FALCHI PICCHINESI, Francesco Maria Gaspare
Figlio di Diego Falchi e di Lucrezia Picchinesi, nacque a Volterra (od. prov. di Pisa) il 15 ag. 1734. La famiglia Falchi, di origine sarda, aveva aggiunto il cognome Picchinesi dopo il matrimonio dei genitori; fu riconosciuta nella seconda classe della nobiltà nel 1750. Il F. compì gli studi nel seminario vescovile della città natale, a Roma presso il collegio "Bandinelli" e all'università di Pisa, dove ebbe per maestri G.L. Berti, A. F. Adami, T. V. Moniglia e l'Albizzi. Il 20 giugno 1756 si laureò in utroque iure. Ricevuti gli ordini minori, nel 1762 fu investito d'una prebenda canonicale nella cattedrale di Volterra. Fu ordinato sacerdote da mons. Alessandro Galletti, vescovo coadiutore di quella città, il 24 sett. 1768. Appena cinque giorni dopo, anche grazie all'amicizia con mons. Angelo Fabroni, fu nominato lettore straordinario d'istituzioni canoniche presso l'ateneo pisano. Dal 1775 al 1791 fu lettore ordinario, ricevendo uno stipendio di 240 scudi (al 1786). Nella Chiesa volterrana ricoprì molteplici uffici e cariche: esaminatore sinodale, arcidiacono del capitolo (dal 1786) e provicario generale.
Il carteggio col balì Benedetto Lisci di Volterra dal 27 genn. 1785 al 18 marzo 1797, conservato presso la Bibl. Moreniana di Firenze, permette di ricostruire le idee del F. sulle riforme ecclesiastiche leopoldine e sugli avvenimenti dell'età rivoluzionaria. Negli anni 1785 e '86 si mostrava preoccupato delle trasformazioni introdotte nei monasteri femminili (lettera del 28 luglio 1785) e criticava le posizioni di Scipione de' Ricci sul primato pontificio e sulle attribuzioni dei sinodi diocesani (lett. 30 ag. 1786). Un giudizio del tutto negativo egli esprimeva anche sulla costituzione dei patrimoni ecclesiastici diocesani e sulla pretesa del Ricci di controllare la loro amministrazione (lett. 6 marzo 1788). Su quest'ultimo problema egli fu invitato dal granduca Pietro Leopoldo a stendere un parere di merito (datato 1° apr. 1788) che controbattesse la dissertazione del giurista filoricciano Giovacchino Domenico Ceri.
Riscuotendo credito alla corte granducale, con motuproprio 14 marzo 1787, il F. fu chiamato, insieme col collega Giuseppe Paribeni, a partecipare all'assemblea dei vescovi toscani. Di fronte a questa convocazione il suo atteggiamento fu di sorpresa e di sgomento: "Io che aborro le questioni, provo molto dispiacere in questa commissione" (lett. 19 marzo 1787). Sempre in quell'anno il F. fu presentato dal granduca come secondo candidato alla nuova sede episcopale di Pontremoli e venne preferito dal papa al canonico Giuseppe Bernardini. Ma il granduca ricusò la sua nomina per il diniego di Pio VI d'eleggere il primo candidato della lista.
Al momento delle dimissioni del vescovo Ricci il F. fu ritenuto da Ferdinando III il candidato più idoneo a succedergli e per il lealismo verso la casa regnante e per le doti di equilibrio e di prudenza. La sua presentazione alle sedi vescovili di Pistoia e Prato ebbe il vantaggio d'essere accolta favorevolmente sia dalla S. Sede - che non aveva dubbi sulla sua fedeltà - sia da alcuni esponenti filoricciani come Vincenzo Palmieri, che lo giudicava adatto per estinguere in quelle diocesi "lo spirito di persecuzione che vi è stato finora" (lett. al Ricci, 2 luglio 1791, in Carteggi di giansenisti..., II, p. 286).
Data la delicatezza non solo religiosa ma anche politica dell'ufficio, il F. si premurò di avere un approfondito scambio di opinioni sia con Ferdinando III, andando a risiedere per una settimana presso la corte a Poggio a Caiano, sia colla Curia, recandosi a Roma verso il 20 sett. 1791. Dopo aver chiarito le linee fondamentali del futuro governo delle diocesi, il F. venne nominato vescovo di Pistoia e Prato il 19 dic. 1791 e fu consacrato due giorni dopo. In concomitanza con la presa di possesso per procura il 16 genn. 1792 e con l'ingresso solenne avvenuto il 25 marzo successivo, egli indirizzò al clero e al popolo di Pistoia e Prato una pastorale incentrata sul tema della pacificazione degli animi e in cui esprimeva il desiderio che si ponesse fine alle divisioni e alle contese che continuavano a turbare la diocesi.
Mise subito mano all'opera di restaurazione della disciplina ecclesiastica mediante l'abolizione delle Compagnie di carità e il ripristino delle antiche confraternite, la riapertura dei conventi dei cappuccini e della Ss. Annunziata di Pistoia, la trasformazione di alcuni conservatori laicali in monasteri di clausura, il ristabilimento della liturgia secondo gli antichi riti, l'annullamento degli atti del sinodo del Ricci e la rimessa in vigore dei sinodi precedenti. Nel tentativo di eliminare ogni traccia della cultura ricciana obbligò i sacerdoti a consegnare nelle sue mani gli esemplari degli atti del sinodo del 1786 e gli altri libri ad esso favorevoli (circolare 30 sett. 1794). Sostituì, inoltre, i catechismi giansenizzanti del Montazet e del Gourlin con quello dell'oratoriano Pouget. Sempre in questa direzione dedicò una cura particolare al controllo della formazione del clero. Riaprì i seminari vescovili di Pistoia e di Prato chiamandovi due ecclesiastici di provata fede antiricciana (i canonici Pietro Torracchi e Vincenzo Mazzoni) e facendovi insegnare e commentare la bolla Auctorem fidei. Per fronteggiare i disavanzi finanziari del seminario di Pistoia chiese e ottenne dal governo la soppressione e l'incorporo dei beni dell'Accademia ecclesiastica, creata dal Ricci per la specializzazione culturale e pastorale dei sacerdoti.
Sul piano patrimoniale, dopo aver operato nel 1793 un riequilibrio tra l'assegno di congrua delle parrocchie i cui beni erano stati incorporati nel "patrimonio ecclesiastico" diocesano e quelle di nuova erezione, decise il 23 marzo 1795 la liquidazione dell'intero suddetto istituto - già consegnato all'amministrazione del seminario l'anno precedente - a favore del governo mediante la sua unificazione al "patrimonio, ecclesiastico" di Firenze. Seppure motivata dai notevoli aggravi dell'ente (pensioni vitalizie, congrue parrocchiali, obblighi di messe, ecc.), tale scelta fu giudicata svantaggiosa e disapprovata dal clero pistoiese.
Le maggiori difficoltà e le più accanite resistenze all'operato del F. vennero tuttavia dal clero formato sotto il Ricci. Benché alcuni accettassero di collaborare con lui (valga per tutti l'esempio di Ferdinando Panieri), la maggior parte assunse un atteggiamento d'insubordinazione. Vincolato dalla legislazione leopoldina, il F. chiese al governo rimedi più efficaci per "richiamar ne' suoi Stati le cose della Chiesa nella prima tranquillità e l'episcopato al suo pieno esercizio" (lett. 11 giugno 1792). Impotente a debellare l'attività dei sacerdoti filoricciani, il 20 luglio 1798 giunse perfino a presentare le dimissioni dalla sede vescovile. Ma il governo non le accolse né credette opportuno di facilitare la sua azione repressiva.
Con l'invasione della Toscana da parte dei Francesi nel marzo 1799 si aprì per il F. un periodo ancora più difficile. Pur avendo assunto una posizione nettamente conservatrice sulla Rivoluzione (vedi le lettere al Lisci dal 30 sett. 1792 al 18 marzo 1797), egli raccomandò al clero e al popolo di sottoporsi alle nuove autorità costituite (Ammonizione del 9 apr. 1799, Pistoia, eredi Bracali, p. 1), sollecitò la consegna delle armi dei rivoltosi ai Francesi (pastorale del 16 apr. 1799) e si adoperò pochi giorni dopo per sedare un tumulto popolare antifrancese.
Dopo l'arrivo degli Austro-russi, alcuni parroci ex ricciani e ora fautori delle idee repubblicane (come Guglielmo Bartoli, Luigi Polloni e Giuseppe Pagni) furono condannati per reati politici al carcere di Portoferraio e deposti dal F. dai loro uffici (agosto 1799). S'aprì allora un contenzioso fra essi e il vescovo che portò alla pubblicazione di una Replica alla sua circolare del 10 maggio 1800 a firma di N. Paroco portante la data "Torino 1801 alla stamperia della Libertà". Il F. veniva accusato d'aver cambiato posizioni politiche e di perseguire disegni repressivi. Sfruttando il momento politico favorevole, nell'ottobre 1800, i sacerdoti deposti ricorsero per ottenere il reintegro nei loro uffici e l'indennizzo dei danni subiti. Poiché il F. condizionò la revoca dei provvedimenti ad una loro ritrattazione (7 nov. 1800), essi appellarono la sua sentenza al metropolita e ottennero dalle Municipalità di Pistoia e Prato il sequestro cautelativo delle rendite della mensa vescovile. Recatosi a Firenze il 3 febbr. 1801 per presentare una memoria difensiva, il F. minacciò il governo provvisorio di non ritornare in sede finché non fosse stato lasciato libero d'esercitare la sua piena giurisdizione. Solo il mutamento di regime politico con Lodovico I di Borbone creò le condizioni, nel mese successivo, del ritorno del F. a Pistoia e del suo rinnovato impegno di restaurazione disciplinare.
Colpito da malore il 2 febbraio, il F. morì otto giorni dopo a Pistoia il 10 febbr. 1803. Fu sepolto nella cattedrale di Pistoia.
Fra gli scritti del F. merita un cenno particolare l'Istruzione pastorale del 7 maggio 1800, la cui redazione fu in gran parte opera del teologo Ferdinando Panieri. Essa intendeva combattere l'"irreligione", che aveva contaminato non solo la Francia ma anche l'Italia, mediante il rilancio della missione sacerdotale. Divisa in 11 articoli per complessive 94 pagine, l'Istruzione disegnava il modello del buon prete insistendo sul trinomio scienza-santità-zelo e sugli elementi portanti del ministero (la conoscenza del gregge, l'istruzione, l'amministrazione dei sacramenti, la preghiera privata e pubblica). Per elevare la spiritualità del clero diocesano si esortava a scegliere i padri filippini come direttori di coscienza e a frequentare le loro conferenze almeno due volte al mese presso l'oratorio di Pistoia. Si confermava inoltre la validità delle riunioni vicariali, come anello di collegamento tra il clero e il vescovo, e l'importanza della conferenza generale annuale davanti a quest'ultimo.
Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. Moreniana, Fondo Bigazzi, n. 343 (n. 51 missive al balì Benedetto Lisci di Volterra, dal 1784 al 1797); altre lettere e documenti del F. sono conservati presso gli archivi vescovili di Pistoia e di Prato, la Biblioteca comunale Forteguerriana di Pistoia, la Biblioteca Roncioniana di Prato e la Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata (tre lettere a Luigi Lanzi); Gazzetta toscana, 19 febbr. 1803, p. 31; Carteggi di giansenisti liguri, a cura di E. Codignola, Firenze 1941-1942, ad Indicem; E. Micheli, Storia dello Studio pisano dal 1737 al 1799, in Annali delle università toscane, XVI (1879), p. 41; G. Beani, Ivescovi di Pistoia e Prato dall'anno 1732 al 1871, Pistoia 1881, pp. 155-181; S. Baldini, Storia del seminario di Prato, Prato 1913, pp. 209 ss.; P. Savio, Devozione di mons. AdeodatoTurchi alla S. Sede..., Roma 1938, pp. 971, 984; G. Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VI a Leone XIII, Roma 1974, pp. 105 s.; B. Casini, I libri d'oro delle città Volterra e S. Miniato, in Rassegna volterrana, LXI-LXII (1985-1986), p. 412; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica..., VI, Patavii 1958, p. 340.