FALLIMENTO (fr. faillite; sp. quiebra; ted. Konkurs; ingl. bankruptcy)
È un processo di natura prevalentemente esecutiva; promosso per iniziativa dello stato e attuato per impulso dello stesso, allo scopo del soddisfacimento egualitario dei creditori di un commerciante insolvente.
Il corpo delle norme sul fallimento, che più opportunamente avrebbe formato l'oggetto d'una legge a sé stante, e comunque avrebbe avuto la più naturale sede fra le leggi processuali, costituisce invece il libro terzo del vigente codice di commercio (articoli 683-867): altre disposizioni si trovano nel libro quarto dello stesso codice (articoli 905-914) e nel regolamento per l'esecuzione del codice di commercio 27 dicembre 1882, n. 1139 (articoli 77-79), ecc. Importanti modificazioni alle disposizioni ora citate sono contenute nella legge Rocco 10 luglio 1930.
Elementi della definizione. - È un processo. - Per quanto, come si accennerà, non si tratti d'un processo a contenuto puramente esecutivo, è certo che il fallimento si attua quando un debitore (per la nostra legge solo se commerciante) non soddisfa le sue obbligazioni e anzi manifesta all'esterno uno stato di squilibrio patrimoniale che rivela senz'altro l'impotenza dell'azienda rispetto al puntuale ed egualitario soddisfacimento delle obbligazioni passive. Questa condizione di cose impone l'intervento del potere giudiziario. Sia che si concepisca il processo, date codeste condizioni, come la somma degli atti necessarî a comporre la lite, sia che la sua funzione tipica si ravvisi nella coattiva attuazione del diritto obiettivo, la conclusione è sempre nel senso che si tratti d'un processo.
Prevalentemente esecutivo. - Sebbene su questo punto non ci sia concordia in dottrina, è probabile opinione che non si possa parlare d'un processo schiettamente esecutivo, sebbene quella dell'esecuzione sia l'attività prevalente. È giocoforza ravvisare nel complesso procedimento fallimentare una pluralità di coefficienti che ne fanno un processo misto. Si tratta, certo, di sottoporre a liquidazione forzata la totalità dei beni costituenti il patrimonio del debitore, e di ripartire fra i creditori il ricavato della liquidazione, secondo le ragioni di privilegio che assistono i crediti rispettivi: ma non si può non constatare nel processo concorsuale l'attuazione d'un interesse pubblico dello stato: quello di non permettere disuguaglianze fra creditori, di non lasciar soddisfare in modo esclusivo, secondo le regole del processo esecutivo individuale, il diritto di chi primo arriva sui beni del debitore. Se lo stato consentisse una simile anomalia, ne sarebbe ferita a fondo la legge del credito, cioè della circolazione: e il danno sociale di questa insicurezza sarebbe così grave da doversi spiegare, per ovviarvi, l'intervento officioso dello stato (vedi appresso). Lo stato, perciò, quando vede i sintomi dell'insolvenza in un patrimonio commerciale, teme lo scatenarsi delle azioni individuali e il realizzarsi della deprecata disparità, che lascerebbe insoddisfatti i meno accorti o più lontani o più pigri fra i creditori: per conservare (intesa la parola in senso tecnico) la legge di parità, cioè per allontanare il pericolo che la minaccia, lo stato pronuncia la sentenza dichiarativa di fallimento, e così determina l'insensibilità del patrimonio a qualunque atto dispositivo che direttamente o indirettamente sia posto in essere dal debitore o sia la conseguenza o l'obiettivo di un'iniziativa di creditori. Ecco in quale senso vi hanno nel fallimento dei coefficienti di assicurazione o di conservazione.
Promosso per iniziativa dello stato. - Come si è detto, con l'apertura del concorso si difende un interesse pubblico dello stato.
Attuato per impulso dello stato. - Nel processo individuale, specialmente di cognizione, domina il principio dell'impulso di parte: il processo va avanti di fase in fase perché la parte lo sospinge. Se questa forza viene meno, il processo si ferma. Nel fallimento invece gli organi del processo provvedono ad attuarne senza impulso estrinseco le varie fasi.
Allo scopo del soddisfacimento egualitario dei creditori. - Vedremo che quell'eguaglianza è tutelata perfino con sanzioni penali. Vedremo altresì che se la sentenza dichiarativa attua in via di prevenzione questa difesa della legge di parità, l'istituto della revocatoria fallimentare la traduce in atto in via repressiva o esecutiva, nel senso che sono di molto facilitate, in confronto delle disposizibni della legge comune, le azioni dirette a rimuovere la già verificatasi violazione dell'eguaglianza, cioè la situazione di indebito vantaggio che qualche creditore abbia a suo profitto precostituito: giova però avvertire subito che non si arriva col regolamento vigente a una piena attuazione della parità, perché, sebbene fatti in periodo sospetto, non sono revocati i pagamenti di debiti scaduti ed esigibili quando siano stati eseguiti con denaro o con altri effetti di commercio (art. 709, n. 3, cod. comm.).
Creditore di un commerciante. - Non c'è, infatti, nella legge italiana, il fallimento civile. Chi sia, poi, commerciante, è detto nell'art. 8 cod. comm.: a) colui che esercita per professione abituale atti di commercio; b) la società commerciale: è commerciante cioè così la persona fisica come la persona giuridica. Eccezionalmente può essere assoggettato al fallimento anche chi non è più commerciante: invero, per l'art. 690 cod. comm. si può dichiarare il fallimento del commerciante defunto, purché dentro un anno dalla sua morte; e il fallimento di colui che si è ritirato dal commercio, purché dentro cinque anni dal ritiro e per cessazione dei pagamenti verificatasi al più tardi entro l'anno dal ritiro. Del pari è da tenere presente sotto questo riguardo che, quando viene dichiarato il fallimento d'una società in nome collettivo o d'una società in accomandita, con la medesima sentenza, e per necessaria ed esclusiva conseguenza del dichiarato fallimento sociale, si dichiarano anche i fallimenti individuali dei soci della collettiva e rispettivamente dei gerenti dell'accomandita (art. 847 cod. comm.): anche qui, poiché si prescinde affatto dalla qualita di commerciante del socio (è certo che il socio d'una collettiva come l'accomandatario non diventano commercianti per la veste che così assumono), siamo davanti a fallimento di non commercianti.
Commerciante insolvente. - Questo termine riassume la proposizione che si legge nell'art. 683 cod. comm.: "il commerciante che cessa di fare i suoi pagamenti per obbligazioni commerciali è in istato di fallimento"; e anche l'altra che si legge nell'art. 705 cod. comm.: "il solo rifiuto di alcuni pagamenti, per eccezioni che il debitore in buona fede possa credere fondate, non è prova della cessazione dei pagamenti; ed il fatto materiale di una continuazione di pagamenti, con mezzi rovinosamente o fraudolentemente procurati, non impedisce la dichiarazione che il commerciante fosse realmente in istato di cessazione dei pagamenti". Per definire la cessazione dei pagamenti, si potrebbe dire che essa equivale alla "impotenza di un commerciante rispetto al pagamento puntuale dei debiti che lo gravano, resa manifesta dal comportamento di lui nei suoi rapporti commerciali". Non è necessario e neanche sufficiente che il passivo superi l'attivo. Data la funzione intensissima che esercita nella vita commerciale il credito, ben può darsi che questo soccorra al commerciante in un momento in cui gli altri elementi attivi della sua azienda appariscono impari nel loro ammontare alla somma delle passività. Per converso, può darsi che un commerciante avente più attivo che passivo sia privo di credito, e non riesca a tradurre con sufficiente prontezza le sue attività nelle somme di denaro liquido che sono necessarie per pagare i suoi debiti. In secondo luogo va osservato che si tratta d'indagare la struttura interna del patrimonio, la sua composizione qualitativa e quantitativa, ecc.: lo stato d'insolvenza deve avere manifestazioni esteriori. Oltre alle inadempienze inescusabili, sono fatti di manifestazione diretta l'esplicita confessione del cessante, la fuga di lui, la chiusura del negozio, il trafugamento e l'occultamento di merci o mobili, la distruzione o dispersione di tutti i beni, il suicidio, ecc. Si può dunque fallire anche quando non c'è ancora un debito insoluto e quando si sono, fino a quel momento, puntualmente soddisfatte le proprie obbligazioni passive; vuol dire che questo è stato possibile a prezzo di un'economia rovinosa, cioè per es., della svendita di merci per far denaro, e bene si spiega come l'apparente puntualità nei pagamenti non impedisca di sorprendere l'attualità dello sfacelo.
Apertura del processo di fallimento. - Natura e contenuto della sentenza dichiarativa. - Il fallimento è dichiarato con sentenza dal tribunale del luogo dove è il principale stabilimento commerciale del cessante. Il tribunale può dichiarare il fallimento d'ufficio. D'altra parte qualunque creditore - eccezion fatta dei discendenti ascendenti e coniuge del debitore - ha facoltà di presentare una domanda di fallimento al tribunale. Da ultimo, il commerciante deve, non appena si sia accorto della propria impossibilità di proseguire, e non oltre i tre giorni, sotto pena di bancarotta semplice, fare istanza al tribunale perché il proprio fallimento sia dichiarato.
Quanto al contenuto della sentenza dichiarativa, si desume dalla legge (art. 691 cod. comm. combinato con l'art. 3 legge 10 luglio 1930) che con la sentenza il tribunale deve: nominare il giudice delegato alla procedura del fallimento; ordinare l'apposizione dei sigilli; nominare il curatore definitivo del fallimento; stabilire un termine non maggiore di un mese nel quale i creditori devono presentare nella cancelleria del tribunale le dichiarazioni dei crediti; determinare il giorno e l'ora in cui sarà proceduto nella residenza del tribunale alla chiusura del processo verbale di verificazione dei crediti entro i venti giorni successivi. La sentenza deve contenere anche l'ingiunzione al fallito di presentare entro tre giorni il bilancio nella forma stabilita dall'art. 686 e i suoi libri di commercio se non siano già stati depositati. Tale sentenza è provvisoriamente esecutiva.
Parve però al legislatore che la sommaria cognizione che precede la pronuncia d'un fallimento dovesse attribuire alla sentenza stessa un certo carattere di provvisorietà, cioè che si dovesse consentire a qualunque interessato, primo fra gli altri il fallito, di istituire un giudizio in contraddittorio, in cui, re melius perpensa, si potesse constatare la presenza o no delle condizioni per la dichiarazione del fallimento. Ecco perché l'art. 693 cod. comm. attribuisce al fallito e a qualunque altro interessato il diritto di fare opposizione alla sentenza dichiarativa del fallimento, rispettivamente entro otto e trenta giorni dall'affissione alla porta esterna del tribunale. Il giudizio di opposizione è promosso in contraddittorio del curatore davanti allo stesso tribunale che ha dichiarato il fallimento.
Quanto alla provvisoria esecutorietà, le stesse ragioni d'urgenza che hanno suggerito il sistema della pronuncia senza contraddittorio dicono di per sé che troppe volte la sospensione dell'esecutorietà della pronuncia farebbe venir meno, sia pur solo in parte, i risultati pratici contemplati dal legislatore nell'interesse pubblico.
Effetti dell'apertura del processo di fallimento. - Si tratta di effetti o strettamente personali o patrimoniali.
a) Strettamente personali. - Al condannato per bancarotta è fatto divieto d'esercitare la professione di commerciante (art. 861 cod. comm.: il codice parla di inabilità, ma è probabile che si tratti d'imprecisione formale); è inoltre vietato al fallito di entrare nelle borse (articoli 697 e 861 cod. comm. e art. 8 legge 20 marzo 1913, n. 272). Finché dura lo stato di fallimento, è decretata l'incapacità di esercitare il diritto di elezione attiva e passiva, ma non oltre cinque anni dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento ovvero dalla data a cui si richiama l'art. 39 legge 24 maggio 1903, n. 197 (art. 107, n. 2, r. decr. 2 settembre 1928, n. 1993). Sono inoltre comminate l'ineleggibilità all'ufficio di membro del Consiglio provinciale dell'economia (art. 6 legge 18 aprile 1926, n. 731), l'esclusione dalla funzione di tutore, pro-tutore, curatore, membro del consiglio di famiglia (art. 269 cod. civ.) e l'esclusione dall'ufficio di amministratore di società (art. 151 cod. comm.). Restrizioni varie sono apportate alla libertà personale del fallito, e sono dovute in parte a motivo di polizia e in parte all'esigenza del processo esecutivo di fallimento (cfr. art. 698 cod. comm.).
b) Patrimoniali. - Essi sono contemplati dall'articolo 699 cod. comm. Oltre alla scadenza dei debiti a termine, che s'intendono tutti scaduti nel giorno della sentenza dichiarativa; oltre alla cessazione del corso degli interessi; oltre alla conversione del diritto di credito in un diritto al dividendo, l'effetto essenziale della sentenza dichiarativa è la separazione di tutti i beni del fallito, sottratti alla sfera delle sue facoltà dispositive: val quanto dire che egli, sebbene non perda in modo immediato la proprietà dei suoi beni, perde però la facoltà di disporne e correlativamente perde la legittimazione processuale così attiva come passiva in relazione a quei beni, e anche a quelli sopravvenienti. La separazione ha naturalmente quel grado d'intensità che al legislatore parve necessario per il raggiungimento degli scopi del processo: quindi non è già soltanto che il fallito abbia perduto la facoltà di creare nuovi debiti volontariamente, ad es. col rilascio di cambiali, di chirografi, ecc., e in genere di promesse di pagamento; è che nemmeno per titolo di delitto o quasi delitto possono formarsi, dopo la sentenza dichiarativa del fallimento, nuove ragioni di credito concorrentista sulla massa separata. Questi nuovi creditori potranno essere soddisfatti a fallimento chiuso sui nuovi beni che eventualmente il fallito riesca ad acquistare. Nuove obbligazioni gravanti quella massa non possono nascere che per fatto del curatore.
Organi del processo di fallimento. - Gli organi principali sono il curatore (sebbene non manchino ragioni serie per attribuirgli la qualifica di parte) e il giudice, singolo come collegiale, la delegazione di sorveglianza e l'assemblea dei creditori. Ci sono poi gli organi sussidiarî, cancelliere, ufficiale giudiziario, ecc., nonché gli ausiliarî dell'esecuzione, dei quali va tenuta parola a proposito dei singoli atti del processo.
Il curatore. - È nominato dal tribunale che dichiara il fallimento, e scelto nell'albo degli amministratori giudiziarî; è un pubblico ufficiale. Questa qualifica, che gli deriva dalla natura pubblicistica delle funzioni che gli sono affidate, ne accresce certamente i poteri e il prestigio; ma inasprisce le sanzioni, specialmente penali, degli atti illegittimi che egli ponesse in essere. Contro il curatore, per le responsabilità incontrate nell'esercizio del suo ministero, non può agire qualsiasi dei creditori: l'esercizio del diritto alla buona gestione e al risarcimento del danno conseguente alla gestione cattiva appartiene alla generalità dei creditori come tale, cioè come massa. Pertanto, solo l'assemblea può deliberare l'azione di risarcimento contro il curatore, azione che sarà esercitata dal curatore subentrante. La sede per l'esercizio delle eventuali azioni di responsabilità è quella del rendiconto. Si può discutere del conto sia quando la gestione sia arrivata al suo termine naturale, sia quando essa sia stata interrotta, a es. per rinuncia dell'amministratore o per revoca: certo è che non si possono esercitare azioni di responsabilità per mala gestione quando il curatore è ancora in carica. Si è sollevato più volte il dubbio, se l'essere intervenute le autorizzazioni e omologazioni che con molta frequenza si esigono per gli atti del curatore, basti per toglier di mezzo la responsabilità di quest'ultimo per l'atto compiuto. È comune opinione che il dubbio non abbia ragion d'essere. Il concorso di quella pluralità di organi in una data deliberazione non è prescritto a favore di essi, ma a favore del titolare dell'interesse (la massa dei creditori e, in certi casi, il fallito).
Giudice. - Oltre il tribunale fallimentare c'è il giudice singolo, cioè il giudice delegato, a cui spetta la direzione dell'amministrazione del fallimento (art.4 della legge 10 luglio 1930). Più analiticamente l'art. 727 cod. comm. riproduce i provvedimenti che sono di sua competenza.
La delegazione di sorveglianza. - È nominata dal giudice delegato, presieduta da uno dei suoi membri pur designato dal giudice delegato; delibera a maggioranza. Essa ha diritto e dovere d'intervenire, in funzione ispettiva, o in funzione deliberativa-consultiva, o in funzione deliberativa-vincolativa, in una serie di provvedimenti emanati nel corso del processo fallimentare.
Assemblea dei creditori. - Per la formazione, infine, di certi provvedimenti nel corso del processo di fallimento, provvedimenti così esecutivi come decisorî, la legge esige il concorso non più soltanto della delegazione, cioè di quell'organo numericamente esiguo che si esprime dalla massa dei creditori, ma della stessa assemblea di costoro.
Oggetto del fallimento. - Oggetto del processo fallimentare è l'esercizio di quelle facoltà di disposizione che sono state espropriate in pregiudizio del fallito e sono state trasferite negli organi principali dell'esecuzione, curatore e giudice delegato: facoltà di disposizione che si esercita mediante la liquidazione dei beni del fallito e la ripartizione del ricavato fra i creditori, osservate le ragioni di privilegio. Per conoscere dunque questa parte dell'ordinamento fallimentare, bisogna parlare dei beni, che costituiscono il patrimonio soggetto a liquidazione; e dei debiti, alla cui estinzione il ricavato della liquidazione va devoluto.
I beni. - Sappiamo già che sono soggetti alla separazione tutti i bení appartenenti al fallito, corporali, incorporali, diritti reali, diritti di credito, ecc. Ci sono però, come dice l'art. 699, dei beni strettamente personali e inseparabili, che non vanno a costituire la massa attiva del fallimento. Sono tali le azioni relative a diritti familiari; le azioni relative allo sfruttamento economico dei diritti d'autore; le azioni di danno per delitto contro la persona; le azioni di revoca di donazione d'indennità d'un coerede, l'azione di legittima, il diritto di accettare legati, eredità o donazioni. Strettamente personali sono, per la loro struttura giuridica, i diritti di usufrutto, di uso e di abitazione; così il diritto di usufrutto legale paterno, almeno per la quota che non eccede il fabbisogno del figlio; strettamente personali sono gli assegni per alimenti, inteso il termine nel suo senso proprio. Sono sottratti alla massa i beni che nel momento dell'apertura del concorso erano già usciti dal patrimonio del commerciante, e così la somma che venne depositata per offerta reale allorquando il deposito o sia stato accettato o sia stato giudiziariamente convalidato prima della sentenza dichiarativa. La somma rimessa dal traente al trattario della cambiale appartiene tuttavia al primo, finché quest'ultimo non abbia accettato: se non ha accettato prima della dichiarazione del fallimento il curatore avrà diritto di pretendere la restituzione approfittando dell'estinzione del mandato fra traente e trattario che è una conseguenza del fallimento.
Quanto ai rapporti giuridici non ancora compiutamente eseguiti da ambedue le parti, bisogna procedere per distinzioni. Se un rapporto giuridico già perfetto ha avuto da parte del commerciante fallito la sua piena esecuzione, l'altra parte dovrà alla massa la sua prestazione come la dovrebbe al fallito. Per converso, se è il terzo che ha eseguito la sua prestazione, egli avrà diritto di regola a quell'identica controprestazione in confronto della massa a cui avrebbe avuto diritto in confronto del fallito. Insomma, in via di principio rimane fermo che la liquidazione fallimentare rispetta i contratti perfetti modificandone la disciplina solo in casi ben determinati, là dove la continuatività delle reciproche prestazioni, protratte nel tempo oltre certi limiti, presenta caratteri antitetici con le finalità del procedimento a scopo di pagamento dei debiti, ecc.; su di che v. appresso. Diversa questione è quella che riflette la sorte dei contratti bilaterali non ancora compiutamente eseguiti dall'una e dall'altra parte nel momento in cui viene dichiarato il fallimento. La dichiarazione di voler continuare nell'esecuzione del contratto imporrebbe al contraente in bonis di subire anche per le nuove prestazioni la legge del dividendo. Ora questa continuazione è certamente un diritto del terzo contraente in bonis ma non può essere un obbligo. Soccorre a questa singolare situazione il riconoscimento del diritto nel terzo di sospendere l'esecuzione del contratto: facoltà che è, diversa dal diritto di ottenere lo scioglimento. In correlazione con la norma per cui il fallimento in massima non è causa di scioglimento dei contratti bilaterali in corso di esecuzione, sta l'altro principio per cui il curatore del fallimento può subentrare al fallito nell'esecuzione del contratto (arg. art. 806 cod. comm.). Il curatore subentra così nel rapporto, assumendovi la posizione stessa che vi aveva il fallito, cioè facendo valere da una parte, e dall'altro subendo, tutte le clausole, condizioni, termini ed eccezioni esistenti nei rapporti del fallito. Certo si è che il terzo contraente in bonis ha la facoltà d'imporre la continuazione del rapporto, accontentandosi per parte sua di percepire il pagamento corrispettivo in misura di dividendo, come la facoltà di sciogliere il rapporto da quel giorno in avanti qualora il curatore non voglia subentrare: è certo che al terzo non può essere imposto di continuare a trattare ricevendo la moneta percentuale in corrispettivo.
Proseguendo nella rassegna dei beni o diritti che costituiscono la massa attiva del fallimento e di quelli che ne restano fuori, vien fatto di accennare alle disposizioni della legge in materia di rivendicazione fallimentare. Si tratta di una rivendicazione impropria, che non va confusa con la rivendicazione ordinaria disciplinata dal diritto civile. Stabilisce il codice che possono essere rivendicate le rimesse in cambiali o altri titoli di credito non ancora pagati e che sono posseduti in natura dal fallito nel giorno della sentenza dichiarativa del fallimento, quando tali rimesse siano state fatte dal proprietario con semplice mandato di farne la riscossione e di custodirne il valore per suo conto, o quando dallo stesso proprietario siano state destinate a determinati pagamenti. Possono del pari essere rivendicate se sono possedute in natura in tutto o in parte dal fallito, nel giorno della sentenza dichiarativa del fallimento, le merci che gli furono consegnate a titolo di deposito per essere vendute per conto del proprietario. Può essere rivendicato anche il prezzo o la parte di prezzo delle dette merci che non fosse stato ancora pagato in denaro o altrimenti né annotato in conto corrente tra il fallito e il compratore. Le merci spedite al fallito delle quali non sia da lui pagato il prezzo possono essere rivendicate se nel giorno della dichiarazione del fallimento non siano giunte nei suoi magazzini o non siano state ricevute a sua disposizione in magazzini pubblici o in altro luogo di deposito o di custodia ovvero nei magazzini o luoghi di deposito o di custodia del commissionario incaricato di venderle per conto di lui. La rivendicazione non è ammessa se le merci prima del loro arrivo sono state vendute senza frode mediante la girata della fattura, della polizza di carico o della lettera di vettura, se sono all'ordine, o mediante consegna di tali titoli se sono al portatore. Quegli che rivendica deve rimborsare alla massa le spese incontrate. Ancora, il venditore può ritenere le merci vendute che non fossero state consegnate al fallito o che non fossero ancora state spedite a lui o a un terzo per suo conto. E finalmente, in questi ultimi casi, il curatore può, come già sappiamo, con l'assenso della delegazione dei creditori e con l'autorizzazione del giudice delegato, farsi consegnare le merci pagandone al venditore il prezzo convenuto. Sono dunque due le categorie della cosiddetta rivendicazione fallimentare: una riguardante il mandante o committente, l'altra riguardante il venditore.
Sempre a proposito della struttura della massa attiva, conviene dire brevemente della compensazione nel fallimento. Se il commerciante prima del fallimento era debitore verso un terzo e a un tempo creditore verso di lui, tre sono le ipotesi possibili: la prima è che mancando i presupposti della compensazione legale, il commerciante, futuro fallito, e il terzo abbiano proceduto alla compensazione convenzionale, cioè abbiano pattuito l'estinzione delle corrispettive obbligazioni; la seconda è che il giudice abbia pronunciato con la sua sentenza la compensazione (compensazione giudiziale); la terza che siano stati presenti, sempre prima della sentenza dichiarativa del fallimento, i presupposti della compensazione legale (art. 1287 cod. civ.). Ora, non si ammette compensazione, né convenzionale né giudiziale né legale, dopo la sentenza dichiarativa del fallimento. In altri termini, se il terzo era prima del fallimento debitore del fallito, e per rapporti giuridici istituiti successivamente alla sentenza dichiarativa ne diventa creditore, non può pretendere, neanche in presenza dei presupposti della compensazione legale, di vederla verificarsi a proprio vantaggio. Egli deve integralmente la sua prestazione al curatore, e per parte sua non potrà far valere esecutivamente sui beni ormai separati la pretesa creditoria acquistata nei confronti del fallito.
Anche della cosiddetta presunzione muciana conviene far parola in questo paragrafo, perché, in sostanza, essa ha l'effetto di influenzare la struttura della massa attiva del fallimento. Il regime di sospetto che storicamente ha avuto vigore contro la moglie del fallito ha lasciato luogo alle ben note disposizioni del vigente codice, concretantisi in una presunzione di simulazione fraudolenta dei coniugi in previsione dell'eventuale fallimento del marito commerciante. Non sono soggetti alla presunzione di simulazione gl'immobili dotali o quelli che appartenevano alla moglie al tempo del matrimonio, nonché quelli che durante il matrimonio sono pervenuti alla moglie in dipendenza di rapporti giuridici a esso anteriori; finalmente, gl'immobili pervenuti, sia pure durante il matrimonio, alla moglie per donazione o per successione testamentaria o legittima. Del pari sono esenti dall'azione della presunzione muciana gl'immobili da essa e in suo nome acquistati con denaro proveniente dall'alienazione dei beni che le appartenevano al tempo del matrimonio o che le pervennero in uno dei modi indicati or ora, sempreché però nel contratto di acquisto sia espressamente fatta la dichiarazione di impiego e la provenienza del denaro sia accertata da inventario o da altro atto che abbia data certa. Si capisce che nei casi or ora indicati questa prova formale che la legge esige è insurrogabile, cioè non ha equipollenti. O la provenienza dei beni e la dichiarazione di reimpiego risultano come la legge vuole nelle disposizioni or ora riferite, oppure la moglie non può vincere la presunzione. Può ritenersi che il concetto informatore sia sempre l'inasprimento della condizione processuale della moglie: fino a che, cioè, c'è la possibilità di una prova precostituita, si esige questa a esclusione di ogni altra. Ecco perché in tutti gli altri casi fuor di quelli or ora citati, i beni, come dice la legge, si presumono acquistati con denaro del marito e per conto del marito. La moglie però è ammessa a dare in qualunque modo la prova contraria, cioè la prova che o furono comperati con denaro del marito ma non per conto di lui, bensì per conto della moglie; oppure che furono comperati con denaro della moglie. In sostanza, le ipotesi che possono presentarsi si riassumono nelle seguenti: 1. se il denaro è della moglie, siamo fuori del territorio della presunzione muciana, qualunque sia poi l'ulteriore regolamento dell'atto secondo i principî generali. Ci potrà essere un'azione revocatoria per il pagamento della somma in denaro fatto dal marito alla moglie, se ne ricorrano gli estremi; ci potrà essere un mutuo di denaro; una donazione di denaro, sempre da parte del marito a favore della moglie; quindi ci sarà, a seconda dei casi, un'azione di nullità per la donazione in base all'art. 1054 cod. civ., oppure un'azione di rimborso del mutuo, ecc.; 2. se il denaro era del marito ma l'acquisto fu fatto per la moglie, siamo egualmente fuori del territorio della presunzione muciana, perché manca di base l'una delle due presunzioni che devono congiuntamente ricorrere. Infatti l'acquisto non fu fatto per il marito: può essere avvenuta la sottrazione del denaro da parte della moglie a danno del marito; può essere stato fatto un acquisto prima del matrimonio dalla moglie senza pagamento del prezzo; 3. se invece il denaro era del marito e l'acquisto fu fatto per il marito, ecco la duplice presunzione congiuntamente ricorrente. Qui siamo nei termini della presunzione muciana, e bisogna necessariamente ricorrere, come avvertono gli scrittori, all'ipotesi del mandato: bisogna cioè immaginare, perché si possa parlare di denaro del marito che serve a simulatamente comperare un immobile per il marito, il conferimento di un mandato del marito alla moglie per fare quell'acquisto e intestare fittiziamente alla moglie medesima il fondo comperato. Quanto poi alla questione se la presunzione operi nei confronti dei terzi aventi causa dalla moglie, nell'ipotesi che costei abbia alienato i fondi di cui si tratta, se l'atto di alienazione o di ipoteca dell'immobile da parte della moglie avvenne durante il periodo di cessazione dei pagamenti del marito, allora si deve applicare il sistema della revocatoria fallimentare poiché gli atti della moglie si debbono considerare come fatti dal marito; viceversa, se avvennero all'infuori di detto periodo, il terzo ha bene acquistato e resiste vittoriosamente alla pretesa del creditore.
Per la ragione stessa che abbiamo sopra indicata, torna opportuno far cenno qui dell'azione revocatoria fallimentare. Mediante l'organizzazione di questo procedimento, istituito per l'annullamento di atti fatti in frode dei creditori, si tende a stabilire la par condicio creditorum. Sono nulli rispetto alla massa dei creditori tutti gli atti e le alienazioni a titolo gratuito posteriori alla data della cessazione dei pagamenti, nonché i pagamenti di debiti non scaduti fatti dopo la data suddetta, tanto col mezzo di denaro quanto per via di trapasso, vendita, compensazione o altrimenti. La nullità è relativa, cioè opera solo a favore della massa.
Per gli atti, pagamenti e alienazioni, fatti in frode dei creditori, che abbiano avuto luogo prima della cessazione dei pagamenti, provvede l'art. 708 cod. comm., richiamando testualmente la disposizione sull'azione pauliana (art. 1235 cod. civ.). Finalmente, l'art. 709 cod. comm. dispone: "Si presumono fatti in frode dei creditori, e in mancanza della prova contraria sono annullati rispetto alla massa dei creditori, qualora siano avvenuti posteriormente alla data della cessazione dei pagamenti: 1. tutti gli atti, i pagamenti e le alienazioni a titolo oneroso, quando il terzo conoscesse lo stato di cessazione dei pagamenti in cui si trovava il commerciante, benché non ancora dichiarato fallito; 2. gli atti e i contratti commutativi in cui i valori dati o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassino notevolmente ciò che a lui è stato dato o promesso; 3. i pagamenti di debiti scaduti ed esigibili che non siano stati eseguiti con danaro o con effetti di commercio; 4. i pegni, le anticresi e le ipoteche costituite sui beni del debitore. La stessa presunzione ha luogo per gli atti, i pagamenti e le alienazioni , a qualunque titolo avvenuti nei dieci giorni anteriori alla dichiarazione di fallimento, anche in difetto degli estremi sopra enunciati". In base all'art. 710 cod. comm. le iscrizioni ipotecarie assunte in virtù di un titolo riconosciuto valido non sono comprese nelle disposizioni degli articoli precedenti, purché siano anteriori alla sentenza dichiarativa di fallimento. Per "titolo riconosciuto valido", s'intende qui non il titolo di credito ma quel qualsiasi documento o atto che sia idoneo in modo immediato alla costituzione dell'ipoteca (sentenza, convenzione, decreto d'ingiunzione irretrattabile). Una situazione di cose non agevole, perché imponeva di armonizzare il rigore delle prescrizioni cambiarie con le necessità della massa dei creditori nel fallimento, era quella di un pagamento di cambiali avvenuto dopo la cessazione dei pagamenti. Qualora dopo la cessazione dei pagamenti, stabilisce l'art. 711, e prima della sentenza dichiarativa del fallimento, siano state pagate cambiali, l'azione per la restituzione del denaro si può promuovere solo contro l'ultimo obbligato in via di regresso, il quale avesse cognizione della cessazione dei pagamenti al tempo in cui venne tratta o girata la cambiale.
Massa passiva. - Quali sono i debiti che concorrono nella ripartizione del ricavato dalla vendita dei beni fallimentari? Ci sono debiti concorsuali e debiti della massa. L'argomento dei debiti concorsuali comprende la trattazione dei debiti chirografarî, dei debiti con pegno, dei debiti con privilegio, e finalmente il regolamento della garanzia della dote e dei crediti della moglie del fallito. Quanto ai crediti chirografarî, tutti indistintamente vanno a costituire la massa passiva del concorso.
Per quanto riguarda crediti garantiti da pegno, la legge conferisce al curatore sia il diritto di riscattare il pegno sia quello di farne ordinare la vendita (art. 772 cod. comm.). Il creditore ha diritto di fare opposizione alla vendita del pegno a cui il curatore voglia procedere, ma deve allora rinunciare al diritto di insinuarsi per la quota di credito eventualmente insoluta dopo la vendita del pegno. La vendita deve essere fatta ai pubblici incanti. Per ciò che si riferisce ai crediti privilegiati, è da notare che il legislatore ha introdotto (art. 773 cod. comm.) qualche privilegio non contemplato nella legge comune e qualche modificazione ad alcuno dei privilegi ivi contemplati. E invero, nel citato testo dell'art. 773 è stabilito che il salario dovuto agli operai impiegati direttamente dal fallito durante il mese che ha preceduto la dichiarazione del fallimento è ammesso fra i crediti privilegiati nello stesso grado del privilegio stabilito nell'articolo 1956 cod. civ. per i salarî dovuti alle persone di servizio. Il salario dovuto agl'institori e ai commessi per i sei mesi che hanno preceduto la dichiarazione di fallimento è ammesso allo stesso grado. In secondo luogo, il privilegio del locatore indicato nel n. 3 dell'art. 1958 cod. civ. non si estende alle merci uscite dai magazzini o dai luoghi di esercizio commerciale o industriale del conduttore, allorché su di esse i terzi abbiano acquistato diritto, salvo il caso di sottrazione fraudolenta. Il privilegio ha luogo anche per il compenso dovuto al locatore secondo le disposizioni dell'art. 703. In terzo luogo, il credito per il prezzo non pagato delle macchine di importante valore impiegate negli esercizî di industria manifatturiera o agricola è privilegiato nel grado indicato nel n. 6 dell'art. 1958 cod. civ. sulle macchine vendute e consegnate al fallito nei tre anni precedenti alla dichiarazione di fallimento, ancorché divenute immobili per destinazione. Questo privilegio non ha effetto se il venditore non abbia entro tre mesi dalla consegna delle macchine al compratore nel regno, fatto trascrivere il documento da cui risulti la vendita e il credito in un registro speciale e pubblico che deve essere tenuto nella cancelleria del tribunale di commercio nella cui giurisdizione le macchine sono collocate.
Abbiamo accennato al particolare regime dei debiti verso la moglie del fallito e della garanzia della dote. Quanto al primo punto, è stabilito nella legge (art. 786) che se il marito era commerciante al tempo della celebrazione del matrimonio, o se non avendo allora altra determinata professione è divenuto commerciante nell'anno successivo, l'ipoteca legale per la dote della moglie non si estende in nessun caso ai beni pervenuti al marito durante il matrimonio per altro titolo che quello di successione o donazione. Nei casi suddetti la moglie non può esercitare nel fallimento veruna azione per i vantaggi derivanti a suo favore dal contratto di matrimonio, e i creditori non possono valersi dei vantaggi dallo stesso contratto derivanti a favore del marito. Quanto al secondo punto, è prescritto nell'art. 787 cod. comm. che se la moglie ha verso il marito crediti dipendenti da contratti a titolo oneroso ovvero ha pagato per lui debiti, i crediti si presumono costituiti e i debiti pagati con denaro del marito e la moglie non può proporre veruna azione nel fallimento, salva a essa la prova contraria secondo le disposizioni dell'art. 782.
Debiti della massa. - Casi di obbligazioni passive del fallimento abbiamo già conosciuto discorrendo dei contratti bilaterali in corso di esecuzione, nella cui esecuzione appunto il curatore delibera di succedere al Fallito. Stabilisce pei debiti del curatore l'art. 795 cod. comm.: "i debiti derivanti dalle operazioni del curatore sono pagati con preferenza sugli anteriori, ma se tali operazioni inducessero obbligazioni eccedenti l'attivo del fallimento, i soli creditori che le hanno autorizzate sono tenuti personalmente oltre la loro parte nell'attivo, entro i limiti però dell'autorizzazione. Essi contribuiscono in proporzione dei rispettivi crediti".
Atti del processo di fallimento. - Si possono distinguere due grandi categorie di atti processuali: l'una ha per oggetto così l'accertamento del passivo come l'accertamento dell'attivo; l'altra comprende gli atti propriamente di esecuzione.
Accertamento del passivo. - Nessuno è ammesso a concorrere sul ricavato dell'esecuzione forzata se non abbia fatto riconoscere la sua qualità di creditore attraverso quel particolare procedimento che si chiama di verificazione dei crediti. Tutti indistintamente i crediti devono essere riconosciuti nel modo indicato dalla legge (cfr. articoli 758-760 cod. comm. e 11-13 legge 10 luglio 1930). L'intero procedimento di verificazione dei crediti, che per assai tempo la dottrina ha ritenuto che rivestisse carattere amministrativo nella prima fase, carattere giurisdizionale nella seconda, ha invece schietta natura giurisdizionale dall'inizio alla fine.
Accertamento dell'attivo. - Qui si tratta del modo di constatare quali sono i beni e diritti costituenti la massa attiva destinata alla liquidazione fallimentare. La prima fonte per l'accertamento dell'attivo fallimentare è la dichiarazione dello stesso fallito, e l'art. 686 cod. comm. ingiunge per l'appunto al commerciante cessante il deposito del bilancio certificato vero, datato e sottoscritto, nonché dei suoi libri di commercio nello stato in cui si trovano. Ma, il documento che in modo più immediato e per sua funzione specifica è destinato a contenere la descrizione qualitativa e quantitativa nonché estimativa dei beni, è l'inventario. All'inventario procede il curatore, presenti o citati il fallito e la delegazione di sorveglianza ove sia stata nominata. È di immediato interesse per questa fase del procedimento, diretta all'accertamento dell'attivo, l'esperimento del giudizio di retrodatazione, cioè di fissazione della data di cessazione dei pagamenti in un momento anteriore alla dichiarazione del fallimento: infatti la fissazione di codesta data serve essenzialmente per esperire l'azione revocatoria fallimentare contro gli atti che in periodo di cessazione il commerciante abbia posto in essere in danno dei suoi creditori. La retrodatazione può avvenire (art. 9 della legge 10 luglio 1930) per il termine massimo di un biennio. Contro la relativa sentenza si può fare opposizione davanti al tribunale che l'ha pronunciata entro otto giorni dalla chiusura del processo verbale di verificazione dei crediti.
Liquidazione dell'attivo. - a) Apprensione e conservazione dei beni. Il fallito non perde soltanto la disponibilità giuridica dei beni in virtù della sentenza dichiarativa: egli perde anche il possesso di essi, indipendentemente dall'apposizione dei sigilli. All'apposizione dei sigilli può, se voglia, procedere nella circoscrizione del tribunale il giudice delegato: altrimenti procede il pretore, competente poi a farlo per i beni giacenti in altra giurisdizione da quella del tribunale fallimentare. Alla formalità dell'apposizione dei sigilli sono dedicati gli articoli 734 a 739 del codice di commercio.
b) Conversione in denaro. - Questa delicata e importante attività degli organi del fallimento ha le sue regole particolari in relazione al suo triplice oggetto: crediti, cose mobili, cose immobili. Per quanto si riferisce all'esazione dei crediti, la legge vuole che il curatore debba procedervi con la sorveglianza della delegazione e sotto la direzione del giudice delegato. Naturalmente, l'esazione dei crediti non va di pari passo con la vendita dei mobili, perché essi si esigono a mano a mano che diventano esigibili e per questo appunto possono essere esatti anche prima del termine iniziale della liquidazione (articoli 748, 793 cod. comm.).
La vendita delle cose mobili avviene da parte del curatore previa autorizzazione del giudice delegato che sentirà la delegazione dei creditori. È al giudice che spetta di determinare il tempo della vendita e prescrivere se questa debba essere fatta a offerte private o agl'incanti col ministero di mediatori e con gli ufficiali pubblici a ciò destinati. L'ordinanza è sempre soggetta a richiamo. Se si verifica la convenienza, a un dato momento della liquidazione fallimentare, che i beni mobili non ancora alienati nei modi dell'art. 798 e i crediti non esatti siano venduti in blocco, a questa alienazione in massa può farsi luogo mediante provvedimento del giudice delegato, con l'approvazione però della delegazione dei creditori e l'omologazione del tribunale.
Per ciò che riflette la vendita degl'immobili, dalla data della sentenza dichiarativa nessun creditore può procedere all'espropriazione forzata dei medesimi, ancorché avesse privilegio o ipoteca. Soltanto il curatore può promuovere l'espropriazione forzata degl'immobili, e la promuove dirigendo la relativa istanza al giudice delegato; questa autorizzazione può essere chiesta solo dopo il decorso dei termini di cui all'art.793. La vendita può seguire, secondo la deliberazione del giudice delegato, o con le formalità stabilite per la vendita dei beni dei minori, oppure a trattative private, purché però (in questo secondo caso) la vendita apparisca di manifesto vantaggio, e siano consenzienti la delegazione dei creditori e i creditori ipotecarî.
Liquidazione del passivo. - Avvenuta la vendita delle cose mobili e degli immobili, esatti i crediti, convertito insomma in denaro quanto si trovava di beni patrimoniali nell'attivo del fallito, incombe al curatore di procedere alla ripartizione del ricavato fra i creditori. È questa operazione che si chiama liquidazione del passivo. Dalle somme di denaro appartenenti al fallimento vanno innanzi tutto dedotte le spese di giustizia e di amministrazione, i soccorsi accordati al fallito e alla sua famiglia, le somme dovute ai creditori muniti di privilegio. Dopo di che, si procede alla ripartizione fra i creditori chirografarî di quello che rimane, previa la formazione, a diligenza del curatore, di uno stato di ripartizione che è reso esecutivo con ordinanza del giudice delegato. Il curatore poi emette dei mandati intestati alle persone dei creditori e la cassa, dove sono depositati i danari del fallimento, dietro presentazione di questo mandato, paga.
Chiusura del fallimento. - Per l'art. 817 cod. comm. il fallimento si chiude quando non c'è attivo (si parla allora per l'appunto di chiusura per mancanza di attivo); il fallimento si chiude altresì per avvenuta estinzione dei debiti, cioè perché non c'è più passivo; un terzo modo di chiusura si attua dove mancano le insinuazioni dei creditori al passivo; finalmente un quarto modo di chiusura è quello che si denomina "concordato".
Il concordato. - Il concordato di fallimento è o amichevole o giudiziale. Il concordato amichevole è quello che in ogni stadio della procedura di fallimento può aver luogo tra il fallito e i suoi creditori, quando tutti, nessuno escluso, acconsentono. Il concordato fallimentare giudiziale o di maggioranza invece è quello che può essere stipulato previa una deliberazione dell'assemblea dei creditori, con le maggioranze volute dalla legge, cioè dei tre quarti dell'ammontare dei crediti e la metà più uno dei creditori (l'art. 833 cod. comm. stabilisce per l'appunto che "il concordato non può farsi, che col concorso della maggioranza di tutti i creditori i crediti dei quali furono verificati o ammessi provvisoriamente, purché gli assenzienti rappresentino i tre quarti della totalità dei crediti stessi...").
Il concordato stipulato fra il debitore e i suoi creditori è soggetto però alla omologazione del tribunale e soltanto dopo di questa il concordato è obbligatorio per tutti i creditori, portati o non portati in bilancio, siano o no verificati i loro crediti, in sostanza a carico di tutti i non intervenuti o i dissenzienti.
Nel giudizio di omologazione deve intervenire il Pubblico ministero (art. 16 della legge 10 luglio 1930). Il tribunale può, nella stessa sentenza, e persuadendosi che il fallito è meritevole di speciale riguardo, concedergli i benefici di legge (art. 839 cod. comm.): è da avvertire però che in base all'art. 16 della legge 10 luglio 1930 in nessun caso possono essere concessi i benefici di legge se nel concordato non sia stabilito il pagamento di una percentuale dei crediti superiore a quella che presumibilmente si conseguirebbe in via di ripartizione mediante la liquidazione fallimentare e in ogni caso non inferiore, per i crediti non privilegiati né garantiti da ipoteca o da pegno, al venticinque per cento del capitale, pagabile entro sei mesi dalla sentenza di omologazione del concordato, a meno che non sia garantito nel concordato il pagamento degl'interessi legali da corrispondersi oltre i sei mesi.
Contro il concordato si ammette un'azione di nullità, quando si scopra dopo l'omologazione che sia stato dolosamente esagerato il passivo o sia stata dissimulata una parte rilevante dell'attivo. Presupposti affatti diversi naturalmente ha la risoluzione del concordato, contemplata dall'art. 18 della legge 10 luglio 1930: se le garanzie promesse non vengono costituite in conformità del concordato e della sentenza di omologazione, o se il fallito non adempie regolarmente gli obblighî del concordato, il tribunale, su ricorso di uno o più creditori o del cessato curatore o anche di ufficio, ordina la comparizione del fallito e dei fideiussori se ve ne sono e con decisione emessa in camera di consiglio e non soggetta a gravame pronuncia la risoluzione del concordato.
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