Faenza
Non pochi sono i riferimenti danteschi al mondo faentino; il che induce a ritenere che l'Alighieri ne avesse assunto una larga e, insieme, precisa conoscenza, anche se nessun indizio ci autorizza a credere che ciò fosse potuto accadere per diretta personale esperienza.
Il primo approccio dantesco a F. si realizza su questioni di natura linguistica, e precisamente là dove l'Alighieri, osservando una notevole dispersione delle parlate regionali e locali, rileva come il volgare dei Faentini differisca da quello dei vicini Ravennati (nec non convenientes in eodem genere gentis, ut... Ravennates et Faventini, VE I IX 4); nel che D. coglie anche una particolarità della situazione geopolitica romagnola, segnata appunto dalle rivalità comunali - le più costanti fra le numerose altre della regione - tra F. e Ravenna. Tale notazione di significato evidentemente limitativo è poi temperata dall'affermazione secondo cui i due poeti faentini Tommaso e Ugolino Buzzola nei loro componimenti tendono ad allontanarsi dal tono femmineo e molle che, a giudizio dell'Alighieri, costituisce il principale difetto comune a tutte le parlate romagnole (I XIV 3).
Gli altri riferimenti a F., contenuti tutti nella prima e nella seconda cantica della Commedia, possono considerarsi assieme come parti dell'unico e complessivo disegno poetico dell'Alighieri inteso a contrapporre le generazioni decadute dei suoi contemporanei a quelle del ‛ buon tempo antico ', contraddistinte da costumanze cortesi e cavalleresche.
Nell'atmosfera poetica dell'ottava bolgia infernale, il cui significato di violenza tirannica e di tradimento si riassume nella figura di Guido da Montefeltro, a D. conviene accennare per perifrasi a F. (città di Lamone, If XXVII 49) e per simboli araldici al suo tiranno, Maghinardo Pagani da Susinana (conduce il lïoncel dal nido bianco, / che muta parte da la state al verno, vv. 50-51). Si tratta di un signorotto discendente da una famiglia dominante nell'alta valle del Senio, sul cui stemma figurava un leone rampante azzurro in campo bianco.
Fu appunto Maghinardo che, approfittando di una temporanea crisi politico-dinastica dei Manfredi, con una spregiudicata condotta oscillante fra guelfi fiorentini e ghibellini romagnoli, riuscì a dominare dapprima a F. e a Forlì come podestà e capitano del popolo dal 1286, poi anche a Imola dal 1289, facendosi riconfermare quasi sempre in tali cariche fino al 1302, anno della sua morte.
La rassegna dei personaggi faentini ricordati nell'Inferno prosegue con Tebaldello Zambrasi che D. incontra nel nono cerchio, confitto nella ghiaccia dell'Antenora fra i traditori della patria: Tebaldello, / ch'aprì Faenza quando si dormia (XXXII 122-123); un Faentino che, per ragioni non ancora ben accertate, consegnò per tradimento, la notte del 13 novembre 1280, la sua città ai Geremei guelfi di Bologna, sottraendola così agli Accarisi che l'avevano precedentemente fatta entrare nel sistema politico-militare ghibellino instaurato in Forlì e nella regione da Guido da Montefeltro. Chiude la serie dei dannati faentini, in un crescendo di mostruosità, il frate gaudente Alberigo Manfredi, anch'egli nel nono cerchio infernale, prigioniero della ghiaccia della Tolomea, fra i traditori dei commensali: I' son frate Alberigo; / i' son quel da le frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo (XXXIII 118-120). Questi, per motivi di carattere ereditario e, insieme, per rivalità politiche circa il dominio su F., invitati a mensa, col pretesto di fare opera di pacificazione domestica, nella sua villa " La Castellina " (presso Cesato nella Bassa Faentina) il 2 maggio 1285, il cugino Manfredo e suo figlio Alberghetto, li fece uccidere dai suoi servitori entrati nella sala del banchetto al segnale convenuto: " vengano le frutta ". Proprio per la legge del contrappasso Alberigo, che D. non esita a condannare come il peggiore spirto di Romagna (v. 154), avendo dispensato ai suoi commensali i frutti del tradimento, è costretto ora, nel più profondo dell'Inferno, a scontarne tutte le amare conseguenze.
Di contro a queste figure demoniache stanno nel Purgatorio almeno due Faentini del ‛ buon tempo antico ', che il poeta, contrapponendoli a Maghinardo, il demonio dei Pagani - una casata ormai prossima all'estinzione, ma non per questo meritevole di essere riabilitata agli occhi di D. e dei suoi contemporanei (Pg XIV 118-120) -, rievoca con comprensibile nostalgia. Sentimento temperato dalla certezza che, in seguito all'estinzione delle rispettive famiglie, il buon nome di questi Faentini non potrà essere offuscato da discendenti degeneri: si tratta di Bernardin di Fosco, di umili natali, vissuto nella prima metà del Duecento (Quando in Bologna un Fabbro si ralligna ? / quando in Faenza un Bernardin di Fosco, / verga gentil di picciola gramigna?, Pg XIV 100-102) e di Ugo de' Fantolini da Cerfugnano, divenuto cittadino di F., fra i più influenti del comune di cui fu podestà nel 1253 (O Ugolin de' Fantolin, sicuro / è 'l nome tuo, da che più non s'aspetta / chi far lo possa, tralignando, scuro, vv. 121-123). Di due altre anime penitenti, Guido da Prata e Ugolino d'Azzo (vv. 104-105), ancor meno conosciute delle due precedenti, modesti e anche controversi appaiono i rapporti col mondo faentino. Ben pochi sono gli elementi utili a ricostruire la fortuna di D. in F.: infatti l'ambiente culturale di questo centro, forse anche per le sue spiccate tradizioni guelfe, si mostrò refrattario ad accogliere il messaggio e le memorie dell'Alighieri. La prima notizia significativa si riferisce al letterato Matteo Chiromono da Brisighella, ma operante nella nostra città, presso la corte dei Manfredi, come precettore di Carlo II, attorno alla metà del sec. XV: egli, infatti, compose in latino nel 1461 un commento della Commedia, tuttora conservatoci presso la Biblioteca Estense di Modena. Solo verso la fine del XVIII secolo, e soprattutto nel corso dell'Ottocento, per merito principalmente del poeta e letterato faentino Dionigi Strocchi e della scuola classica romagnola, si registrò una ripresa del culto di D. anche nella nostra città, senza peraltro dar luogo a manifestazioni particolarmente significative. Fra i dantisti faentini contemporanei si distinsero Giovanni Ghinassi, Gian Marcello Valgimigli e infine Camillo Rivalta.
Bibl. - G.M. Valgimigli, Tebaldello Zambrasi, in Alcuni scritti, I, Faenza 1878, 85-128; F. Torraca, Studi danteschi, Napoli 1912, 163-171, 191-200, 321-323; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi in Bologna, in " Giorn. stor. " XXXII (1914) 14-19; C. Rivalta, D. e F., Ravenna 1920; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi in Romagna, in " Giorn. d. " XXVI (1923) 8 ss.; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Milano 1921, 210-211, 218-223, 449-453; A. Campana, Il sepolcro di Ugolino dei Fantolini, in " Valdilamone " XIII (1933) 29-30; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi a Bologna e in Romagna, in " Atti e Mem. Deputazione St. Patria Prov. Romagna ", s. 4, XXIV (1933-34) 19-71; ID., Due rimatori faentini del secolo XIII, in " Arch. Romanicum " XIX (1935) 79-106; G. Rossini, Il testamento di frate Alberigo de' Manfredi, in " Studi Romagnoli " III (1952) 519-528; L. Biagioni, Frate Alberigo dei Manfredi aus F. in der Romagna, in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXIV-XXXV (1957) 102-135; A. Torre, Maghinardo Pagani da Susinana, in " Studi Romagnoli " XIV (1963) 3-22; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di D., Firenze 1965; P. Zama, La città di Lamone, in " Rubiconia Accademia dei Filopatridi " VII (1966) 91-110.
Sulla fortuna di D. a F.: C. Rivalta, Dantisti e dantofili romagnoli nei secoli XVIII e XIX, Firenze 1904-1912; A. Campana, Civiltà umanistica faentina, in Il Liceo ‛ Torricelli ' nel primo centenario della sua fondazione. 1860-61, Faenza 1963, 318.
Lingua. - In VE I IX 4 D. porta Ravennates e Faventini come esempio di differenziazione linguistica (discrepant in loquendo) in abitanti di città non solo vicine ma popolate dalla stessa gens, evidentemente quella romagnola (convenientes in eodem genere gentis; i mss. G e T recano la var. nomine); a questo esempio che riguarda la parte ‛ sinistra ' dell'Italia risponde quello dei Napoletani e Gaetani per la parte ‛ destra '. Di Faenza sono i due soli poeti romagnoli che D. nomina tra coloro che si sono discostati, poetando, dal volgare locale, Tommaso (da Faenza) e Ugolino Bucciola (VE I XIV 3).