 10.000 ducati a sostegno dello sforzo bellico del papa. Nel dicembre 1557 poi il F. inviò truppe per reprimere duramente la rivolta della Comunità di Bettona, che si era ribellata alla famiglia Baglioni. L'inflessibilità del suo agire, l'opinione diffusa di una corresponsabilità con le malversazioni e le rapacità dei Carafa, i rancori accumulati e le lamentele dei rappresentanti locali, che andavano moltiplicando le loro rimostranze in Curia, non furono affatto estranee alla sua rimozione traumatica. Nel marzo 1559, con modalità assai spicciative, fu sostituito da G.B. Castagna, arcivescovo di Rossano e futuro Urbano VII, inviato a Perugia per azzerare gli incarichi conferiti a personalità compromesse da stretti rapporti con Giovanni, Antonio e Carlo Carafa, ormai in rotta di collisione con lo zio pontefice a seguito del celebre e tumultuoso concistoro del 27 gennaio. Il F., pur essendo rimasto in prigione per due mesi, uscì abbastanza indenne dalla disavventura; innegabili furono comunque le ricadute della vicenda sulle sue ambizioni curiali e tali da costringerlo necessariamente a una posizione molto più defilata. Partecipò quindi alla terza fase dei lavori del concilio di Trento, dove nel dicembre 1562 si pronunciò sulla questione della residenza dei vescovi, a suo avviso giustificabile per diritto umano, divino e naturale. Condusse una vita piuttosto ritirata nella sua diocesi sino a quando nel 1567 non fece istanza al sempre potente Alessandro Farnese, per ottenere un impiego a Roma. Il F. venne accontentato l'anno seguente con un incarico prestigioso: la nunziatura di Francia, dove fu destinato in un primo momento, il 2 ag. 1568, a ricoprire il ruolo di nunzio straordinario, ma di lì a pochi giorni (15 agosto), prese possesso della nunziatura ordinaria.
Nell'istruzione si raccomandava un impegno permanente nei rapporti franco-papali, dal duplice carattere politico ed economico. Al nunzio si chiedeva essenzialmente di gestire il rilevante sforzo finanziario di Pio V in favore delle truppe cattoliche. Sul versante più prettamente politico, da Roma si caldeggiava un incalzante intervento per l'allontanamento dei riformati dagli ambienti della corte. Infine, doveva avviarsi una grande iniziativa per ottenere dalla monarchia pronunciamenti e chiare misure repressive contro i principali ribelli ugonotti e in particolare nei confronti del loro capo carismatico, l'ammiraglio Gaspard de Coligny. Giunto a Parigi il 31 ag. 1568, sebbene a corte regnassero una grande confusione e l'incertezza più totale, i primi mesi di attività diplomatica furono contrassegnati da incoraggianti risultati. Il F. riuscì, nell'ottobre 1568 e dopo insistite proteste, a far finalmente rimuovere e allontanare da Parigi il vescovo di Valence, Jean de Monluc, che era stato accusato di eresia e scomunicato da Pio IV. A lui era poi affidata la stretta sorveglianza delle effettive intenzioni belliche della corte, vista la stretta connessione tra l'elargizione di fondi e la sincerità delle scelte antiugonotte della corte, di Carlo IX e in primo luogo della regina Caterina de' Medici.
Tutto il 1569 fu impiegato dal nunzio a osservare l'andamento della guerra e a organizzare l'invio di una armata papale, che partì da Roma nell'aprile sotto il comando di Ascanio Sforza, composta di 4.000 fanti e 500 cavalieri, spalleggiata da un esercito mediceo di 1.000 fanti e 100 cavalieri, i cui meriti bellici contribuirono all'attribuzione a Cosimo del titolo granducale. Tuttavia, l'opera del F. trovava spesso in Caterina de' Medici un interlocutore sfuggente, sensibile soltanto alla promessa di denaro, caratterizzato da una sostanziale vocazione alla prudenza politica e da una strategia mirata a conservare l'autorevolezza della monarchia, fortemente minacciata dal potere nobiliare e dalla estrema necessità di denaro. In questo anno comunque il F. riuscì a svolgere un ruolo significativo nel far riprendere con più convinzione la guerra contro gli ugonotti.
Nel 1570 si aprì invece una stagione ben più impegnativa e deludente per la S. Sede: infatti, a partire dal gennaio, la chiara volontà di intavolare trattative con il fronte dei ribelli riformati mise subito in allarme Pio V e Filippo II, che ebbero ben presto conferma dal F. della notizia di contatti tra il Coligny e Carlo IX. L'attività di disturbo del nunzio, sostenuta dalla fiducia totale da parte del pontefice, si esplicitò in un'incessante protesta a corte contro ipotesi di riconoscimento politico-militare, considerate letali per la causa cattolica, quali la concessione di piazzeforti come La Rochelle e Cognac, "due Ginevre" nel Regno di Francia. Il momento più intenso della nunziatura fu quando venne stipulata la pace di Saint-Germain-en-Laye (8 ag. 1570): il F. si dimostrò molto attivo su diversi fronti, lottando tenacemente per un'interpretazione restrittiva delle clausole. Il 22 sett. 1570 protestò vivacemente contro la pace in una lunga udienza di fronte ai sovrani. Fece presente i rischi per la monarchia di Francia e per la religione cattolica di un accordo che concedeva molto più di quanto non avessero avuto i riformati prima dei disastri militari dell'anno precedente.
Abbracciando nella sostanza le tesi di Filippo II, il F. pensava a una soluzione radicale dei problemi confessionali attraverso un'azione diplomatica e militare. Allo scopo di contrastare quanti tentavano di far prevalere la ragion di Stato, riteneva necessario salvaguardare il re dalle insidie e incitarlo a una politica assolutista affiancandogli buoni consiglieri in grado di mitigare l'influenza sovrastante di Caterina de' Medici, con la quale considerava "non opportuno" trattare a fondo le questioni inerenti al sostegno del partito cattolico. Il F. sostenne con calore l'opzione militare e cruenta in considerazione della superiorità numerica dei cattolici, la dichiarata volontà dei cattolici d'Europa di aiutare il re di Francia, la crisi finanziaria del campo ugonotto e la difficoltà dei nemici a ottenere aiuti dal mondo riformato tedesco.
Quando venne ufficialmente reso noto il capitolato della pace, il F. ostacolò i numerosi tentativi di reintegrare nei propri beni il cardinale Odet de Coligny, detto di Châtillon, giudicato eretico nel 1563, nel vescovato di Beauvais e resistette alle pretese monarchiche di esercitare un diritto di sorveglianza nel Contado Venassino e in Avignone, alla cui protezione venne destinato un contingente militare sotto la guida di Torquato Conti. L'azione del F. venne sostenuta nell'ottobre 1570 dal papa con la missione segreta del protonotario Francesco Bramante per sottolineare gli elementi di pregiudizio insiti nell'accordo. Mentre Bramante stilava liste di nobili sospetti o troppo vicini agli ugonotti, nel novembre il nunzio informò Roma delle posizioni tolleranti del re e della regina rispetto al Coligny e scriveva che "tutto è a fine di poter ridur questo malo maestro, con quei suoi scolari alla Corte, o in luoco, dove se li potesse metter le mani a dosso. Queste cose non si dicono, né si deveno dire con altri…" (Correspondance… Frangipani, p. 125), mostrando perlomeno di condividere così con largo anticipo l'intenzione stragista dei sovrani. Nel corso dell'anno seguente, si oppose invano ai piani matrimoniali che volevano Margherita di Valois sposa a Enrico di Navarra, cui veniva contrapposto il re Sebastiano di Portogallo; in secondo luogo, riuscì a far fallire il ventilato progetto di un'unione tra il duca d'Anjou ed Elisabetta Tudor. Quindi, il F. dovette affrontare spinose tematiche di politica estera e interna: nonostante ripetuti sforzi Carlo IX non fu coinvolto nella lega antiturca di Lepanto, anzi, si verificò un serio avvicinamento diplomatico della Francia con l'Impero ottomano e si manifestò un aumento ulteriore del credito di Coligny, pronto a intavolare trattative a Blois con una corte che, a detta di un mortificato e furente F., lo vedeva nell'ottobre 1571 "così domestico et così sicuro et dirò ancho così sfacciato" (ibid., p. 155).
Nel 1572 il F. si trovò a constatare il naufragio della politica papale e personale in Francia: venne infatti stipulato il contratto matrimoniale di Enrico e Margherita, e vi fu un netto riavvicinamento franco-inglese che si concretizzò nel trattato di Blois (19 apr. 1572). E subito dopo la morte di Pio V, il neoeletto Gregorio XIII intese riconsiderare la posizione di personaggi stimati difficili o troppo schierati e richiamò il F. alla fine del luglio 1572, giusto in tempo per non assistere di persona al massacro della notte di S. Bartolomeo. Alla sua sostituzione non fu certamente estranea la sorda lotta ingaggiata dal suo successore, Antonio Maria Salviati, cugino di Cosimo e Francesco de' Medici, imparentato alla regina e considerato un prezioso tassello di un ipotetico asse Roma-Firenze-Parigi.
Tornato in Italia, il F. non si perse d'animo e si avvicinò alquanto al cardinale Antonio Carafa: l'8 ott. 1572 gli fu affidato il governo delle Marche e il 5 novembre divenne arcivescovo di Nazareth con residenza a Barletta. Il primo genn. 1575 fu nominato governatore di Bologna e, dopo la nomina a maestro del Sacro Palazzo (1577) e a governatore di Perugia (1580) e delle Marche (1581), tornò a ricoprire tale carica ancora nel settembre 1583.
All'inizio del giugno 1574 veniva richiamato al servizio diplomatico per un primo viaggio come nunzio straordinario per le condoglianze per la morte di Carlo IX, ma in realtà per trattare l'entità di una nuova concessione di natura patrimoniale da parte del papa. Con l'ovvio sostegno spagnolo il F., già durante il viaggio, aveva dato seguito alle indicazioni papali sostando a Firenze e a Torino allo scopo di illustrare una strategia concertata e di lungo periodo, in grado di coinvolgere le principali potenze cattoliche in un impegno attivo per il soccorso alla causa cattolica. Giunto a Parigi il 4 luglio, il F. non tardò ad accorgersi delle difficoltà, a causa dei pessimi rapporti che intercorrevano tra lui e il nunzio Salviati, il quale lo accusò apertamente di non informarlo adeguatamente degli scopi della missione e di non voler condividere le incombenze diplomatiche più importanti giungendo persino a negargli l'uso della cifra ordinaria. Questo clima di risentimento non giovò certo alla trattativa, che impegnò duramente il F. per tutta l'estate contro la tenacia contrattuale di Caterina de' Medici.
Nelle indicazioni papali, in linea di principio si esprimeva l'avversione alla vendita di beni della Chiesa mentre vi era il permesso di accordare alla corte la metà delle rendite ecclesiastiche francesi; il F. poteva contare anche su una polizza particolare di 50.000 scudi personali del papa (che peraltro non vennero mai accordati) da utilizzare a seconda della volontà dimostrata dalla regina di rifiutare ogni dialogo con i riformati, di dimostrare disponibilità a pacificarsi con la Spagna e di riprendere sul serio la lotta armata. Caterina de' Medici, viceversa, sembrava interessata a ottenere aiuti per il rafforzamento del neomonarca Enrico III, giudicato dal F. fragile e politicamente insignificante, manovrando per riservarsi una completa autonomia decisionale che non prevedeva certo un accordo di pace con Filippo II, di cui il papa si sarebbe fatto garante, oppure un impraticabile annientamento dei ribelli protestanti. Sulle questioni finanziarie, non senza aver subito l'ira della regina venuta a conoscenza della somma segreta in suo possesso, il F. cercò abilmente una soluzione di compromesso. Tramontata l'ipotesi, da lui proposta, dell'istituzione di una rendita onorevole fondata su una decima ordinaria, finì per rendersi inevitabile l'idea dell'alienazione: in tal senso, riuscì ad accordarsi sulla cifra di 2.000.000 di franchi di cui una metà proveniva dalla tassazione delle rendite e l'altra dalle vendite dei beni ecclesiastici. In tutta questa vicenda il F. non mancò di segnalare il ruolo, poco congruo ai desideri del pontefice, svolto da una parte consistente del clero francese: il F. sostenne, confermando una lucidità che mai gli farà difetto, che chi voleva alienare erano "li preti et li più potenti che non vorrebbeno metter mano a la propria borsa, et vorrebbeno vender per la Chiesa et comprar per se stessi et per li suoi" (ibid., pp. 224 s.).
Nel novembre 1575 il F. si trovò a dover compiere una seconda missione di carattere straordinario in Francia per riconciliare il re con suo fratello, Hercule-François duca d'Alençon, fuggito dalla corte il 15 settembre. La gravità che veniva attribuita da Gregorio XIII al gesto fece sì che 100.000 scudi venissero subito assegnati al re e che al F. fosse affidato il compito di prendere contatto con il duca proponendo un'ennesima mediazione romana. Il F. riuscì a fissare un abboccamento il 24 gennaio: per tre giorni cercò di avviare una trattativa con il duca e con le famiglie dei Montpensier e dei Montmorency, insistendo sulla buona disposizione e la garanzia del papa sulla riconciliazione ed escludendo però tassativamente qualsiasi rapporto con i riformati: questo fu l'insormontabile scoglio contro il quale s'infransero le possibilità di accordo. Il 4 febbraio era già di ritorno a Parigi senza aver ottenuto nulla e ribadendo duramente il suo giudizio sull'entourage dell'Alençon, considerato un'accolita di giovani "senza barba e senza cervello". Di fronte al fallimento diplomatico il F., al solito infastidito dalla presenza del nunzio Salviati e per un senso di progressiva emarginazione da parte dei sovrani francesi, decise di riannodare contatti segreti con i Guisa per favorirli nell'assunzione totale della guida della Lega cattolica, lavorando per il sostegno finanziario e politico a una ripresa delle ostilità in grande stile. Nel maggio 1576, dopo la pace di Beaulieu, assai favorevole ai riformati, il F. protestò violentemente a corte segnalando con soddisfazione, prima di rientrare in Italia nell'ottobre, il grande scontento dei cattolici francesi e la loro evidente resistenza ad approvare l'operato del re.
La fama di essere diventato ormai un propagandista e informatore puntuale di Filippo II alla corte francese pesò notevolmente in occasione della terza e breve missione straordinaria svoltasi nell'estate del 1578, il cui obiettivo era quello di evitare con ogni mezzo un intervento militare del duca d'Alençon in sostegno dei rivoltosi nelle Fiandre spagnole: insieme con i rappresentanti veneziani e sabaudi si impegnò invano per bloccare il progetto bellicoso. Il risultato richiesto dal papa non fu raggiunto e nel frangente il F. mostrò un attivismo troppo esuberante che travalicò addirittura i termini delle istruzioni ricevute da Roma e risultò lesivo delle competenze del nunzio ordinario Anselmo Dandino: inoltre la smaccata frequentazione dell'ambasciatore spagnolo a Parigi, Juan de Vargas, gli alienò persino il favore pontificio e contribuì, contrariamente agli esiti sperati da questo eccesso di zelo, a un arresto significativo della sua carriera diplomatica e all'allontanamento di quella porpora cardinalizia che egli riteneva ormai logica e imminente per i suoi trascorsi diplomatici in una corte europea di prima grandezza.
Dunque, retrocesso al rango di un funzionariato minore, il F. ritrovò la strada dell'impiego diplomatico soltanto dopo la morte di Gregorio XIII. Il 16 giugno 1585 fu nominato da Sisto V nunzio in Francia in sostituzione di Girolamo Ragazzoni. Le sue simpatie spagnole non furono certo estranee a questo incarico, in una fase in cui la morte dell'Alençon e la possibilità di una successione al trono di Enrico di Navarra avevano accelerato l'avvicinamento della Lega cattolica alla Spagna nonché una ripresa delle ostilità contro un sempre più fragile istituto monarchico. Il F. si trovò al centro di una crisi diplomatica che accentuò gli elementi di incertezza intorno alla sua persona contro la quale cospiravano la viva memoria del suo comportamento passato, l'ininterrotta avversione medicea, l'incessante attività a lui ostile dell'ambasciatore francese a Roma, Jean de Vivonne, l'indifferenza del suo padrone storico, il cardinale Farnese, vecchio e stanco, e la recente inimicizia del cardinal protettore della Francia, Luigi d'Este. Clamorosamente, il F. venne infatti bloccato dal re a Lione, invitato a non proseguire per Parigi e a rientrare in Italia; di contro all'ambasciatore francese a Roma fu intimato di lasciare lo Stato pontificio entro cinque giorni, e il 21 settembre Sisto V promulgò la bolla che dichiarava il re di Navarra e il principe di Condé eretici notori e recidivi. Soltanto la missione del vescovo parigino, Pierre Gondi, riuscì a ristabilire un dialogo, e la riconciliazione ebbe un esito favorevole per il F. che poté finalmente recarsi nell'agosto dell'anno seguente a Parigi, dove trovò un sovrano verbalmente disposto a sostenerlo per il cardinalato.
La situazione che il F. dovette affrontare appariva più che mai piena di incognite e le speranze di imbastire un efficace lavoro diplomatico erano inibite da una situazione politica confusissima. Gli argomenti del F. per l'unità religiosa della Francia risultarono ormai usurati nella stanchezza generale ed egli poté certificare la scarsa probabilità di una pacificazione che fosse vantaggiosa per i cattolici. Dal suo soggiorno parigino nell'estate del 1586, il F. raccontava di un re impotente tra le fazioni e forniva scarsi elementi intorno all'andamento delle conferenze di Saint-Brice tra Caterina de' Medici e i Navarra a un papa che incominciava a guardare con un occhio più possibilista dello stesso nunzio l'ipotesi di un temporaneo accordo. Il F. forse incominciò a pensare principalmente a se stesso cercando di sfruttare l'apparente amicizia del re, mantenendo nello stesso tempo stretti rapporti con i "ligueurs" e con l'ambasciatore spagnolo Bernardino de Mendoza, stilando una corrispondenza diplomatica ambigua e attenta a compiacere la Curia romana.
Però, caso assai insolito per un servizio diplomatico così reiterato in una sede prestigiosa come quella della corte francese, il F. morì a Parigi il 16 marzo 1587 senza aver ottenuto il sospirato cappello cardinalizio e, dopo un modesto funerale, venne seppellito nella chiesa dei Celestini.
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