Abstract
La voce illustra la disciplina degli organi del fallimento a seguito della riforma della legge fallimentare che ha profondamente rivisto le aree di rispettiva competenza e le relative funzioni. L’analisi dei vari organi tiene conto dei principi ispiratori della riforma finalizzata a dare centralità agli interessi dei creditori, con conseguente grande potenziamento del ruolo del curatore e del comitato dei creditori.
La riforma del diritto fallimentare ha profondamente ristrutturato funzioni e competenze degli organi fallimentari. La maggiore novità consiste nella rivisitazione dei rapporti tra gli organi giudiziari (tribunale e giudice delegato), da un lato, e organi non giudiziari (curatore e comitato dei creditori), dall’altro lato.
Nel riassetto dei poteri degli organi fallimentari agli interessi dei creditori è riservato un ruolo centrale (Nigro, A.-Vattermoli, D., Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2009, 93). La nuova architettura della struttura degli organi fallimentari è caratterizzata dall’attribuzione agli organi non giurisdizionali di poteri di direzione e gestione e dal ridimensionamento dei poteri degli organi giudiziali, privati di funzioni cd. amministrative e limitati all’esercizio di poteri di controllo tipicamente giurisdizionali. Nei rapporti tra i diversi organi del fallimento è configurabile una sovra ordinazione, in termini assai diversi che nel passato (Amatucci, C., Il tribunale fallimentare, in Buonocore, V.-Bassi, A., Tratt. dir. fall., II, Padova, 2010, 9): il tribunale, investito dell’intera procedura, ha il potere di nomina, revoca e sostituzione del giudice delegato e del curatore nonché di decidere i reclami avverso i provvedimenti del giudice delegato; il giudice delegato ha poteri di vigilanza e controllo sul curatore e sul comitato dei creditori, ha limitati poteri di autorizzazione del curatore ed esercita un sindacato di legittimità sugli atti e le omissioni del curatore e del comitato dei creditori; al comitato dei creditori è attribuito un ampio potere di autorizzazione del curatore; infine il curatore, pur apparendo sotto ordinato, ha in realtà grande autonomia gestionale (Guglielmucci, L., Diritto fallimentare, IV ed., Torino, 2012, 79 ss.).
Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è investito dell’intera procedura fallimentare; provvede alla nomina ed alla revoca o sostituzione, per giustificati motivi, degli organi della procedura, quando non è prevista la competenza del giudice delegato; può in ogni tempo sentire in camera di consiglio il curatore, il fallito e il comitato dei creditori; decide le controversie relative alla procedura stessa che non sono di competenza del giudice delegato, nonché i reclami contro i provvedimenti del giudice delegato ( art. 23, co. 1, l. fall.). Al tribunale sono inoltre affidate ulteriori rilevanti funzioni: a) è competente per tutte le azioni che derivano dal fallimento (art. 24, l. fall.); b) può disporre, con la sentenza di fallimento, l’esercizio provvisorio dell’impresa o ordinarne la cessazione (art. 104, co. 1, l. fall.); c) può disporre di omettere la fase di accertamento del passivo (art. 102, l. fall.); d) ordina la chiusura e la riapertura del fallimento (artt. 119, e 121, l. fall.); e) omologa il concordato fallimentare; f) può concedere l’esdebitazione al fallito (art. 143, l. fall.).
Le funzioni del tribunale di cui agli artt. 23 e 24 l. fall. sono comunemente classificate in (i) funzioni cd. interne o amministrative, quelle di cui all’art. 23 e (ii) funzioni cd. esterne o giurisdizionali contenziose, quelle di cui all’art. 24.
I poteri del tribunale, specificati dall’art. 23, sono finalizzati al corretto svolgimento delle operazioni fallimentari.
L’attribuzione al tribunale «dell’intera procedura» e del potere di decidere «le controversie relative alla procedura stessa che non sono di competenza del giudice delegato» ha un mero valore di indicazione programmatica in quanto per comprendere quali sono in concreto i reali poteri del tribunale deve necessariamente farsi riferimento alla singole norme (Guglielmucci, L., Diritto fallimentare, cit., 82).
L’art. 23 conferisce al tribunale una competenza generale avente ad oggetto la programmazione, direzione e vigilanza della procedura, che si concretizza nel potere di sentire in ogni momento gli altri organi e il fallito e di essere destinatario di segnalazioni che riguardano la procedura (Sandulli, M., Le procedure concorsuali, in AA.VV., Manuale di diritto commerciale, X ed., Torino, 2011, 1039). L’art. 23 affida al tribunale la competenza residuale a decidere tutte le controversie che non siano espressamente di competenza del giudice delegato, nonché di giudicare sui reclami proposti avverso i provvedimenti del giudice delegato. Salvo non diversamente previsto, tutti i provvedimenti del tribunale rivestono la forma del decreto e sono reclamabili davanti alla corte d’appello secondo la dettagliata disciplina prevista dall’art. 26.
La posizione sovraordinata del tribunale rispetto agli altri organi fallimentari si coglie principalmente nel potere di nomina e di revoca o sostituzione del giudice delegato e del curatore (Nigro, A.-Vattermoli, D., Diritto della crisi delle imprese, cit., 95), sebbene l’esercizio del potere di revoca o sostituzione richieda la sussistenza di «giustificati motivi», anche al fine di consentirne un’eventuale sindacato in sede di reclamo (Amatucci, C., Il tribunale fallimentare, cit., 11). I giustificati motivi, presupposti per la revoca o sostituzione degli organi della procedura, consistono in fatti di particolare gravità che, anche senza configurare la violazione dei doveri dell’ufficio, rendono comunque impossibile la naturale prosecuzione delle attività dell’organo e sono tali da pregiudicare il rapporto fiduciario con la procedura fallimentare.
Un caso particolare di sostituzione del curatore è contemplato dall’art. 37-bis, norma che impone al tribunale di sostituire il curatore allorché la relativa richiesta venga formulata con delibera assunta dai creditori a maggioranza ad esito dell’adunanza di esame dello stato passivo. La sostituzione su richiesta dei creditori soggiace alla sussistenza di una duplice condizione: i) l’illustrazione delle ragioni della sostituzione, e ii) la designazione di un sostituto in possesso dei requisiti ex art. 28. A tal riguardo è molto discusso se la valutazione da parte del tribunale si arresti ad una mera verifica del contenuto formale della richiesta dei creditori (sul tema, cfr. Scano, D., Il curatore, in Buonocore, V.-Bassi, A., Tratt. dir. fall., II, Padova, 2010, 168 ss.). Questione interpretativa travagliata consiste nel definire con esattezza i limiti della competenza del tribunale su tutte le azioni che derivano dal fallimento secondo quanto prevede l’art. 24. La ratio della norma è di assicurare l’unitarietà della procedura attraverso la concentrazione sul tribunale fallimentare di tutti i contenziosi che derivano dal fallimento (Bonfatti, S.-Censoni, P.F., Manuale di diritto fallimentare, IV ed., Padova, 2011, 72 ss.). La competenza del tribunale per queste controversie è funzionale, esclusiva ed inderogabile e prevale su ogni altra competenza anche se di natura funzionale ed inderogabile (Maffei Alberti, A., Commentario breve alla legge fallimentare, V ed. Padova, 2009, 104).
Il tribunale fallimentare è competente: i) per le azioni rimesse alla sua competenza da specifica norma di legge (opposizioni ed impugnazioni allo stato passivo, azione revocatoria ordinaria, impugnazione del piano di riparto, ecc.); ii) per le azioni che presuppongono la pendenza del fallimento (azioni revocatorie fallimentari, azioni finalizzate alla declaratoria di inopponibilità degli atti compiuti prima o dopo la dichiarazione di fallimento, ecc.); iii) per le azioni influenzate dalla pendenza del fallimento, nel senso che per decidere su di esse è necessario applicare norme e regole fallimentari. Le azioni di cui all’art. 24 sono caratterizzate da una duplice circostanza: una parte del processo è un fallimento e i presupposti dell’azione sorgono a seguito della sentenza dichiarativa di fallimento (De Santis, F., Le azioni civili che derivano dal fallimento, in Buonocore, V.-Bassi, A., Tratt. dir. fall., II, Padova, 2010, 35).
Nella competenza del tribunale rientrano le azioni che hanno nel fallimento la loro causa determinante, mentre ne sono escluse le altre che sono indipendenti dal fallimento o dalla procedura concorsuale e potrebbero essere esercitate indipendentemente dall’apertura del fallimento (Cass., S.U., 8.4.1976, n. 1224; Cass. 22.6.2004, n. 11647).
Per azioni derivanti dal fallimento devono intendersi quelle che, comunque, incidono sul patrimonio del fallito, compresi gli accertamenti che costituiscono premessa di una pretesa nei confronti della massa quando siano diretti a porre in essere il presupposto di una successiva sentenza di condanna (Cass. 2.12.2011, n. 25868; Cass. 23.7.2010, n. 17279; Cass. 8.8.2007, n. 17388).
In concreto risulta spesso dubbio individuare quali siano le azioni influenzate dal fallimento che rientrano nella competenza del tribunale fallimentare. Certamente vi rientrano le azioni di simulazione promosse dal fallimento, mentre vanno escluse le azioni che l'imprenditore avrebbe potuto proporre se non fosse fallito, le azioni relative a rapporti originati dal curatore, nonché le azioni già pendenti alla data di dichiarazione di fallimento con l'esclusione di quelle tendenti ad accertare crediti o rivendicare/restituire beni mobili. A seguito dell’abrogazione del co. 2 dell'art. 24 le azioni derivanti dal fallimento, con l'eccezione di quelle sottoposte a procedimento speciale (impugnazione della sentenza di fallimento, dei decreti del giudice delegato e del tribunale, ecc.), sono regolate dalla disciplina comune sul processo di cognizione ordinaria.
Ai sensi dell’art. 25 l. fall., al giudice delegato sono affidate le funzioni di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura.
Il giudice delegato riveste un ruolo centrale nel fallimento in quanto quasi ogni funzione attribuita al curatore, a cui è affidata la gestione dell’intera procedura, subisce interferenze del giudice delegato. Inoltre nel caso di inerzie od omissioni del comitato dei creditori, le relative attribuzioni vengono esercitate dal giudice delegato (Bassi, A., Il giudice delegato, in Buonocore, V.-Bassi, A., Tratt. dir. fall., II, Padova, 2010, 109 ss.; Nigro, A. -Vattermoli, D., Diritto della crisi delle imprese, cit., 99 ss.).
L’art. 25 l. fall. contiene un eterogeneo elenco di poteri attribuiti al giudice delegato, ma di natura meramente residuale in quanto riguarda le sole attribuzioni non previste in altre norme della legge fallimentare. L’art. 25 l. fall. attribuisce al giudice delegato i seguenti poteri: i) riferisce al tribunale su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio; ii) emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, ad esclusione di quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l’acquisizione; iii) convoca il curatore e il comitato dei creditori nei casi prescritti dalla legge e ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e sollecito svolgimento della procedura; iv) su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone l’eventuale revoca dell’incarico conferito alle persone la cui opera è stata richiesta dal medesimo curatore nell’interesse del fallimento; v) provvede, nel termine di quindici giorni, sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori; vi) autorizza per iscritto il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto, per ogni grado di essi, su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone l’eventuale revoca dell’incarico conferito ai difensori nominati dal medesimo curatore; vii) su proposta del curatore, nomina gli arbitri, verificata la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge; viii) procede all’accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali vantati dai terzi, a norma del capo V.
I provvedimenti del giudice delegato assumono la forma del decreto e sono reclamabili, ex art. 26 l. fall., davanti al tribunale.
Gli articolati poteri del giudice delegato sono tradizionalmente classificati (Bonfatti, S.-Censoni, P. F., Manuale di diritto fallimentare, cit., 76 s.) in tre distinte categorie: a) processuali, ad esempio, i poteri di riferire al tribunale sugli affari in cui è richiesta una pronuncia del collegio (art. 25, n.1), di adottare o di provocare l’adozione da parte delle competenti autorità dei provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio del fallito (art. 25, n.2), di nominare o sostituire i membri del comitato dei creditori (art. 40, co. 1 e 4); b) tutori, in particolare, i poteri di convocare gli organi fallimentari (art. 25 n.3), di vigilare sulla regolarità delle operazioni (art. 25, co. 1), di autorizzare il curatore a stare in giudizio (art. 25, n. 6), di sostituirsi al comitato dei creditori in caso di omissioni, di inerzia o di urgenza (art. 41, co. 4), di decidere i reclami contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori (art. 25 n. 5), di autorizzare l’esercizio temporaneo dell’impresa (art. 104, co. 2), di autorizzare il curatore all’esecuzione di atti conformi al programma di liquidazione (art. 104 ter, ult. co.) o alla liquidazione di beni anteriormente alla approvazione del programma di liquidazione allorché il ritardo possa pregiudicare l’interesse dei creditori (art. 104 ter, comma 6); c) cognitori, potere di accertare crediti e diritti dei terzi verso il fallimento, di rendere esecutivo lo stato passivo.
Il curatore rispetto al passato vede rafforzata la sua autonomia gestionale (Demarchi, P.G.G., Il fallimento. I rapporti tra gli organi della procedura, in Jorio, A., a cura di, Il nuovo diritto delle crisi d'impresa, Milano, 2009, 139; Vigo, R., Poteri e rappresentatività del “nuovo”comitato dei creditori, in Riv. dir. civ., 2007, II, 113 ss.; d’Alessandro, F., La crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Crisi d'impresa e riforma delle procedure concorsuali, Milano, 2006, 19 ss.). Nell’esercizio delle sue funzioni il curatore è soggetto alla vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori. Al curatore è affidato l’esclusivo potere di amministrazione del patrimonio del fallito e di gestione delle varie fasi della procedura liquidatoria senza che, almeno all’apparenza, all’autorità giudiziaria venga più riservato alcun residuo potere cogestorio (Stanghellini, L., Il curatore: una figura in transizione, in Fallimento, 2007, 997 ss.) o seppur solo di natura vicaria.
Il curatore è nominato con la sentenza dichiarativa di fallimento. Il tribunale provvede altresì alla nomina di un nuovo curatore in caso di revoca o di sostituzione per giustificato motivo. La nomina da parte del tribunale avviene per una necessità non evitabile in quanto i creditori, a cui la legge delega aveva affidato il potere di nomina, non sono ancora conosciuti.
Ai sensi dell’art. 30 al curatore è riconosciuta la qualifica di pubblico ufficiale (Semiani Bignardi, F., Il curatore fallimentare pubblico ufficiale, Padova, 1965). Il curatore opera infatti per il perseguimento dell’interesse generale alla corretta e sollecita gestione della procedura di esecuzione collettiva. Quando il curatore agisce per ricostituire il patrimonio del fallito o per procedere all’accertamento del passivo assume il ruolo di terzo, e da ciò deriva l’inopponibilità al fallimento delle scritture private prive della data certa (Cass. 23.6.2008, n. 17033; Cass. 30.1.2009, n. 2439). Quando invece il curatore esercita nei confronti di terzi i diritti o le azioni ricompresi nel patrimonio del fallito acquisisce la veste di sostituto del fallito e subentra nella medesima posizione giuridica del fallito(Cass. 8.2.2008, n. 3020; Cass. 21.5.2004, n. 9685; Cass. 4.6.2003, n. 8914).
Nonostante la qualifica di pubblico ufficiale non è sostenibile che ciò derivi dall’esercizio di funzioni strumentali al perseguimento di interessi di natura pubblicistica e generale (Caselli, G., Organi del fallimento, in Commentario Scialoja – Branca, Bologna-Roma, 1977, 145; Semiani Bignardi, F., Il curatore fallimentare pubblico ufficiale, cit., 2 ss.). Plurimi indici comprovano la funzionalizzazione dell’attività del curatore alla tutela degli interessi privati dei creditori (Abete, L., Sub art. 27, in Jorio, A., a cura di, Il nuovo diritto fallimentare, Bologna-Torino, 2006, I, 545 s.). La qualifica del curatore come pubblico ufficiale riveste pratica importanza sul piano del diritto penale e dei reati fallimentari in particolare. L’art. 228 l. fall., in particolare, sanziona penalmente la condotta del curatore allorché nel compimento delle proprie attività persegue un interesse privato. Al curatore sono applicabili tutte le norme penali che presuppongono nel soggetto agente la qualità di pubblico ufficiale.
La riforma innova profondamente la figura del curatore, adattandone la funzione alle mutate esigenze di celerità e di efficiente gestione della procedura fallimentare. Possono essere nominati come curatore gli avvocati, i dottori commercialisti, i ragionieri, i ragionieri commercialisti, nonché, impersonalmente, le strutture organizzate come gli studi professionali associati o le società tra professionisti, con la sola condizione che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui all’art. 28, lett. a), ma con l’onere che, all’atto dell’accettazione dell’incarico, venga espressamente designata la persona fisica responsabile della procedura.
L’art. 28 consente infine la nomina come curatore di soggetti, privi della qualifica di liberi professionisti, che possiedano comprovate capacità gestionali per avere svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali e purché non sia intervenuta nei loro confronti dichiarazione di fallimento. Per quanto riguarda i professionisti indicati all’art. 28, co. 1, lett. a), l’iscrizione al relativo albo professionale costituisce condizione essenziale per la nomina e la permanenza in carica del curatore (Pajardi, P.-Paluchowski, A., Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, 223; Maffei Alberti, A., Commentario, cit., 137; Cass. 15.7.2005, n.15030).
In caso venga designato come curatore una organizzazione pluripersonale il destinatario della nomina è direttamente quest’ultima, come si può ricavare dall’art. 28, co. 1, lett. b), secondo cui la designazione del singolo professionista responsabile della procedura avviene solo in un secondo momento quando l’organizzazione designata provvede a comunicare al giudice delegato l’accettazione della nomina secondo la previsione dell’art. 29. L’art. 28, co. 2, mentre, da un lato, riconferma il divieto di nominare curatore il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado del fallito e i creditori del fallito, dall’altro lato, introduce nuovi specifici casi di incompatibilità per coloro che hanno concorso alla causazione del dissesto dell’impresa durante i due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, nonché infine per chiunque si trovi in conflitto di interessi con il fallimento.
Il curatore deve far pervenire al giudice delegato la sua accettazione entro due giorni dall’avvenuta presa di conoscenza della nomina. In assenza di tempestiva accettazione il tribunale è facultizzato a ritenere decaduta la nomina precedentemente effettuata e può provvedere in camera di consiglio alla nomina di un altro curatore. Il termine previsto per l’accettazione non è perentorio, conseguentemente l’accettazione tardiva, pervenuta prima della nomina del nuovo curatore da parte del tribunale, deve considerarsi legittima (Cass. 28.5.1979, n. 3078).
L’art. 31 attribuisce al curatore la competenza primaria in materia di gestione del patrimonio fallimentare.
I poteri del curatore sono definiti da limiti di natura intrinseca ed estrinseca.
I limiti intrinseci derivano dalla stessa natura delle funzioni del curatore e dalle finalità del fallimento, mentre i limiti estrinseci sono dettati dalla legge o determinati da atti della procedura.
Da un punto di vista generale, i poteri del curatore sono funzionali alla conservazione, alla gestione e, infine, alla liquidazione del patrimonio del fallito. La verifica del rispetto del limite intrinseco ai poteri del curatore passa conseguentemente dal riscontro del necessario nesso di strumentalità in concreto tra un certo atto e il fine della procedura. La ripartizione dei poteri gestori e di vigilanza all’interno del fallimento consente di escludere la configurabilità in capo al giudice delegato o al comitato dei creditori del potere di emanare direttive nei confronti del curatore o di esercitare poteri di natura vicaria qualora il curatore ometta il compimento di atti del suo ufficio (Sandulli, M., La crisi dell’impresa, Torino, 2009, 74).
Nell’ambito dei poteri gestori del curatore possono distinguersi atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione, questi ultimi a loro volta suddivisi tra atti di valore superiore od inferiore ad € 50.000. I criteri proposti per qualificare gli atti come di ordinaria/straordinaria amministrazione sono principalmente quelli (i) del rischio economico, (ii) della finalità di conservazione dell’integrità patrimoniale e, infine, (iii) della normalità dell’atto. Il criterio più idoneo a distinguere l’ordinaria dalla straordinaria amministrazione è il criterio della cd. ‘normalità’, ove la normalità va intesa nel senso di atto che consegue coerentemente dalle finalità dei poteri attribuiti nel caso concreto ed in relazione ad una particolare procedura.
L’art. 35 contiene l’esemplificazione di alcuni atti di straordinaria amministrazione, che devono essere autorizzati dal comitato dei creditori, previa informazione al giudice delegato qualora eccedano il valore di € 50.000 o contengano una transazione. L’autonomia gestionale del curatore trova limitazioni nelle autorizzazioni del giudice delegato e del comitato dei creditori di cui agli artt. 25, n. 6), 31 e 35 l. L’autorizzazione rilasciata dal giudice delegato o dal comitato dei creditori va configurata, in senso amministrativistico, come mera rimozione di un ostacolo all’esercizio di un diritto di competenza esclusiva del curatore. Il curatore, ai sensi dell’art. 31, co. 2, non può stare in giudizio senza l’autorizzazione del giudice delegato, salvo che in materia di contestazioni e di tardive dichiarazioni di crediti e di diritti di terzi sui beni acquisiti al fallimento, e salvo che nei procedimenti promossi per impugnare atti del giudice delegato o del tribunale e in ogni altro caso in cui non occorra ministero di difensore.
L'autorizzazione del giudice delegato consiste in un mera condizione di efficacia per l'esercizio delle prerogative anche processuali, con la conseguenza che il difetto o il vizio originario dell'autorizzazione possono essere sanati con efficacia ex tunc (Cass. 9.7.2005, n. 14469; Cass. 27.3.2003. n. 4555; Cass. 21.3.2003, n. 4136).
Quanto fin qui osservato per l'autorizzazione rilasciata dal giudice delegato va confermato per l'autorizzazione rilasciata dal comitato dei creditori ai sensi dell'art. 35. Il curatore ha assoluta discrezionalità con riguardo all’esecuzione degli atti oggetto di autorizzazione, ma deve formulare le proprie conclusioni anche sulla convenienza della proposta. Il curatore ha l’obbligo di informare il giudice delegato prima del compimento di atti di straordinaria amministrazione di valore superiore ad € 50.000 o di transazioni di qualsivoglia valore, salvo il caso che tali atti siano già stati autorizzati dal medesimo giudice ai sensi dell’articolo 104-ter, co. 8.
Nel caso il giudice delegato ritenga che l’atto per cui riceve l’informativa non sia legittimo o comunque conforme agli interessi della procedura potrà riferire al collegio secondo quanto previsto dall’art. 25, co. 1, n. 1) (Trib. Firenze 13.12.2007, in Fall., 2008, 194 ss.; Proto, C., Sub art. 28, in Il diritto fallimentare riformato a cura di Schiano Di Pepe, G., Padova, 2008, 115; Calvosa, L., Il giudice delegato, in Aa. Vv., Diritto fallimentare, Milano, 2008, 326). L’omessa informazione produce effetti solo endoprocedimentali, senza intaccare la validità o efficacia degli atti compiuti dal curatore in nome del fallimento, ma può costituire motivo di revoca o di responsabilità del curatore.
Il principale obbligo d'informazione del curatore riguarda la predisposizione della relazione al giudice delegato e dei successivi rapporti riepilogativi contemplati dall'art. 33.
Il curatore, entro sessanta giorni dalla dichiarazione di fallimento, deve presentare al giudice delegato la propria relazione in cui analizza le cause del fallimento e le responsabilità emergenti a carico del fallito ovvero degli amministratori, degli organi di controllo, dei soci ed anche di eventuali terzi. Una parte della relazione è dedicata alle circostanze che, secondo il prudente apprezzamento del curatore, possano configurare fattispecie penalmente rilevanti.
La relazione deve inoltre indicare gli atti compiuti dal fallito suscettibili di impugnazione al fine della reintegrazione del patrimonio dell’impresa fallita. Il giudice delegato ordina la segretazione delle parti della relazione che riguardano le responsabilità penali, le azioni di contenuto eventualmente cautelare da avviare e le informazioni estranee agli interessi del fallimento riguardanti la sfera personale del fallito.
La versione integrale della relazione è trasmessa al pubblico ministero per le valutazioni conseguenti. Per ciò che riguarda l’efficacia probatoria dei contenuti della relazione del curatore, bisogna distinguere tra: i) valutazioni ed opinioni del curatore prive di ogni efficacia, ii) informazioni riferite al curatore o dallo stesso a cui si riconosce la natura di indizi, iii) accertamenti svolti dal curatore o avvenuti in sua presenza a cui va riconosciuta efficacia di piena prova fino a querela di falso (Bonfatti, S.-Censoni, P.F., Manuale di diritto fallimentare, cit., 100).
Il curatore, ogni sei mesi dopo il deposito della relazione, redige un rapporto riepilogativo delle attività svolte in cui oltre a dare atto degli atti compiuti, deve altresì menzionare tutti gli ulteriori fatti di cui è venuto a conoscenza. Il rapporto riepilogativo con i relativi allegati è trasmesso al comitato dei creditori perché formulino eventuali osservazioni scritte entro il termine assegnato, trascorso il quale, nei quindici giorni successivi, copia del rapporto riepilogativo insieme alle osservazioni vengono depositate all'ufficio del registro delle imprese.
L’art. 32 consente al curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, di avvalersi di delegati e coadiutori.
La differenza tra le due figure consiste nel fatto che il delegato sostituisce il curatore per il compimento di singoli atti rientranti nelle attribuzioni proprie di quest’ultimo, mentre il coadiutore affianca il curatore nell’esecuzione di attività materiali o tecniche non rientranti fra le attribuzioni di quest'ultimo.
Al delegato possono essere affidate tutte le incombenze tipicamente esercitate dal curatore, salvo le limitazioni espressamente contemplate dalla norma e di cui agli artt. 89, 92, 95 e 104-ter. Una caratteristica intrinseca della figura del delegato è quella della occasionalità del suo impiego da parte del curatore in quanto non pare coerente con il principio imperativo di personalità una delega istituzionalizzata di attribuzioni. Al contrario il coadiutore affianca durevolmente il curatore in ragione delle mansioni a cui viene dedicato.
L’art. 37 bis prevede la sostituzione del curatore per iniziativa dei creditori. Il procedimento è alquanto snello: terminata la verifica dello stato passivo, prima che lo stesso venga reso esecutivo, la maggioranza dei creditori ammessi può deliberare la sostituzione del curatore con altro da loro designato, con le sole condizioni che (i) vengano illustrate le ragioni della richiesta, (ii) sia designato un nuovo soggetto in possesso dei requisiti previsti dall’art. 28. Il tribunale procede quindi alla nomina del nuovo curatore, previa valutazione delle ragioni addotte dai creditori e conseguente verifica della sussistenza di un giusto motivo e dei requisiti del nominando (Abete, L., Sub art. 37 bis, cit., 632 ss.; Pajardi, P., -Paluchowski, A., Manuale di diritto fallimentare, 241 s.).
La revoca del curatore è disciplinata dall'art. 37, che attribuisce al tribunale il potere di revocare in ogni tempo il curatore su proposta del giudice delegato, su richiesta del comitato o d'ufficio. La legge non contempla tutte le possibili ipotesi di cessazione del curatore dalla carica. La decadenza è configurabile ogniqualvolta, successivamente alla accettazione della carica, si verifica una delle situazioni di incapacità assoluta (interdizione, inabilitazione, etc.) o speciale (coniuge, parente, affine, etc.), ovvero di perdita dei requisiti necessari per la nomina. Il curatore può dimettersi ad nutum ovvero per giusta causa, comunque sempre con effetti a decorrere dall’insediamento del nuovo curatore (Scano, D., Il curatore, cit., 179).
Il pendant dell’autonomia gestionale del curatore consiste in una forte responsabilità. Il curatore è responsabile per i danni causati al patrimonio fallimentare dalla inosservanza della legge o del piano di liquidazione (elemento oggettivo) con violazione colposa o dolosa dei doveri di diligenza professionale (elemento soggettivo).
Il dovere di rispettare la legge non riguarda soltanto i molteplici obblighi specifici imposti al curatore, ma soprattutto il dovere di corretta gestione in forza del quale il curatore è obbligato all’osservanza di tutte le norme, di rango non solo primario (De Crescienzo, U., La responsabilità del curatore fallimentare, in Fallimento, 2009, 379 ss). La responsabilità del curatore non è attenuata per via dell’autorizzazione concessa dal giudice delegato o dal comitato dei creditori ovvero del mancato intervento inibitorio da parte di tali organi di controllo (Abete, L., Sub art. 38, cit., 647; Sandulli, M., La crisi dell’impresa, cit., 80 s.).
La responsabilità del curatore fallimentare è regolata dalle norme di diritto comune e da quelle speciali contenute negli artt. 38 e 116 l. fall. L’attività del curatore può dare luogo sia a responsabilità contrattuale, in ragione della possibile violazione del dovere di agire diligentemente (Cass. 5.4.2001, n. 5044), sia a responsabilità aquiliana nei confronti del fallito, della massa o di terzi (Cass. 15.7.2005, n. 15030). L’azione contemplata dall’art. 38 è una forma speciale di responsabilità destinata a tutelare l’integrità del patrimonio fallimentare ed è esercitabile solo dalla medesima procedura previa revoca del curatore (Abete, L., Sub art. 38, cit., 651; Proto, C., Sub art. 28, 121 ss.).
Gli effetti delle eventuali condotte dolose o colpose del curatore che danneggino singoli creditori o terzi, senza danneggiare direttamente il patrimonio fallimentare, qualora derivino dall’esecuzione di atti del curatore inerenti il suo ufficio, non potranno che imputarsi alla procedura in nome e per conto della quale agisce il curatore. La dottrina maggioritaria e la giurisprudenza appaiono decisamente orientate ad affermare la natura contrattuale della responsabilità del curatore ex art. 38 valorizzando l’atto di nomina del curatore in quanto evocante l’istituzione di un rapporto negoziale di mandato (Cass. 5.4.2001, n. 5044; Cass. 11.2.2000, n. 1507; Trib. Milano, 13.6.2006, in Fallimento, 2006, 1455; Trib. Milano, 15.3.2001, in Fallimento, 2001, 833) o di pubblico impiego (Nigro, A.-Vattermoli, D., Diritto della crisi delle imprese, cit., 111).
In via normale l’azione di responsabilità è promossa dal nuovo curatore contro il predecessore (Cass. 8.9.2011, n. 18438). La ratio sottesa al riconoscimento dell’esclusività della legittimazione attiva in favore del nuovo curatore consiste nell’evitare azioni inconsulte del fallito o dei creditori che si pretendono danneggiati, ovvero di proteggere il curatore da eventuali azioni proposte per finalità intimidatorie. Data la natura speciale dell'azione di responsabilità contemplata all'art. 38, con la chiusura del fallimento si esaurisce l'azione. In conseguenza del riconoscimento della natura contrattuale dell'azione di responsabilità il termine di prescrizione va determinato in dieci anni decorrenti dalla data di cessazione del curatore dalla carica (Cass. 5.4.2001, n. 5044; Cass. 11.2.2000, n. 1507; Cass. 4.10.1996, n. 8716).
Ai sensi dell’art. 39, co. 1, il curatore ha diritto a un compenso per l'attività prestata oltre al rimborso delle spese sostenute determinati con decreto del tribunale non soggetto a reclamo, su istanza del curatore e previa relazione del giudice delegato, secondo le norme previste nel decreto del ministro della giustizia 28.7.1992 n. 570.
La suddetta norma è da porre in stretta relazione con il quarto comma del medesimo articolo con cui al curatore è vietato pretendere/pattuire qualsiasi altro compenso, ovvero rimborso spese, oltre quello liquidato dal Tribunale, con l'ulteriore sanzione della nullità delle promesse e dei pagamenti effettuati in violazione di tale divieto, e ferma in ogni caso la ripetibilità di quanto eventualmente pagato in favore del curatore.
La riforma introduce il criterio di proporzionalità del compenso dei più curatori eventualmente succedutisi nella carica, collocandone la liquidazione al termine della procedura di modo da poterne considerare globalmente l'attività (Scano, D., Il curatore, cit., 191 s.). Nel caso di un unico curatore per più fallimenti (cd. fallimento plurimo), il compenso deve essere liquidato prendendo come base le distinte masse attive e passive dei singoli fallimenti senza procedere alla loro somma (Trib. Roma 19.11.2008, in Fallimento, 2009, 487).
Il comitato deve essere composto da tre o cinque membri scelti dai creditori.
Il giudice delegato nomina i componenti del comitato, entro trenta giorni dal deposito della sentenza di fallimento, in base agli atti e ai documenti conosciuti, dopo essersi consultato con il curatore e i creditori che, con la domanda di ammissione al passivo, eventualmente già presentata, o altrimenti, hanno manifestato la disponibilità alla nomina.
Il procedimento di nomina contempla una fase necessaria di consultazioni tra il giudice delegato, il curatore ed alcuni creditori disponibili.
Trattasi di una fase caratterizzata da grande informalità sia per quanto riguarda i modi e i tempi delle consultazioni, sia per quanto riguarda i soggetti consultabili. I nominati possono delegare a terzi, aventi i requisiti di professionalità e indipendenza previsti per il curatore, l’esercizio delle proprie funzioni, previa comunicazione al giudice delegato (art. 40, ult. co.). L’ampiezza della previsione normativa rende ammissibile una delega permanente, ma il creditore delegante resta pienamente responsabile nei confronti del fallimento per l’operato del delegato (Schiavon, G., Sub artt. 40-41, in Jorio, A., a cura di, Il nuovo diritto fallimentare, cit., 684; Rocco di Torrepadula, N., Sub art. 40, in Nigro, A.,-Sandulli M., a cura di, La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, 265).
L'art. 40, co. 1, ultima parte, prevede che, salvo quanto previsto dall'art. 37 bis, la composizione del comitato può essere modificata dal giudice delegato in relazione alle variazioni dello stato passivo o per altro giustificato motivo. L'art. 37 bis, invece, dispone che i creditori rappresentanti la maggioranza dei creditori ammessi possono effettuare nuove designazioni in ordine ai componenti del comitato dei creditori. Per quanto riguarda la sostituzione/nomina di nuovi componenti richiesta dai creditori in forza della previsione dell'art. 37 bis si sostiene che il tribunale a cui è indirizzata la richiesta dei creditori sia vincolato ad accogliere tale richiesta salvo che ritenga non rispettati i criteri di cui all'art. 40, co. 2, l. fall. (Schiavon, G., Sub artt. 40-41, cit., 671 s.; Penta, A., Il comitato dei creditori, in Fauceglia, G.-Panzani, L., Fallimento e altre procedure concorsuali, Padova, 2009, 351; Abete, L., Sub art.37-bis, cit., 630; Guglielmucci, L., Diritto fallimentare, cit., 85).
L'art. 40, co. 2, richiede che il comitato rappresenti una sintesi equilibrata dei creditori mediante l’utilizzo di tre variabili: quantità, qualità e possibilità di soddisfacimento dei crediti (Vigo, R., Poteri e rappresentatività del “nuovo”comitato dei creditori, cit., 524; Stanghellini, L., Il curatore: una figura in transizione, cit., 381). La ratio legis è costituire un organo per quanto possibile rappresentativo della globalità dei creditori, da un lato, e portatore di un interesse a svolgere correttamente la funzione affidata al comitato, dall'altro lato. Sul criterio della possibilità di soddisfacimento del creditore si è soffermata la maggiore attenzione della dottrina. Da una parte, vi è chi ritiene che i creditori chirografari e quelli titolari di garanzia reale siano carenti di un concreto interesse a partecipare attivamente al comitato in quanto per entrambi la procedura non dovrebbe comportare particolari sorprese (Penta, A., Il comitato dei creditori, cit., 354). Dall’altra parte, vi è chi sostiene che i creditori, il cui soddisfacimento è esposto a maggiore rischio, abbiano l’interesse ad una efficiente gestione della procedura (Maffei Alberti, A., Commentario alla legge fallimentare, cit., 194).
La disciplina concernente il funzionamento del comitato dei creditori, suddivisa tra gli artt. 40 e 41, è alquanto lacunosa.
La legge affida al curatore la convocazione del comitato dei creditori affinché, nel termine di dieci giorni dalla nomina dell’ultimo dei componenti, provveda a designare il presidente. A seguito dell’insediamento del comitato e della nomina del presidente le successive convocazioni del comitato vengono effettuate direttamente dal presidente o quando viene richiesto da un terzo dei suoi componenti.
L’art. 41 prevede che le decisioni del comitato possono essere assunte collegialmente ovvero per mezzo telefax o con altro mezzo elettronico o telematico, purché sia possibile conservare la prova della manifestazione di voto. Il comitato può autoregolamentare il suo funzionamento, ma in difetto si ritiene legittimo il potere del presidente di determinare le modalità e le tempistiche di espressione del voto (Trib. Roma, ord., 20.3.2008, in Fallimento, 2009, 110). In base a quanto previsto dall’art. 41, 3 co., il comitato delibera a maggioranza dei votanti. Le decisioni del comitato devono essere assunte entro il termine massimo di quindici giorni a decorrere dal giorno in cui la richiesta è pervenuta al presidente.
Al fine di garantire la correttezza dell’azione del comitato l’art. 40, quinto comma, dispone l’obbligo di astensione a carico del componente che si trova in conflitto di interessi.
Le funzioni del comitato dei creditori possono essere suddivise in tre principali categorie: attività di vigilanza; attività consultiva; attività di amministrazione attiva. La funzione di vigilanza tutela l'interesse al corretto svolgersi della procedura fallimentare e si articola in molteplici attività che i membri del comitato possono intraprendere collegialmente o individualmente. Le funzioni consultive del comitato rientrano tra le competenze originarie di questo organo che sono state ulteriormente rinforzate proporzionalmente al crescere d'importanza dei creditori nella geometria fallimentare.
La legge fallimentare prevede frequenti occasioni in cui il giudice delegato o il tribunale debbono obbligatoriamente richiedere il parere del comitato, ad esempio nel caso di: revoca del curatore (art. 37); concessione di alimenti per il fallito (art. 47); subentro nel contratto di finanziamento destinato ad uno specifico affare (art. 72 ter); liquidazione anticipata dei beni (art. 104 ter); sospensione delle operazioni di vendita (art. 108); progetto di riparto parziale (art. 110); esdebitazione (art. 143); azione di responsabilità contro amministratori, sindaci, soci di s.r.l. etc. (art. 146).
In alcuni limitati casi il parere del comitato ha natura vincolante. Le funzioni di amministrazione attiva consentono al comitato di affiancare il curatore nell'assunzione delle scelte strategiche per la gestione del patrimonio.
L’art. 40, co. 6, prevede come necessario solo il rimborso spese mentre un compenso è meramente eventuale. Secondo l'art. 37 bis, co. 3, i creditori rappresentanti la maggioranza di quelli ammessi, calcolata per teste, indipendentemente dall'entità dei crediti vantati, possono stabilire un compenso per l'attività dei componenti del comitato ma non oltre il dieci per cento di quanto liquidato al curatore.
L'art. 41, co. 7-8, regolamentano la responsabilità dei componenti del comitato dei creditori. La tecnica legislativa è quella di rinviare alla disciplina delle responsabilità in materia di società per azioni con il richiamo della responsabilità dei sindaci. L'art. 41, co. 7, formula ora un richiamo soltanto all'art. 2407, co. 1 e 3, c.c. che si applica in quanto compatibile. Per l’art. 2407, co. 1, c.c., i sindaci devono adempiere ai loro doveri secondo la professionalità e diligenza richieste dalla natura dell'incarico.
Quanto all'azione di responsabilità l'art. 41 chiarisce che può essere esercitata durante lo svolgimento della procedura dal solo curatore, mentre chiuso il fallimento parrebbe possibile l'esercizio dell’azione di responsabilità da parte dei creditori o del fallito. Tale interpretazione pendente il fallimento evita che il comitato dei creditori possa essere ‘minacciato’ dall’avvio di azioni di responsabilità strumentali, mentre, una volta chiuso il fallimento, lascia integro il diritto dei creditori eventualmente lesi a richiedere il risarcimento dei danni imputabili ai componenti del comitato (Inzitari, B., La responsabilità del comitato dei creditori, in Dir. Fall., 2009, 193 s.; Sandulli, M., La crisi dell'impresa, cit., 70; Bonfatti, S. - Censoni, P.F., Manuale di diritto fallimentare, cit., 87; Penta, A., Il comitato dei creditori, cit., 381; De Crescienzo, U., La responsabilità del curatore fallimentare, cit., 12). Il curatore deve essere autorizzato all'esercizio dell'azione dal giudice delegato il quale nel contempo dovrà provvedere alla sostituzione dei componenti nei cui confronti viene promossa l'azione.
Artt. 23-41, r.d. 16.3.1942 n. 267 (l. fall.)
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