Colonna, Fabrizio
Nacque con ogni probabilità tra il 1450 e il 1460 da Odoardo, duca dei Marsi (m. 1465), e da Covella (Jacovella) di Celano. Vassallo di Ferdinando d’Aragona, re di Napoli, passò la giovinezza combattendo gli Orsini, tradizionali nemici della sua famiglia. Nel 1485-86 i Colonna, accordatisi con i Savelli e i Caetani, si schierarono con il papa contro Ferdinando, ma nel 1492 C. era di nuovo al servizio del re di Napoli, che, in occasione del conclave seguito alla morte di Innocenzo VIII, gli ordinò di tenersi a disposizione del cardinale Della Rovere. Nel febbraio del 1494 erano in atto trattative per la riconferma della condotta di Fabrizio e del cugino Prospero. Alfonso II, successo al padre un mese prima, si diceva deciso ad averli ambedue o almeno uno al suo servizio, mentre anche Ludovico il Moro era desideroso di assoldarli. Fabrizio, allora a Napoli, pareva propenso a porsi agli stipendi dell’Aragonese, ma nel maggio gli ambasciatori di Carlo VIII a Roma assoldarono entrambi i Colonna. Mentre Carlo VIII discendeva trionfalmente l’Italia, Fabrizio e il cugino posero il campo vicino Frascati con 4000 uomini e 600 cavalieri. Fra l’agosto e il settembre del 1495 Fabrizio ritornava dalla parte del re di Napoli, e nel gennaio successivo combatteva davanti a Gaeta contro il presidio francese con centoventi uomini d’arme, trecento svizzeri e molti fanti, agli ordini del principe di Altamura, Federico d’Aragona. Dopo aver partecipato nel giugno-luglio al decisivo vittorioso assedio di Atella, Fabrizio nell’agosto fu di nuovo utilizzato contro Gaeta. Il 10 settembre 1496 era all’Aquila, che ridusse sotto il dominio degli aragonesi.
Dopo la conquista del Milanese da parte di Luigi XII e la conclusione del minaccioso trattato di Granada (11 nov. 1500), i francesi mossero contro il Regno di Napoli e il papa, alleato di Luigi, si impadronì di molte terre colonnesi. C., cui era stata affidata da re Federico la difesa di Capua, non poté impedire che la città, dopo quattro giorni di bombardamento, fosse conquistata e saccheggiata (10 luglio); egli stesso fu fatto prigioniero da François de La Trémoille, che pretese per il riscatto 14.000 ducati. Nell’agosto del 1501, insieme al cugino Prospero, Fabrizio accompagnò a Ischia re Federico quando questi vi si trasferì, prima di abbandonare definitivamente il Regno per il suo esilio francese. Dopo questi episodi C. associò le sue fortune a quelle degli spagnoli e al loro soldo entrò a far parte dell’esercito comandato da Gonzalo Fernández de Córdoba. Nella guerra, che ben presto si accese, tra Francia e Spagna, C. ebbe un ruolo importante alla testa della sua cavalleria leggera. Ai primi di febbraio del 1503 i combattenti italiani della disfida di Barletta furono scelti nelle schiere di Fabrizio, di Prospero e del duca di Termoli.
Il 18 agosto 1503, tre mesi circa dopo l’occupazione di Napoli da parte degli spagnoli, morì Alessandro VI. Immediatamente gli Orsini e i Colonna si portarono a Roma. Fabrizio vi giunse con molte genti d’arme, fornitegli da Gonzalo Fernández de Córdoba, rimanendovi finché le trattative che il cugino Prospero conduceva con Cesare Borgia non fallirono e il Collegio dei cardinali il 1° settembre non ingiunse al duca Valentino e ai Colonna di lasciare la città entro tre giorni. Intanto Gonzalo Fernández de Córdoba aveva raggiunto Sessa, per muovere poi contro Gaeta, dove si erano concentrate le forze francesi. Ai primi di novembre i due eserciti finirono con l’attestarsi a Traetto, sulle opposte sponde del Garigliano; Fabrizio ricevette l’incarico di disturbare i francesi che mettevano il campo e fu inviato a contrastarli quando il 6 novembre essi riuscirono a costituire una testa di ponte oltre il Garigliano; ma non partecipò poi alla fase decisiva della battaglia.
Strettasi la lega di Cambrai (10 dic. 1508), Venezia avrebbe voluto assoldare Fabrizio, che preferì rimanere al servizio della Spagna. Dopo il rovesciamento delle alleanze operato da Giulio II, alla testa di un contingente di truppe spagnole Fabrizio fu inviato a dar man forte all’esercito pontificio: così, quando il 10 ottobre 1510 i francesi tentarono di impadronirsi di Bologna, al comando di trecento spagnoli riuscì a farli desistere. Partecipò all’assalto vittorioso del castello della Mirandola, ma subì poi, con l’esercito pontificio, i rovesci che portarono alla perdita di Bologna (maggio 1511). Conclusa il 5 ottobre 1511 la lega Santa, C. ne fu nominato governatore generale dell’esercito, alle dipendenze del viceré di Napoli Raimondo Cardona, capitano generale. L’11 aprile 1512 partecipò alla battaglia di Ravenna, tentando invano di modificare le disposizioni tattiche del Cardona che costarono la disfatta agli ispano-pontifici.
Caduto nelle mani del duca di Ferrara, rimase suo prigioniero per qualche tempo. Fu nominato il 20 dicembre 1515 gran connestabile del Regno di Napoli. Morì ad Aversa il 20 marzo 1520 e fu seppellito a Paliano. Aveva sposato Agnese, figlia di Federico da Montefeltro, duca di Urbino, e aveva avuto sei figli, tra i quali la celebre Vittoria.
Un tentativo di condurre C. da parte del governo fiorentino è ricordato nelle lettere della legazione machiavelliana a Giampaolo Baglioni (11 apr. 1505, LCSG, 4° t., p. 416). La sosta di Fabrizio a Firenze, nel settembre 1516 (il capitano tornava a Roma dopo la conclusione della guerra franco-spagnola in Lombardia), e una sua visita agli Orti Oricellari, allora già frequentati da M., danno spunto alla scelta di fare del condottiero il protagonista dei dialoghi sull’Arte della guerra e il portavoce del pensiero militare dell’ex Segretario. Qui la figura del C. storico emerge solo in controluce, per accenni indiretti, ma in luoghi ‘rilevanti’ del trattato: è Cosimo Rucellai a rivolgerglisi osservando come «nella guerra, la quale è l’arte vostra e in quella che voi siete giudicato eccellente, non si vede che voi abbiate usato alcuno termine antico, o che a quegli alcuna similitudine renda» (I 36); il C. machiavelliano risponde dapprima negando di avere esercitato la guerra come professione (il che contraddice la realtà storica, ma è qui funzionale all’argomentazione a favore di un esercito ‘civile’):
E perché voi allegasti me, io voglio essemplificare sopra di me; e dico non aver mai usata la guerra per arte, perché l’arte mia è governare i miei sudditi e defendergli e, per potergli defendere, amare la pace e saper fare la guerra. E il mio re non tanto mi premia e stima per intendermi io della guerra, quanto per sapere io ancora consigliarlo nella pace (I 108-09).
Più storicamente fondata la risposta che giunge nell’ultimo libro, laddove il condottiero evidenzia l’impossibilità per lui, nelle sue condizioni di subalternità e scarso potere personale, di tentare di attuare un simile trasferimento al presente degli antichi ordini: bisogna essere
principi che, per avere molto stato e assai suggetti, hanno commodità di farlo. De’ quali non posso essere io, che non comandai mai né posso comandare se non ad eserciti forestieri e ad uomini obligati ad altri e non a me (VII 209-10).
Di qui la solenne ‘delega’ ai giovani interlocutori, con cui si chiude il dialogo:
E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi doveva fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo esseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, potere averne alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che essendo giovani e qualificati potrete, quando le cose dette da me vi piacerano, a’ debiti tempi in favore de’ vostri principi aiutarle e consigliarle (VII 245-46).
Bibliografia: F. Petrucci, Colonna Fabrizio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 28° vol., Roma 1982, ad vocem (con bibl. prec.).