FALCONE, Falcone
Apparteneva a una famiglia originaria di Pisa (E. Cristiani, Nobiltà e popolo nel Comune di Pisa..., Napoli 1962, p. 455), la quale, probabilmente in virtù del suo orientamento ghibellino, si legò a Federico III (II) di Sicilia.
A partire dal 1323 si ha notizia di un Falcone Falcone, che ricoprì l'ufficio di iudex a Messina e si occupò in particolare delle relazioni di Federico III con Pisa. Grazie ai suoi buoni rapporti con il sovrano, fu innalzato al rango di familiare, e negli anni 1328 e 1333 gli furono concesse rendite del valore di 20 once sulle entrate della secrezia di Messina, appannaggio che mantenne fino alla morte nel 1336.
Il F. nacque probabilmente all'inizio del XIV secolo, figlio di Bongiovanni e nipote del giudice Falcone. Sulla sua giovinezza non sono state tramandate notizie, ma pare che per tempo abbia stretto saldi legami con l'importante famiglia messinese dei Palizzi, la quale ebbe grande influenza sugli affari di Stato nei primi anni del Regno del figlio di Federico III, Pietro II. Allorché i Palizzi nel 1340 furono costretti a lasciare la Sicilia a causa dei contrasti sorti con il fratello di Pietro, Giovanni di Randazzo, circa il governo di Messina, e, soprattutto, circa l'influenza esercitata sul debole Pietro II e conseguentemente sulla politica del Regno, il F. rappresentò i loro interessi nella città e si batté per il loro ritorno.
La morte di Pietro II il 15 ag. 1342 e l'assunzione della reggenza per il figlio minorenne Luigi da parte di Giovanni di Randazzo, duca di Atene e Neopatria, dovette inasprire le tensioni tra la dinastia aragonese e la fazione messinese favorevole ai Palizzi, guidata dal Falcone. Quando nell'ottobre 1342 Giovanni di Randazzo cadde improvvisamente malato a Siracusa, il giudice Giovanni Magna, anch'egli appartenente alla fazione dei Palizzi, che in quel momento si trovava a Catania, di concerto con il F. colse l'occasione per far spargere a Messina la voce dell'improvvisa morte del duca di Atene (29 ott. 1342). Il F. prese immediatamente il comando ed assaltò, insieme con Aloisio de Incisa di Sciacca, Vitale de Aloisio, Giacomo de Vito, Ranieri de Nigrino e Francesco de Romeo, il palazzo dello stratigoto, il cui luogotenente Federico Callari fu trascinato in strada e ucciso.
Il fatto che alla rivolta partecipassero soprattutto nobili e funzionari del Regno, ma nessun appartenente al ceto mercantile, fa pensare che essa avesse obiettivi eminentemente politici. La congiura voleva colpire principalmente il ruolo dominante dei Catalani nel governo del Comune, dopo che in precedenza erano fallite trattative con Giovanni per un compromesso mirante ad ottenere una più forte partecipazione dei Messinesi negli affari interni della città. È probabile comunque che anche motivi economici giocassero un qualche ruolo, perché i mercanti catalani premevano sempre di più per ottenere il controllo sul commercio marittimo di Messina. Non si sa tuttavia se il F. e i suoi soci avessero concordato in precedenza la ribellione con i Palizzi, che si trovavano in esilio a Pisa, o con re Roberto di Napoli. Formalmente i rivoltosi accamparono la difesa dei diritti dell'erede minorenne al trono Luigi contro l'"usurpatore" Giovanni di Randazzo. Subito dopo l'uccisione del vicestratigoto la rivolta si estese a tutta la città. Anche i figli del F., Nicoloso e Giovanni, si unirono ai ribelli. Numerosi sostenitori del duca Giovanni furono catturati o trucidati, e il castello di S. Salvatore occupato. Per consolidare il loro ancora fragile potere il F. e gli altri congiurati tentarono di prendere anche il controllo del governo del Comune ed elessero loro uomini alle cariche di stratigoto e di giudici della città. Purtroppo nessuna delle fonti dà i nomi degli eletti e quindi non si sa con certezza se anche il F. rivestì una di queste cariche; ma non è da escludere che proprio egli, come capo dei rivoltosi, venisse nominato stratigoto.
La reazione del duca Giovanni non si fece attendere. Già il 14 novembre aveva raccolto un esercito a Catania e cominciò a muovere su Messina. In questa situazione critica il F. e i suoi accoliti commisero diverse violenze contro i partigiani catalani del duca nella città e chiamarono in aiuto alcune galere angioine che incrociavano al Faro. Questa condotta poco accorta provocò una controrivolta della popolazione che temeva possibili rappresaglie del duca se avesse sostenuto più a lungo il partito del Falcone. Questi e i suoi accoliti si videro perciò costretti a rifugiarsi nel castello di S. Salvatore. Il 15 novembre i Messinesi aprirono le porte della città a Giovanni di Randazzo; il 22 novembre, alla fine di una aspra battaglia con forti perdite da entrambe le parti, anche la cittadella cadde, dopo che i ribelli fino all'ultimo avevano sperato invano nell'arrivo di nuovi rinforzi angioini. Tuttavia il F., insieme con altri quattro capi della ribellione, riuscì, probabilmente ancora prima della caduta del castello, a fuggire a Reggio Calabria e di lì alla corte di re Roberto, mentre i suoi figli caddero nelle mani degli Aragonesi e furono giustiziati.
Da questo momento il F. si mise definitivamente al servizio della causa angioina ed ebbe un ruolo attivo negli sporadici tentativi di riconquista dell'isola da parte della regina Giovanna I e del suo consigliere, poi gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli. Già all'inizio del 1345 con un manipolo di 15 uomini d'arme era attestato davanti a Milazzo. Dopo l'uccisione di Andrea d'Ungheria scoppiò, all'inizio del 1346, il conflitto tra i fratelli Roberto e Luigi di Taranto aspiranti entrambi alla mano della regina e al possesso del Regno e il F. si schierò dalla parte di Roberto. Nel marzo 1346 comandava una parte delle truppe che questi aveva raccolto contro il fratello davanti a Napoli. Ma dalla lotta uscì vincitore il più giovane Luigi e la scelta di campo fatta dal F. si rivelò infelice. Per otto anni non ebbe più comandi militari. Solo quando il siniscalco Niccolò Acciaiuoli, che a partire dal 1350 prese in mano il governo effettivo al posto dell'incapace Luigi, intraprese nuovi tentativi di riconquistare la Sicilia, il F. ritornò sulla scena.
Nell'ottobre 1354 partecipò ad un complotto ordito dai suoi antichi soci, i Palizzi, a Milazzo, dove trattò anche con Giulio Staiti e Nicolò Cesareo, partigiani degli Angioini a Messina. Insieme ingiunsero la resa alla città. Nonostante il rifiuto, il F. non si scoraggiò e il 21 febbr. 1355 tentò con tre navi un colpo di mano contro Messina che però fallì. Obiettivo dell'azione era probabilmente quello di spingere i Messinesi a una nuova sollevazione contro il dominio aragonese. Alla fine del 1356 l'attività sovversiva del F. e dei suoi compagni ebbe finalmente successo; il 24 dicembre Filippo Palizzi, Oliviero di Protonotario, Giulio Staiti e Nicolò Cesareo poterono consegnare solennemente Messina agli Angioini. Re Federico IV (III) il Semplice fece confiscare tutti i beni del F. in Sicilia, ritorsione che stranamente non era stata attuata dopo la rivolta del 1342.
In un primo momento la decisione del re non pare abbia colpito pesantemente il Falcone. Luigi di Taranto e Giovanna I, in ricompensa dei suoi servigi, lo nominarono infatti viceammiraglio di Messina e nel settembre 1357 gli assegnarono una pensione annua di 40 once che fu pagata all'inizio con le entrate della secrezia di Messina e dal 16 apr. 1358 con i tributi dei cittadini di Arena.
Quando gli Angioini dopo la tremenda disfatta di Acireale del 27maggio 1357furono costretti a rinunciare definitivamente alle loro speranze di riconquistare la Sicilia il F. perse la pensione. Privato dei suoi sostenitori, tentò una riappacificazione con Federico IV d'Aragona. In effetti riuscì a recuperare il favore del sovrano, che nel 1371 gli confermò le 20 once di entrata sulla secrezia di Messina, già appannaggio dei suoi antenati. È questa l'ultima attestazione del F. nei documenti; bisogna quindi supporre che egli sia morto poco dopo questa data.
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