FACOLTÀ (dal lat. facultas, connesso con facĭlis; fr. faculté; sp. facultad; ted. Vermögen; ingl. faculty)
Filosofia. - Le differenze e le somiglianze che l'osservazione empirica può notare tra i fatti psichici hanno indotto gli psicologi a presupporre una molteplicità di attitudini, come ad es. la sensibilità, l'intelletto, l'immaginazione, la memoria, ecc., a cui si è dato il nome di facoltà. In senso stretto per facoltà s'intende una potenza o una capacità originaria, indipendente da altre, causa reale di specifiche manifestazioni della vita della coscienza. In tale preciso significato la parola facoltà fu adoperata e diffusa nel secolo XVIII dalla scuola scozzese, che, spinta dalle sue analisi descrittive dei fatti psichici, eleva la concezione delle facoltà a teoria esplicativa dell'anima. Di solito essa è ravvicinata alla tripartizione platonica dell'anima. Ma questa se ne distingue per un netto carattere speculativo. Del pari, e più ancora, si deve tenere distinta, per il suo fondamento e per i suoi fini, la questione di una duplice forma, teoretica e pratica, dell'attività spirituale, che interessa quasi tutta la storia della filosofia. Più a proposito si potrebbe ricordare Aristotele, che ammette quattro facoltà: nutritiva, sensitiva, motrice, intellettiva. È notevole però che egli non presuppone tra loro una separazione originaria, tranne che per l'intelletto. Con più recisa accentuazione il concetto che le facoltà siano nomi diversi, dati all'anima secondo i suoi atti, si trova nella scolastica. Nomi e non azioni, dirà poi il Locke.
La teoria delle facoltà è quasi episodica nella storia del pensiero. Ha piuttosto larga popolarità che non lungo e autorevole credito. Prima del Wolf e immediatamente dopo, filosofi e psicologi respingono il concetto di forze psichiche originarie e separate. È concedere troppo ammettere che esse siano constatazioni empiriche dell'introspezione: il Malebranche lo nega. Sono astratte generalizzazioni entificate di superficiali differenze tra fatti psichici. Non solo il concetto filosofico della vivente unità dello spirito, che s'impone con lo sviluppo dell'idealismo, ma il progresso medesimo delle analisi psicologiche escludono che si possa parlare di stati esclusivamente rappresentativi o affettivi o volitivi, anzi perfino di funzioni superiori eterogenee in rapporto alle inferiori. È agevole scorgere nella teoria delle facoltà un duplice errore: 1. si assolutizzano distinzioni empiriche e si concepisce come antecedente causale ciò che risulta per l'analisi dell'atto; 2. si premette alla realtà dell'atto la sua possibilità, sia come potenza materiale di per sé inerte, sia come forza agente. Per opera specialmente di Hegel (che precorre Herbart nella critica del concetto di facoltà), alla distinzione di forze o potenze si sostituisce quella di momenti o gradi, già implicitamente affermata da G. B. Vico. I gradi potrebbero tuttavia conservare l'eco della distinzione abbandonata, quando si concepissero in un'astratta successione temporale, come tipi fissi o stadî inevitabili, per cui lo spirito sarebbe costretto a passare.
La teoria dei gradi prevale nel campo filosofico. La psicologia intende anch'essa di abbandonare la vieta concezione delle facoltà; ma ne conserva le tracce nelle distinzioni di classi o di funzioni, cui è costretta a ricorrere per le sue analisi, e soprattutto perché si pone dal punto di vista d'un'indagine della coscienza oggettivata di fronte alla riflessione. Poco felice è la sostituzione del concetto di funzione psichica: questo da una parte tende a disconoscere la consapevolezza e l'autonomia; dall'altra rischia di mantenere in vita il presupposto materialistico di un organo specifico a fondamento dell'atto di coscienza. Gli psicologi contemporanei si limitano a cercare una semplice distinzione classificatoria, solo come strumento di lavoro.