Abstract
Vengono esaminati gli effetti del fallimento sul fallito, così come disciplinati negli artt.42-49 del testo attuale della Legge fallimentare, anche alla luce delle più recenti decisioni giurisprudenziali. La trattazione tiene conto di tutte le recenti modifiche alla legge fallimentare, che hanno inciso profondamente nella materia degli effetti del fallimento.
Gli effetti di diritto sostanziale della dichiarazione di fallimento sono disciplinati nel Capo III del Titolo II della Legge fallimentare. Il suddetto capo è diviso in 4 sezioni, dedicate rispettivamente agli effetti del fallimento nei confronti del fallito (artt. 42-49), nei confronti dei creditori (artt. 51-63), sugli atti pregiudizievoli ai creditori (artt. 64-71) e sui rapporti giuridici preesistenti (artt. 72-83 bis). La ratio comune ai suddetti effetti, ricollegabili alla natura costitutiva della sentenza dichiarativa di fallimento, va rinvenuta nella necessità di assicurare la conservazione e l’incremento della massa attiva da un canto, e la cristallizzazione della massa passiva dall’altro. Singole regole sono peraltro finalizzate ad ulteriori scopi, come quello di consentire la prosecuzione dell’attività d’impresa, ove disposta, o a rendere più agevole lo svolgimento della procedura.
La disciplina degli effetti del fallimento nei confronti del fallito (artt. 42-49) tende da un canto a privare il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni presenti e futuri, trasferendo tali facoltà agli organi fallimentari, dall’altro a tenere il fallito a disposizione della procedura, per quanto possa occorrere ai suddetti organi. Qualora poi ci si trovi di fronte ad una società, gli obblighi personali gravanti sul fallito vanno considerati in capo agli amministratori o ai liquidatori, e si verificano inoltre degli ulteriori effetti sia sul piano fallimentare che sul piano del diritto societario (per i quali si rinvia agli artt. 146-164 l. fall.). Dal suddetto punto di vista, ed ai suddetti fini, si distingue tradizionalmente tra effetti di tipo patrimoniale sul fallito, ed effetti di tipo personale.
Iniziando dagli effetti patrimoniali, il primo comma dell’art. 42 l. fall. stabilisce che «[l]a sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento». Si tratta del noto fenomeno dello spossessamento del fallito, finalizzato da un canto ad evitare che il fallito possa depauperarare il suo patrimonio, dall’altro a consentire agli organi fallimentari di gestire ed alienare il patrimonio nell’interesse dei creditori. Va precisato peraltro che il fenomeno dello spossessamento è strettamente legato allo svolgimento della procedura fallimentare. Il fallito non perde la proprietà dei beni (perlomeno sino alle vendite fallimentari) né tantomeno la capacità di agire (rimanendo questa integra per tuttociò che non rientra nella sfera patrimoniale), bensì solo la disponibilità dei beni, tanto è vero che qualora il fallimento si chiuda con un esubero di attivo, esso va restituito al fallito.
Lo spossessamento comprende i beni sia presenti che futuri, intendendosi per tali quelli pervenuti al fallito in corso di fallimento, come prevede il secondo comma dell’art. 42 l. fall., secondo il quale fanno parte della massa fallimentare «i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi». La norma, apparentemente chiara, non è però di facile applicazione. Ciò specialmente perché nell’espressione «beni» vanno ricomprese anche tutte le situazioni soggettive ed i rapporti sopravvenuti. Così il curatore si troverà a dover esercitare diritti ed azioni che siano connessi a situazioni sopravvenute, ad esempio ai diritti ereditari del fallito. Non è infrequente, infatti, nella prassi, che a tutela della massa fallimentare il curatore si venga a trovare a dovere tutelare il patrimonio ereditario del fallito, agendo con l’azione di riduzione di legittima o con quella di simulazione per reagire avverso tentativi di frode, cui è sovente partecipe il fallito medesimo. Complesso e delicato è inoltre il problema della individuazione delle passività connesse all’acquisizione di beni sopravvenuti, in considerazione anche del fatto che tali passività vanno pagate in prededuzione, e potrebbero non rendere conveniente l’avocazione alla massa di tali beni. Infatti il legislatore stabilisce che il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni qualora «i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo» (art. 46, co. 3, l. fall.).
Lo spossessamento, inoltre, non si estende a una serie di beni, indicati nell’art. 46 l. fall., che sono esclusi in maniera assoluta dallo spossessamento, o in maniera relativa. Si tratta di una disciplina, parallela a quella della impignorabilità di alcune categorie di beni di cui al Codice di procedura civile (artt. 514 e 515 c.p.c.), che tende a garantire il sostentamento del fallito e della sua famiglia, nonché il rispetto della sua sfera intima: i beni e diritti di natura strettamente personale (art. 46, n. 1), i beni impignorabili (art. 46, n. 5), i frutti derivanti dall’usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale ed i frutti di essi (art. 46, n. 3). A questi beni, esclusi in maniera assoluta dallo spossessamento, si aggiungono quelli che vanno esclusi dallo spossessamento previo provvedimento del giudice delegato, tenendo conto della condizione personale del fallito e della sua famiglia: assegni a carattere alimentare, stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia (art. 46, n. 2), introiti del fallito ai quali vanno aggiunti, pur non essendo espressamente previsti, altri introiti quali il trattamento di fine rapporto (Cass., 30.7.2009, n. 17751), o le somme rinvenienti da una eventuale assicurazione sulla vita (Cass., S.U., 31.3.2008, n. 8271, in Giur. comm., 2009, II, 26, con nota di Tina, A., La legittimazione del curatore fallimentare all’esercizio del diritto di riscatto della polizza vita al vaglio delle sezioni unite). Va ricordato inoltre che al fallito possono essere concessi gli alimenti (art. 46, co. 1, l. fall.) e che egli ha diritto di utilizzare la casa di abitazione sino alla vendita di essa (art. 46, co. 2, l. fall.).
A tutela dello spossessamento, ed onde evitare che il fallito possa depauperare il proprio patrimonio ormai divenuto oggetto del vincolo fallimentare, il legislatore stabilisce che «[t]utti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”» (art. 44, co. 1, l. fall.). La conseguenza è che il terzo dovrà restituire quanto ha ricevuto dal debitore, e ciò sia che l’atto o il pagamento sia stato posto in essere con dolo, sia che sia stato posto in essere in buona fede (quantomeno del terzo), non avendo la buona fede alcun rilievo a causa dell’effetto di conoscenza erga omnes della sentenza dichiarativa di fallimento. Il dolo potrebbe avere, semmai, autonoma rilevanza ai fini della configurabilità del reato di bancarotta preferenziale (art. 216, co. 2, l. fall.). Il pagamento è inoltre inefficace, se successivo al fallimento, anche se eseguito in sede esecutiva a seguito di provvedimento di assegnazione del giudice dell’esecuzione anteriore al fallimento, in quanto l’effetto satisfattivo del terzo si ha al momento dell’effettivo incasso, e non dell’assegnazione (Cass., 31.3.2011, n. 7508). Per lo stesso principio, in caso di pagamento mediante assegno, l’anteriorità o meno rispetto alla dichiarazione di fallimento va valutata in relazione all’effettivo incasso, e non alla data dell’emissione del titolo (Cass., 28.2.2011, n. 4820).
Parimenti «[s]ono egualmente inefficaci i pagamenti ricevuti dal fallito dopo la sentenza dichiarativa di fallimento” (art. 44, co. 2, l. fall.), con la conseguenza che il terzo, anche se in buona fede, sarà costretto ad eseguire nuovamente il pagamento in favore della curatela, ovviamente qualora il fallito non abbia riversato al fallimento le somme ricevute. Anche qui il principio della conoscenza erga omnes della sentenza dichiarativa di fallimento dà luogo ad una deroga ai principi generali in materia di affidamento del terzo, ed in particolare all’art. 1189 c.c. ed al terzo, ricorrendone i presupposti, potrebbe essere richiesto anche il risarcimento del danno (Cass., 29.12.2011, n. 29873). Va rilevato comunque che in entrambe le ipotesi la sanzione è costituita dalla inefficacia, e non dalla nullità degli atti (e dei pagamenti), con la conseguenza che tali atti sono irrilevanti verso la massa nel corso della procedura, ma successivamente alla chiusura del fallimento il terzo potrà agire per far valere i suoi diritti nei confronti del fallito. Va altresì sottolineato che l’art. 44 l. fall. non opera in relazione ad atti e pagamenti connessi ai beni esclusi dallo spossesamento e di cui all’art. 46 l. fall.
Problema strettamente connesso è quello cosiddetto della ‘data certa’, in quanto è determinante per i singoli atti stabilire se essi siano stati posti in essere prima o dopo la dichiarazione di fallimento. Tale questione, disciplinata dal legislatore in sede di effetti del fallimento sul fallito, riveste invero la sua più ampia rilevanza in sede di verifica del passivo fallimentare, ove è determinante stabilire se il credito vantato dal creditore, o il titolo su cui esso si fonda, o i titoli di credito prodotti, si collochino in data anteriore alla dichiarazione di fallimento, e qualora il creditore non sia in grado di dimostrare ciò, l’ammissione al passivo non verrà accolta. In proposito il legislatore stabilisce che «[l]e formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai terzi, se compiute dopo la dichiarazione di fallimento, sono senza effetto rispetto ai creditori» (art. 45 l. fall.). Ciò significa che sono inopponibili alla procedura tutti quegli atti e documenti, pur anche se posti in essere prima, che alla data della dichiarazione di fallimento non presentino i requisiti di opponibilità ai terzi previsti dalla legge (ad esempio la trascrizione immobiliare, la notifica o l’accettazione di data certa per la cessione dei crediti, l’iscrizione nel Registro imprese per la cessione o affitto di azienda, ecc.). In linea generale può comunque affermarsi che risultano opponibili al fallimento gli atti, e solo gli atti, per i quali sia stato effettuato l’adempimento previsto dalla legge per rendere l’atto opponibile ai terzi, oppure, per gli atti per i quali non sia previsto un tale adempimento, solo quelli per i quali possa dimostrarsi la presenza di una data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento (ad esempio una autentica notarile, una registrazione presso l’Ufficio registro, un timbro postale, il protesto, un atto comunque di pubblica fede). Ciò in quanto si ritiene che il curatore, pur subentrando nella posizione del fallito, rappresenti la massa dei creditori, e si ponga quindi quale terzo, con la conseguente applicabilità del primo comma dell’art. 2704 c.c., secondo il quale «[l]a data della scrittura privata della quale non è autenticata la sottoscrizione non è certa e computabile riguardo ai terzi, se non dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di uno di coloro che l’hanno sottoscritta o dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici o, infine, dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento». Va peraltro precisato che l’assenza della data certa nel documento preclude in maniera assoluta l’opponibilità al fallimento solo in presenza di forma scritta ad substantiam o ad probationem, mentre negli altri casi sarebbe sempre possibile per il terzo provare altrimenti l’anteriorità del documento, ad esempio nell’ambito di un giudizio di opposizione allo stato passivo. In ogni caso, la mancanza della data certa potrebbe essere rilevata d’ufficio, non essendo eccezione in senso stretto rilevabile solo ad istanza di parte (Cass., 21.11.2011, n. 24432).
A corredo dello spossessamento patrimoniale del fallito, il legislatore prevede la parziale perdita della capacità processuale del fallito medesimo: «[n]elle controversie, anche in corso, relative a rapporti di natura patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore». Tale limitazione è peraltro strettamente legata agli effetti di diritto sostanziale del fallimento, e quindi è relativa a quei rapporti patrimoniali che ricadono nell’ambito della procedura, mentre il fallito conserva la piena capacità processuale in relazione ai rapporti di natura personale ed a quelli di carattere patrimoniale che non ricadono nella procedura ai sensi dell’art. 46 l. fall. Si ritiene inoltre che il fallito, nonostante la suddetta limitazione, possa agire in giudizio personalmente in caso di urgenza o disinteresse degli organi della procedura (da ultima Cass., 2.7.2010, n. 15713). Trattasi di una idea, peraltro abbastanza diffusa, che sarebbe comunque opportuno mantenere limitata alla fattispecie per cui è nata, quella del contenzioso tributario (Montanari, M., Ancora sulla capacità processuale del fallito al cospetto delle pretese vantate nei suoi confronti dall’erario, in Dir. fall., 2011, I, 498), ben potendo il fallito sollecitare il curatore, ed eventualmente il giudice delegato, ad agire, e fermo restando che comunque una valutazione negativa degli organi fallimentari sulla opportunità di agire o resistere in giudizio non potrà certo essere superata da una iniziativa del fallito. Il fallito può peraltro sempre intervenire nei giudizi dai quali potrebbe derivare una imputazione di bancarotta a suo carico o l’intervento è previsto dalla legge (art. 43, co. 2, l. fall.).
Dal punto di vista processuale, e per i giudizi in corso, l’art. 43, co. 3, l. fall., così come modificato dalla riforma del 2006, stabilisce che i giudizi in corso si interrompono a seguito della dichiarazione di fallimento (non è più quindi necessario, come in passato, che vi sia una apposita dichiarazione del procuratore). Il giudizio andrà pertanto proseguito (art. 302 c.p.c.) o riasssunto dal curatore (art. 303 c.p.c.) se il fallito era attore, o riassunto nei confronti del curatore se il fallito era convenuto, entro sei mesi dall’interruzione (art. 305 c.p.c.), presso lo stesso giudice, non vigendo la vis attrattiva del foro fallimentare per i giudizi in corso, salvo quelli che confluiscono necessariamente nella procedura di verifica del passivo, come l’accertamento di crediti o le domande di rivendica.
Agli effetti patrimoniali del fallimento nei confronti del fallito si aggiungono gli effetti personali, aventi da un canto lo scopo di agevolare lo svolgimento della procedura, dall’altro uno scopo tipicamente sanzionatorio. Va peraltro subito sottolineato che la riforma del 2005-2006 ha inciso in maniera significativa su questa disciplina, mantenendone solo gli aspetti funzionali allo svolgimento della procedura, e sfumando invece quelli sanzionatori. Va precisato inoltre che gli effetti funzionali allo svolgimento della procedura si applicano, in caso di fallimento di società, ad amministratori e liquidatori, mentre non si estendono ad essi le incompatibilità che la legge ricollega allo status di fallito.
Gli obblighi finalizzati allo svolgimento della procedura si sostanziano in doveri di collaborazione del fallito (o degli amministratori e liquidatori) nei confronti degli organi della procedura, ed in particolare: a) l’obbligo di depositare i bilanci, le scritture contabili e fiscali, nonché tutta la documentazione indicata nell’art. 16 l. fall.; b) l’obbligo di comparire dinanzi al tribunale, ogni volta che esso lo richieda (art. 23, co. 1, l. fall.), o dinanzi al giudice delegato, al curatore o al comitato dei creditori qualora occorrano informazioni o chiarimenti (art. 49, co. 2-3, l. fall.); c) l’obbligo di comunicare al curatore il cambio di residenza o di domicilio (art. 49, co. 1, l. fall.); d) l’obbligo di consegnare al curatore la corrispondenza riguardante i rapporti compresi nel fallimento. La violazione dei suddetti obblighi può essere sanzionata con la mancata concessione dell’esdebitazione (art. 142 l. fall.) e sul piano penale (art. 220 l. fall.).
Va osservato in proposito che la riforma del 2006 ha opportunamente eliminato la preesistente norma che imponeva al fallito l’obbligo di residenza, costituendo essa una ingiustificata limitazione dei diritti costituzionalmente garantiti. Non altrettanto opportuna è apparsa invece l’eliminazione della previsione dell’invio al curatore, da parte del servizio postale, della posta indirizzata al fallito (che oggi è tenuto soltanto a consegnare al curatore quella relativa ai rapporti ricompresi nel fallimento) in quanto si è privato il curatore di un importante canale informativo in ordine a rapporti patrimoniali che potrebbero essere stati tenuti nascosti dal fallito.
Per quanto riguarda infine gli aspetti sanzionatori, va precisato che la riforma del 2006 ha abrogato l’art. 50 l. fall., che prevedeva il registro dei falliti, con la conseguenza che sono venute meno tutte le incompatibilità legate alla iscrizione nel suddetto registro. Sono pertanto oggi rimaste in vita solo le incompatibilità che altri testi di legge ricollegano allo status di fallito, e, in assenza di specifiche indicazioni in senso contrario, deve ritenersi che tali incompatibilità sussistano solo sinchè il fallimento non venga chiuso.
Artt. 42-49 l. fall.
Oltre agli scritti relativi a specifici argomenti e citati nel testo, si vedano sugli effetti del fallimento sul fallito i seguenti trattati e commentari: Genoviva, P., Gli effetti del fallimento per il fallito e per i creditori, in Fauceglia, G.-Panzani, L., diretto da, Fallimento ed altre procedure concorsuali, Torino, 2009, 1, 443 ss.; Rocco di Torrepadula, N., Degli effetti del fallimento per il fallito, in Jorio A., diretto da, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna, 2009, 1, 688 ss.; Ferro, M., La legge fallimentare, Padova, II ed., 2011, 501 ss.; Maffei Alberti, A., Commentario breve alla legge fallimentare, V ed., Padova, 2009; Pacchi, S. e al., Gli effetti del fallimento per il fallito, in Nigro A.-Sandulli, M.-Santoro, V., a cura di, La legge fallimentare dopo la riforma, Torino, 2010, 1, 572 ss.; Nicita, S., Gli effetti del fallimento per il fallito, in Apice U., diretto da, Trattato delle procedure concorsuali, Torino, 2010, I, 367 ss.; Caiafa A., a cura di, Le procedure concorsuali, Padova, 2011, I, 301 ss.; per la normativa anteriore alla riforma, ancor oggi in vigore per le procedure fallimentari dichiarate prima dell’entrata in vigore della riforma, Ragusa Maggiore, G.-Costa, C., diretto da, Le procedure concorsuali. Il fallimento, Torino, 1997, 2, 1 ss.