Faenza
Nota in relazione alle vicende federiciane soprattutto per l'assedio subito nel 1240, la città di Faenza, data la sua tradizionale alleanza con Bologna, fu al centro della politica di Federico II in Romagna già a partire dagli anni Venti del Duecento. Faenza era inserita in quello che è stato definito lo 'scacchiere politico' delle città romagnole in una posizione tradizionalmente antimperiale. Il giudizio storiografico sugli schieramenti delle città di Romagna è sempre stato univoco: specifici interessi locali, legati soprattutto al controllo dei diversi contadi, disegnavano una duplice rete di alleanze che legava da un lato Ravenna, Imola e Forlì, dall'altro Bologna, Faenza e Cesena. Faenza fin dagli anni Quaranta del sec. XII appare solidamente alleata di Bologna grazie al comune obiettivo della conquista del contado della debole città di Imola.
La rete che legava Ravenna, Imola e Forlì si connotava per un tradizionale schieramento filoimperiale: non a caso una delle prime azioni di Federico II in Romagna nei primi anni del suo regno fu la protezione concessa alla città di Imola, una protezione che in quel contesto politico deve essere necessariamente intesa come implicitamente antibolognese e antifaentina. Contestualmente l'imposizione di funzionari di nomina imperiale manifestava palesemente la volontà di Federico di governare direttamente la regione e di limitare l'azione indipendente delle aristocrazie locali. Le finalità della politica federiciana apparvero esplicite ai contemporanei: anche la parte filoimperiale di Ravenna guidata da Pietro Traversari, che aveva allora il controllo del comune, mostrò insofferenza nei confronti del conte di Romagna Ugolino da Giuliano, accusato di imporre tributi insostenibili alla città.
Quando nel 1226 si costituì la seconda Lega lombarda, la situazione in Romagna divenne "fluida e incerta" (Vasina, 1996, p. 417): Federico II continuò a tentare di esercitare nella regione un controllo diretto ma, nel contempo, iniziò pure nella regione l'intelligente azione politica di papa Gregorio IX volta a utilizzare le nomine vescovili come arma di controllo pontificio ‒ non solo ecclesiastico ‒ della Romagna.
Faenza aveva immediatamente aderito, insieme a Bologna, alla seconda Lega lombarda: nel maggio dello stesso anno l'imperatore, sulla strada che da Ravenna doveva condurlo a Parma, fu costretto ad aggirare la città. Le fonti che narrano l'episodio ‒ il continuatore del Tolosano, narratore faentino, una lettera dello stesso Federico, scritta però dopo l'assedio e la presa della città nel 1241, e Matteo Paris ‒ concordano nel descrivere una situazione di improvvisa difficoltà nella marcia dell'esercito imperiale: mentre l'imperatore evitò l'attraversamento della città e solo nei pressi di Imola iniziò a procedere sulla Via Emilia, la parte dell'esercito che non deviò dalla strada maestra fu assalita dai faentini che ne depredarono gli approvvigionamenti. Le fonti sono concordi nel riferire che per ordine del podestà tutto ciò che era stato sottratto fu restituito, ma l'episodio resta significativo per dimostrare la concreta difficoltà incontrata dall'esercito imperiale in quel frangente. Un passo della lettera federiciana del 1241, volto a sottolineare le caratteristiche di inaffidabilità della cittadinanza faentina e ad accusarla del reato di lesa maestà, è alla base di una tradizione narrativa che racconta che in quell'occasione i faentini, dopo aver identificato nel corpo dell'esercito in marcia un cavaliere somigliante allo stesso Federico, lo avevano assalito e ucciso. Di questo episodio non reca memoria invece il continuatore del Tolosano che, peraltro, poteva giudicare inopportuno riferirlo proprio perché accusava i concittadini del grave attentato alla presunta persona dell'imperatore.
Nel novembre del 1231 Faenza fu dotata di una nuova cinta muraria e di rinnovate fortificazioni perché la Lega, riunita a Bologna, temeva che potesse essere sferrato contro la città, che costituiva il suo avamposto in Romagna, un attacco dell'esercito imperiale proveniente da Ravenna. Negli anni successivi Faenza combatté contro le vicine città di Forlì e Forlimpopoli (1236) e partecipò nel 1237 insieme con i bolognesi a un presto abortito assedio contro Ravenna.
L'anno successivo l'imperatore, forte della recente vittoria a Cortenuova, iniziò a concertare un attacco che voleva essere definitivo ad comprimendam Bononie pravitatem. Bologna infatti costituiva agli occhi di Federico II un obiettivo militare imprescindibile per creare un solido nesso fra le città emiliane e quelle romagnole da lui controllate.
Faenza costituiva l'avanguardia di Bologna in Romagna e appariva per ovvi motivi più debole: la sua caduta avrebbe inoltre coperto le spalle all'esercito imperiale. Non fu dunque solo per motivi locali che nel luglio del 1238 a Faenza scoppiarono disordini che condussero alla cacciata del podestà, il bolognese Guido Lambertini, e alla fuoriuscita dei 'guelfi' Manfredi. Guido Lambertini ottenne in tale occasione dalla sua città d'origine il diritto di rappresaglia contro Faenza e in tal modo, grazie all'appoggio dell'esercito bolognese, i Manfredi rientrarono all'inizio del 1239 in città. A capo del comune fu eletto nuovamente un podestà di origine bolognese, Fabio Lambertazzi, che dovette affrontare nel mese di marzo, poco dopo l'inizio del suo incarico, un attacco delle forze ghibelline della regione, che furono respinte grazie all'intervento dell'esercito bolognese. In quell'occasione furono catturati più di trecento uomini della parte filoimperiale romagnola che furono incarcerati come ostaggi a Bologna: fra loro c'era anche il figlio del conte Guido Guerra, Aginolfo.
Il successo delle forze antimperiali in Romagna parve consolidarsi in modo definitivo nel giugno di quello stesso anno quando anche Traversari 'tradì' lo schieramento federiciano. La pars comitum fu cacciata da Ravenna e si rifugiò nel castrum di Bertinoro, mentre il conte Malvicino di Bagnacavallo fu imprigionato dai bolognesi a Faenza.
L'insieme di queste vicende provocò un vero, brusco cambiamento della politica in Romagna di Federico II, determinato ormai a imporre un controllo stretto prima militare e poi amministrativo all'intera regione: egli mosse rapidamente un deciso attacco militare a tutto il fronte guelfo romagnolo e la città di Ravenna fu assediata e presa in appena sei giorni. Subito dopo l'esercito imperiale si diresse contro Faenza: Federico II era certo che non avrebbe incontrato resistenza; sua intenzione dichiarata in modo esplicito in diverse missive di quel periodo era di muovere rapidamente, dopo aver ottenuto il controllo di Faenza, alla conquista di Bologna. Il progetto dell'imperatore fu invece ostacolato dall'imprevista resistenza della città che poté contare in quel frangente sull'aiuto militare non solo di Bologna ma pure di Venezia, che intendeva difendere la posizione di forza che si era creata a Ferrara e che l'avanzata imperiale minacciava.
Le fonti disponibili per la ricostruzione dell'assedio e della presa di Faenza meritano una breve considerazione. Fonti documentarie di parte faentina mancano completamente mentre numerose sono le lettere e i diplomi imperiali emanati durante l'assedio; esistono inoltre diverse cronache che riportano con tanto maggiore spazio l'accaduto quanto più gli autori furono lontani dal teatro degli avvenimenti: le cronache romagnole e bolognesi infatti riducono la notizia a un breve cenno, mentre le narrazioni che appaiono più informate sono quelle di parte imperiale. Tali cronache in genere non originano da una prospettiva strettamente municipalistica: si tratta delle narrazioni di Riccardo da San Germano e di Matteo Paris, ma anche degli Annali ghibellini di Piacenza, degli Annali genovesi e degli Annali di S. Pantaleo di Colonia.
Quando, il 26 agosto 1240, l'esercito imperiale si avvicinò alla città, podestà di Faenza era il veneziano Michele Morosini che poteva contare per la difesa oltre che sulle forze interne anche su mille fanti bolognesi e veneziani, cui si aggiunsero le milizie del conte Guido Guerra che aveva abbandonato lo schieramento filoimperiale, al quale era invece rimasto fedele il cugino Tegrimo. La spaccatura della famiglia dei conti Guidi può essere considerata un indicatore significativo della complessità di quel momento politico per la società aristocratica romagnola: gli schieramenti tradizionali si erano infranti e la ricostruzione delle reti di alleanze ebbe costi sociali altissimi oltre che umani e familiari.
Faenza, contrariamente alle aspettative imperiali, non cedette al primo assalto e l'assedio si prolungò al punto che Federico II decise di prendere la città per sfinimento e fame. Fece edificare tutto intorno alla cinta muraria una circonvallazione fortificata da spalti e bertesche e fece costruire abitazioni per i soldati. Ostinato nella conquista, l'imperatore fu così di fatto immobilizzato negli accampamenti a ridosso della cittadina romagnola fino all'aprile dell'anno successivo: con appena mille uomini ‒ notava Luigi Simeoni (1937-1938) ‒ Bologna, Venezia e la Lega erano riuscite a bloccare l'esercito imperiale lontano da Bologna e dallo scacchiere lombardo per più di otto mesi. Il lungo assedio e la permanenza dell'imperatore stesso negli accampamenti stanziati a ridosso della città sono testimoniati dalle numerose missive datate topicamente "in obsidione Faventie" e da diversi diplomi che recano la medesima indicazione; una significativa testimonianza di quanto la sfortunata impresa avesse lasciato un segno nell'animo di Federico si trova in una lettera che il 3 luglio 1241, ormai due mesi dopo la presa della città, indirizzò al re d'Inghilterra e che reca a mo' di data topica l'espressione "in recessu post deditionem et depopulationem Faventie" (Historia diplomatica, V, 2, p. 1148).
La gestione dell'assedio si rivelò assai complessa per l'imperatore; il suo esercito era infatti composto anche da milizie provenienti da diverse città fedeli dell'Italia centrosettentrionale che sollevarono insistite proteste per la permanenza così prolungata delle truppe all'assedio di Faenza. I costi dell'operazione lievitarono a dismisura andando a incidere su un bilancio imperiale che appare già piuttosto provato alla fine degli anni Trenta, quando Federico II aveva dovuto ricorrere al credito di diversi prestatori per sovvenzionare le esigenze militari nell'Italia del Centro-Nord. È grazie a cronache del Trecento toscano ‒ che probabilmente derivano tutte dalla narrazione di Giovanni Villani, il quale ebbe a disposizione fonti più vicine agli eventi ‒ che conosciamo i particolari delle difficoltà economiche che gravavano sull'esercito imperiale. Fu proprio durante l'assedio di Faenza che Federico, dopo aver impegnato tutti gli oggetti di valore che aveva con sé, si risolse a un'operazione finanziaria di disperata inventiva: ordinò di coniare monete di cuoio il cui valore fu fissato in un augustale d'oro. Lo stesso Villani testimonia poi che questa sorta di prestito forzoso fu onorato dall'imperatore dopo la conquista della città, quando a chiunque presentasse le monete di cuoio fu restituito l'equivalente in oro.
Il 14 aprile la città si arrese: se le fonti di parte imperiale e soprattutto le lettere di Federico II stesso esaltano, ma dopo la resa, le tecniche di assedio che avrebbero progressivamente da un lato demolita la cinta, dall'altro scavato lunghe gallerie per penetrare di sorpresa in città, è d'altra parte vero che Faenza non fu presa militarmente ma si arrese solo dopo aver stretto precisi accordi con l'imperatore. L'impressione che si ricava dal confronto tra fonti diverse è che si fosse creata ormai una condizione di stallo: a Faenza si era infatti persa la speranza che l'esercito imperiale desistesse dalla conquista, così com'era chiaro che la Lega non sarebbe intervenuta direttamente a difesa della città. L'imperatore da parte sua era cosciente che la lunga permanenza sotto le mura cittadine non poteva che danneggiarlo.
L'esercito imperiale entrò così in città nel maggio 1241. I termini degli accordi che erano stati stretti non sono noti e le fonti cronachistiche regionali non ne parlano. Soltanto le narrazioni dei francescani Tommaso Tosco e Salimbene de Adam, entrambi presenti in Romagna negli anni Cinquanta del Duecento, offrono una testimonianza concorde e indipendente l'una dall'altra del fatto che Federico II non avrebbe rispettato i patti che avevano portato alla resa della città: "ingressus, non servavit eis pactum" (Salimbene de Adam, 1905-1913, p. 384). Tali testimonianze hanno dato luogo a racconti tardivi di efferate crudeltà commesse dagli imperiali dopo l'ingresso in città la cui attendibilità è stata messa opportunamente in dubbio. Lo stesso imperatore vantava la propria clemenza nei confronti della cittadinanza, ma forse occorre non confondere i piani interpretativi: la laconica testimonianza dei due francescani potrebbe riferirsi piuttosto che a patti relativi alla salvaguardia fisica degli abitanti e dei soldati ad accordi in merito alle forme di sottomissione della città. Dopo la resa, Federico II si fermò in città ancora con tutto l'esercito per ben sei settimane: furono "allontanati i suoi avversari" (Simeoni, 1937-1938, p. 185), furono imposti podestà imperiali e fu costruito un castrum, presidio militare della dominazione federiciana in città. Dopo la conquista, non solo Faenza ma tutta la Romagna ‒ come affermava già Alfred Hessel nel 1910 ‒ "venne inserita in quel sistema di governo autocraticamente accentrato con il quale Federico sperava di reggere tutta l'Italia" (Hessel, 1975, p. 118).
fonti e bibliografia
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Pietro Cantinelli, Chronicon (a.a. 1228-1306), a cura di F. Torraca, in R.I.S.2, XXVIII, 2, 1902.
Salimbene de Adam, Cronica, a cura di O. Holder-Egger, in M.G.H., Scriptores, XXXII, 1905-1913.
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Cronica Patricii Ravennatis, in A. Calandrini-G. Fusconi, Forlì e i suoi vescovi. Appunti e documentazione per una storia della chiesa di Forlì, I, Dalle origini al secolo XIV, Forlì 1985, Appendice IX, pp. 1143-1175.
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Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Parma 1990.
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