LAMBERTAZZI, Fabruzzo
Nacque a Bologna intorno agli anni '40 del Duecento da Tommasino. Il L. non è quindi da confondere con il contemporaneo Fabruzzo di Guiduccio Lambertazzi, di cui si conservano diverse testimonianze documentarie. Della madre del L. s'ignorano nome e casato.
Il padre, morto tra l'agosto e il settembre 1265, fu fratello del Fabbro lodato da Dante (Purgatorio, XIV, 100) e figlio di Bonifacio, cui si deve, secondo la tradizione, l'origine della contrapposizione tra le partes bolognesi dei Lambertazzi ghibellini e dei guelfi Geremei, durante la crociata in Terrasanta del 1217. A una sorella, Filippina, il L. assegnò, insieme con il fratello Pietro Riccio, 200 lire di bolognini di dote quando sposò, il 17 genn. 1274, Niccolò d'Ugolino Lolli. Ebbe inoltre tre fratelli, Bughino, morto intorno agli anni '70 del Duecento, Azzo, celebre dottore in legge, e Pietro Riccio, sposato nel 1271 con Diana di Giovanni Scannabecchi, membro di una delle più importanti, nobili e antiche famiglie bolognesi di parte ghibellina.
Il 28 giugno 1270 il L. sposò Bartolomea di Bonifazio Marzaloli, la quale, durante gli anni dell'esilio del marito, risiedette a Bologna nelle case poste nella "cappella" di S. Lorenzo del Borgo del Pratello, di proprietà dei fratelli Galvano, Nascimbene e Tommaso.
Il L. proveniva da un famiglia che ricerche ottocentesche e recenti fanno derivare da un Petrone, duca e marchese d'età carolingia. Grazie agli studi di Milani è noto che i Lambertazzi fecero parte dell'aristocrazia consolare nel secolo XII; vantavano, infatti, un console di nome Guizzardo nel 1187 e furono costantemente presenti nei Consigli cittadini tra il 1206 e il 1220. La famiglia risiedeva all'interno della prima cerchia muraria, nella zona più antica e prestigiosa della città, precisamente nelle cappelle gentilizie di S. Vito, S. Tecla e S. Michele dei Lambertazzi, prospicienti piazza Maggiore e la zona dei mercati, tra via delle Clavature e via degli Orefici, accanto e di fronte ai palazzi del Comune. I Lambertazzi erano proprietari di torri e parrocchie private in città e di terreni e casali nel contado; tutti elementi utili a definire il carattere magnatizio e aristocratico della famiglia. Ancora nel 1273, alla vigilia del bando politico che lo colpì nel 1274, il L. condivideva insieme con i fratelli e il nipote, Tommasino, parte del patrimonio paterno. Di non minore rilievo per delineare lo status politico e giuridico del L. sono i documenti che dimostrano come nel Liber Paradisus del 1256 i suoi discendenti e il padre risultassero proprietari di numerosi "servi et ancille" ed esercitassero, tra il 1248 e il 1249, la milizia a cavallo per il Comune, e godevano dei privilegi fiscali attribuiti ai cavalieri in un periodo in cui la società bolognese era basata sulla divisione tra milites e pedites. Dai dati riportati da Gaulin, emerge che numerosi podestà impiegati nel circuito filoimperiale degli anni '40 e '50 del Duecento provenivano dalla famiglia Lambertazzi.
Una copiosa serie di atti registrati nei memoriali bolognesi testimonia la professione di cambiatore esercitata dal L. tra il 1265 e il 1° febbr. 1274, anche in società con i fratelli Pietro Riccio e Azzo e con altri cambiatori bolognesi. Emergono i frequenti prestiti di denaro che il L. concedette anche per somme elevate a una clientela eterogenea, costituita da italiani e stranieri, studenti e religiosi.
Nella primavera del 1274 divampò la guerra civile, originata dalla controversa decisione del Consiglio comunale di intervenire militarmente contro la città di Forlì, che rifiutava di accettare nel suo contado alcuni podestà bolognesi, mentre i Lambertazzi premevano per dirigere l'esercito contro Modena, dove nel 1272 erano stati cacciati i ghibellini. Gli scontri, che registrarono la sconfitta dei ghibellini, determinarono il definitivo ingresso di Bologna nell'orbita dell'alleanza guelfo-angioina. Nel giugno il L., la sua famiglia e la sua consorteria abbandonarono la città per ritirarsi a Faenza, dove nel 1280 ebbe luogo l'episodio cantato da Dante del tradimento dei ghibellini da parte di Tebaldello Zambrasi, relegato perciò nell'Antenora (Inferno, XXXII, 122). A causa dell'allontanamento volontario dalla città il L. fu condannato alla pena del bando e per questo il suo nome è registrato negli Elenchi dei ghibellini banditi dalla cappella di S. Vito dei Lambertazzi del quartiere di Porta Ravennate. Grazie a quei Registri allestiti dai giudici del capitano del Popolo addetti ai beni dei banditi e confinati di parte lambertazza, è possibile ricostruire la sua "carriera" di ghibellino.
In seguito a quegli scontri alcune case del L. e della sua famiglia furono distrutte, altre invece requisite, vendute o affittate a cittadini di parte geremea; il medesimo destino toccò ai beni nel contado. Ancora nel Liber terminorum del 1294, conservato nel Registro grosso del Comune di Bologna, si fa riferimento agli edifici, circostanti piazza Maggiore di Bologna, di proprietà dei Lambertazzi, ubicati tra il palazzo Vecchio del Comune e la chiesa di S. Maria dei Rustigani: "domus que fuerunt heredum quondam domini Thomasini de Lambertaciis versus platea et iuxta viam publicam, et iuxta casamentum domorum Gerardi et Fabrucii de Lambertaciis".
Nel 1278, in seguito alla rinuncia dell'imperatore Rodolfo I d'Asburgo a favore del pontefice di ogni diritto su Bologna e la Romagna, Niccolò III inviò in città, come rettore, suo nipote Bertoldo Orsini, e i Lambertazzi poterono rientrare nel settembre 1279, per essere di nuovo espulsi dai Geremei capeggiati da Rolandino Passeggeri nel dicembre dello stesso anno; il L. è infatti citato in una lista di 45 nomi di Lambertazzi mandati a confine, chi a Pisa chi a Mantova, registrata da Pietro Cantinelli (Pietro da Cantinello) nel suo Chronicon. La crudeltà di quegli anni e la durezza di quegli scontri sono ricordati nei versi del bolognese e anonimo Serventese dei Lambertazzi e dei Geremei. Nel 1287 i Lambertazzi del quartiere di Porta Ravennate furono confinati a Lucca; nello stesso anno il L. poté fare rientro a Bologna e il suo nome fu registrato nel Liber Misericordie, dove erano vergati i nomi dei ghibellini riaccolti in città, in seguito alla decisione presa da una commissione di quaranta sapienti. Altri Lambertazzi fecero rientro nella cappella di S. Vito tra il 6 e il 31 ag. 1292, mentre alcuni si presentarono davanti al podestà di Treviso, Tebaldello de Bruxatis, il 27 sett. 1292. Senza dubbio a partire dai primi anni '90 del Duecento il flusso dei rientri fu ininterrotto.
Questo processo di reintegrazione fu favorito dal Consiglio del Popolo, spinto dalla necessità di reclutare uomini esperti nelle armi da schierare contro il marchese Azzo (VIII) d'Este, signore di Ferrara, con cui era aperto dal 1295 un lacerante scontro militare. Così nel 1297 alcuni dei casati ghibellini di tradizione più antica furono ammessi a giurare la Parte geremea e proprio il 18 giugno 1297 nei memoriali bolognesi è attestata la presenza del L. in qualità di curatore degli interessi dei nipoti, Tommasino del fu Bughino, Petruccio e Azzo figli del defunto magister Azzo Lambertazzi. Questo processo di pacificazione fu favorito tra il 1298 e il 1299 dall'intervento del pontefice Bonifacio VIII, che s'impegnò a far rientrare definitivamente i Lambertazzi fuoriusciti, e per tale ragione furono convocati come mediatori Alberto Della Scala e Matteo Visconti. Finalmente nel settembre del 1299 i Lambertazzi fecero ufficialmente rientro a Bologna, per la seconda volta, dopo vent'anni d'esilio. Grazie a Cherubino Ghirardacci sappiamo che il L. fu uno dei fautori della pace.
Non è nota la data della morte del L., né se abbia avuto figli; pare infatti debba essere rivista la tesi di Guido Zaccagnini, che attribuiva al L. un figlio di nome Azzolino, al quale in un Estimo sono attribuiti 325 lire di bolognini nel 1305, mentre una serie cospicua di documenti testimonia di un Azzolino figlio di Fabruzzo di Guiduccio Lambertazzi.
Fabruzzo di Guiduccio Lambertazzi compare accanto a suo fratello Gerardo in tre documenti dell'anno 1256 pubblicati nel Liber Paradisus, ed era già morto il 26 genn. 1273, quando sua moglie Beatrice fu fatta tutrice dei figli Azzolino, Guizzarda, Bartolomea e Agnese. Azzolino fu bandito negli anni '70 del Duecento e nel 1287 fu confinato a Pistoia, ma poté fare rientro in città nel gennaio 1297 dopo avere giurato la Parte geremea. Di costui si conserva il testamento redatto il 17 nov. 1296 nel convento francescano di Modena, nel quale sono citati la sorella Guizzarda, moglie di Pellegrino da Baiso, la madre Beatrice e il figlio Lanbertacinus, nato da Giovannina di Mantova. Pertanto pare plausibile identificare con questo personaggio l'Azzolino ritenuto dallo Zaccagnini figlio del Lambertazzi.
Queste considerazioni hanno un peso non irrilevante perché riaprono il problema dell'identificazione del poeta di nome Fabruzzo Lambertazzi citato due volte da Dante nel De vulgari eloquentia, e che dunque non deve essere identificato con il L., ma con l'omonimo Fabruzzo di Guiduccio Lambertazzi. Tuttavia è possibile - ma davvero poco probabile - che uno dei due sia autore della canzone ricordata dall'Alighieri e l'altro del sonetto di argomento morale. Fabruzzo Lambertazzi è nominato nel De vulgari eloquentia, la prima volta in rapporto al volgare bolognese, terzo in un elenco di quattro conterranei: "Non etenim est quod aulicum et illustre vocamus: quoniam, si fuisset, maximus Guido Guinizelli, Guido Ghisilerius, Fabrutius et Honestus et alii poetantes Bononie nunquam a proprio divertissent: qui doctores fuerunt illustres et vulgarium discretione repleti. Maximus Guido, Madonna, 'l fino amore ch'io vi porto; Guido Ghisilerius, Donna, lo fermo core; Fabrutius, Lo meo lontano gire; Honestus, Più non attendo il tuo soccorso, amore. Que quidem verba prorsus a mediastinis Bononie sunt diversa" (I, XV, 6); la seconda volta come terzo in un elenco di tre bolognesi, autori di canzoni con incipit settenario: "Verumtamen quosdam ab eptasillabo tragice principiasse invenimus, videlicet [Guidonem Guinizelli], Guidonem de Ghisileriis et Fabrutium Bononienses: Di fermo sofferire, et Donna, lo fermo core, et Lo meo lontano gire; et quosdam alios" (II, XII, 6). Non ci è giunta la canzone, il cui incipit compare in questi due luoghi del trattato dantesco; Fabruzzo Lambertazzi è autore inoltre del sonetto di argomento morale Omo non prese ancor sí saggiamente, che godette di una discreta fortuna tra gli anni '80 del Duecento e i primi decenni del Trecento, dal momento che è stato tramandato da sette testimoni: cinque volte in forma avventizia, quattro volte anonimo e tre volte in stretta relazione con un sonetto di Guido Guinizzelli, Omo ch'è saggio non corre leggero; dato, quest'ultimo, che accomuna la trasmissione manoscritta di entrambi i sonetti alle riflessioni dantesche. Il sonetto di Fabruzzo Lambertazzi fu pubblicato più volte, ma non esiste un'edizione critica del componimento, poiché le due edizioni approntate rispettivamente da Tommaso Casini nel 1888 e da Guido Zaccagnini nel 1933 non si basano su una recensio completa. L'attestazione più antica è in Memoriali bolognesi, LXIII, c. 247v, dove il sonetto è vergato anonimo dal notaio bolognese Biagio Auliverii, tra mercoledì 23 e giovedì 24 genn. 1286. Il componimento in questa forma fu pubblicato per la prima volta nel 1876 da Giosuè Carducci. La seconda attestazione è in Memoriale 76, c. 71r, redatta in forma anonima sabato 3 dic. 1289 dal notaio Dondideus Benedicti, che aveva trascritto martedì 22 novembre a c. 66r il sonetto guinizzelliano di risposta a Bonagiunta Orbicciani da Lucca. Il lacerto poetico in questa forma è stato edito per la prima volta da Ezio Levi nel 1913. L'edizione moderna delle due testimonianze è in Caboni, Rime dei Memoriali… e ora in Concordanze della lingua poetica italiana delle origini. La terza attestazione, inedita e parziale (ultima strofa della sirima), è leggibile grazie alla lampada a ultravioletti sulla coperta pergamenacea, consunta e lacera, del Liber (Arch. di Stato di Bologna, Giudici del capitano del popolo, reg. 375), redatto tra il 14 sett. 1300 e il 7 marzo 1301 da "Ysfacciatus notarius filius domini Antonii de Montecatino scriba" per il giudice Guido de Montealcino, durante il regime del capitano del Popolo Soffredus domini Phylippi de Vergiolensis di Pistoia. Il registro è peraltro noto per le rime, pubblicate per la prima volta da Pellegrini nel 1890, di Dante Alighieri, Cino da Pistoia e Guido Cavalcanti, localizzate nella coperta anteriore interna, e di Anonimo, Giacomo da Lentini e Abate di Tivoli, nella coperta posteriore interna di seguito al testo di Fabruzzo Lambertazzi. La quarta attestazione si trova nel codice Pal. lat. 753 della Biblioteca apostolica Vaticana in calce a un Digestum novum, interessante manoscritto arricchito nelle carte finali di poesie e altre scritture, redatte probabilmente tra il secondo e il terzo decennio del Trecento nel Nord d'Italia. Il sonetto, che precede nel codice il componimento guinizzelliano, si presenta in forma avventizia, ma non anonima, come testimonia la rubrica che lo affianca nel margine sinistro: "Ait Fabrucius de Lanbertaciis bononiensis". Il testo in questa forma fu portato alla luce da Casini nel 1888; nel 1928 Luigi Sorrento diede un'accurata descrizione del manoscritto arricchita da alcune riproduzioni fotografiche, da una soddisfacente edizione e da un commento linguistico. La circolazione estravagante del sonetto è in parte confermata da uno dei tre canzonieri della lirica italiana delle origini, il Vat. lat. 3793 della Biblioteca apostolica Vaticana, che si chiude a c. 179v proprio con Omo non prese, che occupa pertanto la posizione n. 999 all'interno del più ricco dei canzonieri della lirica italiana del Duecento. Questo testo non è stato però accolto nelle Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, poiché è stato trascritto dalla mano V12, che la recente perizia grafica di Petrucci colloca nel primo Trecento. Ma la tradizione manoscritta del sonetto è corroborata dal canzoniere Redi 9 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Il sonetto è stato trascritto a c. 141v, nella posizione 405, preceduto dalla rubrica "Fabrucio de' Lanbertaci" e fa parte di un gruppo di rime che trattano tematiche di argomento morale, ovvero i componimenti 401-403 di Bonagiunta Orbicciani da Lucca, l'anonimo 404 e il non distante sonetto 414 di Guinizzelli. Non va poi trascurata l'ultima attestazione del sonetto, redatta tra il terzo e il quarto decennio del Trecento, nel codice appartenuto a Nicolò de' Rossi, noto attraverso la sua collocazione come Barb. lat. 3953 della Biblioteca apostolica Vaticana, a c. 140r. I versi sono preceduti dalla rubrica "Fabruzo de Perosa", elemento che ha fatto sostenere l'ipotesi che Fabruzzo Lambertazzi avesse fatto tappa a Perugia negli anni dell'esilio. Certo il manoscritto in questione in quella parte si mostra assai insidioso per quanto riguarda le rubriche, dal momento che il componimento attribuito a Fabruzzo è preceduto da un sonetto guinizzelliano, che è ivi attribuito a Guittone d'Arezzo.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Bologna, Comune-Governo, Diritti ed oneri del Comune, Registro grosso, II, c. 128r; Ufficio per la condotta degli stipendiari, Assegnazione di cavalli ai soldati, b. 10/II (1274-97), reg. 1275: Liber extimationum equorum factus de parte Lambertaziorum, Quartiere di Porta Ravennate, cappella di S. Vito dei Lambertazzi; Miscellanea di atti concernenti privati ed enti religiosi, b. 433/II (1261-70), doc. 238 (1268); Ufficio dei memoriali, voll. 1: Nascimpax quondam Petrizani, cc. 26r (5 luglio 1265), 44v (19 ag. 1265), 66r (25 sett. 1265), 70r (31 sett. 1265), 108v (12 dic. 1265), 117r (8 genn. 1266); 6: Amador Bençevenis de Corvaria, c. 247r (16 ott. 1268); 14: Guido Bonifaci, c. 66r (14 luglio 1270); 22: Jacobus Benvenuti, c. 168r (26 genn. 1273); 24: Cavaçochus de Albergatis, cc. 47v (17 genn. 1274), 61r (1º febbr. 1274); 92: Força domini Fabiani Coreçole, c. 422r (18 giugno 1297); Comune, Estimi del Comune, s. 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