Vedi False comunicazioni sociali dell'anno: 2016 - 2017
False comunicazioni sociali
La l. 27.5.2015, n. 69 ha riscritto le fattispecie di false comunicazioni sociali previste dagli artt. 2621 e 2622 c.c., con una netta inversione di tendenza rispetto al precedente intervento riformatore del 2002. Nonostante talune perplessità sotto il profilo redazionale – con particolare riguardo all’espunzione della clausola “ancorché oggetto di valutazioni” (riferita a “fatti materiali” nella previgente formulazione) –, una lettura in chiave sistematica delle nuove disposizioni consente di evitare il rischio di ineffettività delle stesse nelle ipotesi di falsità concernenti dati bilancistici di tipo valutativo.
La l. n. 69/2015 ha integralmente riscritto le fattispecie di false comunicazioni sociali previste ora dagli artt. 2621, 2621 bis e 2622 c.c., con una netta inversione di tendenza rispetto alla riforma del 2002, che aveva radicalmente mutato il carattere e il contenuto della previgente disposizione incriminatrice ex art. 2621 c.c. L’esigenza di intervenire – pur alla colpevole distanza di tredici anni – va colta nella necessità di rimuovere gli effetti di «una controriforma [quella del 2002] che scalza quella che sul piano della teoria e della prassi era la pietra d’angolo del diritto penale societario, al punto da mettere in forse la stabilità dell’intero edificio»1, sebbene difetti (anche gravi) di fattura tecnica e sistematica rischino di frustrare la portata positiva della riforma del 2015.
Tra le note apprezzabili della riforma sta in principio la restituzione della fattispecie al novero dei reati di pericolo (concreto), che fa tramontare la torsione della stessa a reato di danno, quale era nella figura dell’art. 2622 c.c. e svanire quell’ombra di incriminazione (contravvenzionale) dell’art. 2621 c.c., che tale estremo pur non contemplava, ma che riduceva – anche per l’esiguità della pena – il reato a bagatella ineffettuale e ineffettiva2.
Rimossa anche l’apparecchiatura delle soglie quantitative di rilevanza penale del fatto, alla quale fa da contrappunto il risorgere del cd. falso qualitativo, non meno insidioso rispetto al bene oggetto di tutela di quello quantitativo, fermo restando che il requisito essenziale della necessaria rilevanza della falsa comunicazione proscritta è assicurato – fra l’altro – dall’estremo che ne esige l’idoneità ingannatoria3.
Ai due profili di novità ora accennati (sarebbe meglio dire: di doverosa – sebbene tardiva – correzione e di reintegrata legalità costituzionale) fa da sfondo la ripristinata presa d’atto che la falsa comunicazione sociale integra «l’aggressione di un fascio d’interessi corposi, ancorché diffusi»4 e che ad essere oggetto di tutela – indispensabile proprio nella prospettiva di un’economia capitalistica votata al mercato e all’impresa5 – è «il bene giuridico dell’informazione societaria, nei suoi parametri di veridicità e compiutezza, radicato in ultima analisi nel “risparmio” dell’art. 47 Cost.»6.
Il trattamento punitivo – differenziato secondo un criterio plausibilmente razionale – assume ora livelli coerenti con le esigenze di tutela (anche se alla determinazione del massimo edittale per la fattispecie più grave non sembra estranea la considerazione della disciplina della prescrizione, sicuramente eccentrica al cospetto delle valutazioni che dovrebbero presiedere in linea teorica alla dosimetria della pena).
La procedibilità a querela, che nella previgente versione segnava in modo vistoso la figura dell’art. 2622 c.c., connotandola pesantemente sul versante dell’effettività tanto sanzionatoria quanto generalpreventiva7, è stata limitata alle sole ipotesi delle comunicazioni sociali di società “non fallibili” ex art. 1, co. 2, R.d. 16.3.1942, n. 267. Se le perplessità su tale regime di procedibilità non sono destinate a svanire, rimane la circostanza – indubitabilmente positiva – che esso è ora circoscritto a situazioni del tutto marginali, rappresentando in precedenza invece la regola (con l’eccezione delle ipotesi concernenti le società quotate).
Da ascrivere ancora fra le componenti senza dubbio “migliorative” l’eliminazione della clausola che denotava l’elemento psicologico nel senso dell’intenzionalità8, mentre l’inserzione dell’avverbio “consapevolmente” pare destinata a imporre un vaglio rigoroso delle situazioni riconducibili al dolo eventuale9.
L’attuale assetto normativo si sostanzia in tre distinte fattispecie d’incriminazione, le prime due rispettivamente descritte dagli artt. 2621 e 2622 c.c., che si differenziano per la tipologia delle società (non quotate, ovvero quotate e assimilate) dalle quali promanano le comunicazioni sociali oggetto di tutela. Alla maggiore offensività derivante dalla più ampia diffusività del pericolo coessenziale alle comunicazioni di società quotate e assimilate corrisponde un più severo trattamento sanzionatorio (reclusione da tre a otto anni) rispetto a quello previsto per l’ipotesi concernente le non quotate (reclusione da uno a cinque anni), mentre la descrizione della condotta punibile è sostanzialmente identica nelle due figure d’incriminazione.
La terza figura incriminatrice è dettata dall’art. 2621 bis c.c.: contemplando anch’essa – in forza di un rinvio esplicito all’art. 2621 c.c. – la medesima condotta tipica, l’ancor più mite reazione punitiva (da sei mesi a tre anni) trova la sua ragion d’essere nella “lieve entità del fatto” affidata all’apprezzamento del giudice (ipotesi del primo comma) ovvero (ed è l’ipotesi del secondo comma) in una presunzione di scarsa offensività normativamente collegata alle ridotte dimensioni della società, parametro dimensionale che la disposizione determina tassativamente richiamando i limiti al di sotto dei quali l’impresa non può essere dichiarata fallita (art. 1, co. 2, R.d. n. 267/1942)10. Limitatamente alla previsione del ricordato secondo comma dell’art. 2621 bis c.c. il legislatore ha condizionato la procedibilità alla presentazione della querela (da parte – alternativamente – della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale), quasi a segnare per tal modo la minima fra le idoneità offensive che caratterizzano le differenti figure del reato di false comunicazioni sociali.
Rimane da segnalare che le incriminazioni di nuovo conio mantengono inalterata la struttura di reati propri, nei quali la soggettività qualificata dell’agente è identificata nelle figure “classiche” di coloro che, rivestendo ruoli peculiari nella compagine sociale, hanno con il bene oggetto di tutela una specifica posizione di garanzia: deve essere tuttavia segnalato che il legislatore ha ripetuto l’elencazione previgente, senza avvedersi che la presenza dei «dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari» nel catalogo dell’art. 2621 c.c. (e, per richiamo, anche dell’art. 2621 bis c.c.) finisce con l’essere eccentrica, posto che tale figura è prevista soltanto per le società quotate. Per altro verso l’intervento riformatore avrebbe potuto essere l’occasione per adeguare l’elencazione dei soggetti, affiancando a quelle tradizionali anche le denominazioni soggettive proprie degli altri sistemi di governance normativamente previsti.
La ricognizione del nuovo assetto normativo non potrebbe dirsi completa senza la considerazione dell’art. 2621 ter c.c., che contempla una causa di non punibilità: più esattamente, la disposizione in discorso detta il criterio per l’applicazione della causa di non punibilità prevista in via generale dall’art. 131 bis c.p. ai reati di cui agli artt. 2621 e 2621 bis c.c. (essendone escluso quello previsto dall’art. 2622 c.c. perché il massimo edittale supera il limite stabilito dal citato art. 131 bis c.p.). Rispetto ai parametri fissati dalla norma del codice penale, l’apprezzamento della «particolare tenuità del fatto» dovrà tener conto «in modo prevalente» dell’estremo della entità del danno eventualmente cagionato alla società, ai soci o ai creditori (opzione per vero non particolarmente perspicua, posta la natura di reati di pericolo delle nuove fattispecie11).
Il legislatore si è occupato in via esclusiva dello specifico ambito delle comunicazioni sociali: l’intervento si presenta come una radicale riscrittura delle disposizioni, che, pur recuperando stilemi tradizionali (per lo più risalenti alla versione dell’art. 2621 c.c. in vigore anteriormente alla controriforma del 2002), presenta contenuti fortemente innovativi, ai quali si è fatto cenno nel precedente § 1.
Riguardate le incriminazioni attuali e quelle immediatamente previgenti da questa prospettiva, non v’è dubbio che le strutture normative si presentino affatto diverse: a tacer d’altro le vecchie fattispecie contemplavano (con l’eccezione dell’art. 2621 c.c., ipotesi contravvenzionale, ridotta a insignificante bagatella) reati con evento di danno, mentre quelle di nuovo conio costituiscono reati di pericolo concreto, così come la sparizione delle soglie quantitative permette la configurabilità del cd. falso qualitativo.
In quest’ottica non può certo parlarsi di consequenzialità nelle scelte del legislatore, evidente essendo la frattura netta in alcuni degli snodi essenziali della disciplina, frattura manifesta non soltanto sul piano formale (si è in presenza di una riscrittura delle disposizioni e non di un intervento che apporta modifiche o soppressioni al testo della disposizione previgente), ma anche sul piano dei contenuti (come si è illustrato nel precedente paragrafo e come ulteriormente si vedrà).
Sul versante applicativo tale soluzione di continuità non è tuttavia destinata a creare problemi: il nucleo profondo delle fattispecie si condensa infatti intorno alla comunicazione non decettiva (inidonea, cioè, a trarre in inganno il destinatario) in ordine alle condizioni economiche, patrimoniali e finanziarie della società. Questo era – in sintesi estrema – il cuore di tenebra delle false comunicazioni sociali ante controriforma del 2002, tale è rimasto anche nei circa tredici anni di vigenza della ricordata modifica normativa (seppur sfigurato dall’estremo del danno e snervato dalla previsione delle soglie quantitative di rilevanza), tale è nei nuovi artt. 2621, 2621 bis e 2622 c.c.
A ben vedere, e al di là di ogni inessenziale (almeno su questo generalissimo piano) affinamento, la tutela – doverosa in quanto irrinunciabile – dell’informazione societaria non può non procedere dalla comminatoria penale per condotte di comunicazione ingannatoria idonee a fornire una rappresentazione alterata della situazione della società. Questo essendo il tratto portante della tutela che deve essere necessariamente apprestata, ne segue che il veicolo della comunicazione decettiva è per implicazione logica rappresentato dai «bilanci», dalle «relazioni» o dalle «altre comunicazioni sociali», secondo una terminologia che diviene tradizionale in quanto necessitata.
Poiché questo è “lo stato delle cose”, non sembrano porsi soverchi problemi sul piano della successione delle leggi nel tempo, posto che a fatti pregressi continuerà ad applicarsi la previgente (più favorevole) disciplina, non essendo in questa prospettiva dubitabile la continuità normativa tra una condotta tipica, perché produttiva di un danno, e la medesima condotta quando quest’ultima integri la fattispecie in quanto la sua concreta pericolosità possa essere foriera (anche) di un danno del genere di quello costitutivo dell’elemento tipico della previgente incriminazione12. E d’altronde una fattispecie incardinata sul danno derivante dalla condotta tipica sconta necessariamente che, prima del verificarsi del danno, la condotta stessa abbia dato luogo al pericolo suggestivo dell’evento avverso (il danno) poi effettivamente occorso.
Conseguentemente alla natura radicalmente innovativa del nuovo assetto normativo, meritano d’essere segnalati gli snodi problematici in questa prospettiva maggiormente rilevanti.
3.1 Fatti materiali e valutazioni: un dubbio inconsistente
La perplessità segnalata in dottrina13 in ordine al rilievo della variazione apportata nella fase terminale del processo formativo delle nuove fattispecie (l’originariamente previsto termine “informazioni” è stato maldestramente sostituito con il sintagma “fatti materiali”), ripresa dalla prima pronunzia in materia della Corte di cassazione14 con toni assertivi che vanno ben oltre la perplessità della dottrina cui trasparentemente si richiama, impone un pur rapido esame della questione.
Secondo tale approccio, vivacemente contrastato da pressoché tutti gli autori che per primi si sono occupati della questione15, la formula “fatti materiali” precluderebbe la riconduzione al modello legale delle nuove fattispecie incriminatrici delle “valutazioni” pur comprese nelle voci del bilancio secondo l’elencazione del codice civile.
A sorreggere tale assunto – sostanzialmente abrogativo delle disposizioni di nuovo conio – sarebbero argomenti di carattere testuale (il sintagma “fatti materiali” alluderebbe necessariamente a una valenza oggettiva, mal compatibile con l’espressione di un giudizio proprio della valutazione), cui s’accompagnano motivi di carattere storicosistematico (rispetto alla precedente clausola normativa, la soppressione dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”, apposto in precedenza a “fatti materiali”, così come il mantenimento dell’inciso nell’art. 2638 c.c.), assumendosi infine che tale conclusione – pur demolitiva della tutela penale dell’informazione societaria e contrastante con il senso complessivo dell’intervento di riforma – sarebbe imposta dal principio di legalità, che esige il rispetto del limite esegetico della lettera della legge16.
A ben vedere, nessuno degli argomenti pare convincente. Anche senza evocare gli approdi della linguistica, non pare bastevole osservare che “fatti materiali” e “informazioni”, in quanto termini diversi, debbono necessariamente designare insiemi diversi: la diversità dell’insieme designato dipende invero dal contesto nel quale i termini vengono adoperati e, per contrappunto, un medesimo insieme può essere designato da termini diversi semanticamente equivalenti in un determinato contesto. Sicché il significato può essere il medesimo a fronte di significati differenti che, appunto in un determinato contesto, possono assumere valore sinonimico.
Né può sfuggire che una sicura tradizione interpretativa, accreditata dalla più autorevole dottrina in materia e da una consolidata giurisprudenza, aveva inteso la parola “fatti” (che compariva nell’incriminazione preesistente alla riforma del 2002) come espressiva anche di componenti valutative17, dalla quale erano escluse soltanto opinioni di natura soggettiva, pronostici, e previsioni e non certo gli elementi sui quali opinioni, prognosi e previsioni vengono elaborati e dai quali traggono attendibilità18.
La specificazione rappresentata dall’aggettivo “materiali” non vale certo ad attribuire al sintagma una valenza capace di limitarne (o, comunque di variarne) la portata: l’aggettivo in discorso non apporta un contributo semantico, non avendo senso nel contesto (il linguaggio giuridico) parlare di “fatti spirituali”. Sicché il significato del sintagma rimane il medesimo, presente o no l’aggettivo “materiali”19.
D’altronde, l’inserzione dell’aggettivo “materiali” (avvenuta con la riforma del 2002) si presenta come la conseguenza di una maldestra traduzione della formula (ricorrente nella esperienza giurisprudenziale anglosassone cui il legislatore del 2002 dichiarava d’essersi ispirato) “material fact”: ma tale aggettivo vale in quel contesto non come “reale, effettivo, tangibile”, bensì come “significativo” o “rilevante” e funge da criterio selettivo rispetto a “marginale, non importante, ininfluente, di scarso valore”.
Dalla mancata riproduzione dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni” la tesi fatta propria dalla citata pronunzia della Corte di cassazione sembra trarre argomento in chiave storicosistematica. La terminologia adoperata dalla sentenza per descrivere il fenomeno svela la forzatura ermeneutica: nel dictum dei giudici di legittimità si parla di “amputazione” dell’inciso20, quasi che le nuove fattispecie incriminatrici fossero il frutto di interventi diretti sul testo preesistente, ciò che manifestamente non è, come si è in precedenza illustrato. Più semplicemente, il legislatore del 2015 ha ritenuto giustamente inutile – in una radicale riscrittura della norma – riprodurre una clausola (quella introdotta dall’ambiguo “ancorché”), che una ben autorevole dottrina aveva immediatamente bollato come una inutile superfetazione21. Sicché l’esercizio ermeneutico non convince, posto che si fonda su una premessa che non trova riscontro: che la clausola normativa non riprodotta avesse – quand’era vigente – il valore semantico che ora si pretende di attribuirle.
Né a dar corpo alla tesi qui criticata vale il richiamo all’altra “amputazione” cui pure rimanda la menzionata decisione: la circostanza che non compaia più il riferimento alle “valutazioni estimative”22 consegue alla eliminazione delle soglie di rilevanza quantitativa, cui accedevano le previsioni contenenti il riferimento in discorso, non già a una opzione tesa a escludere le valutazioni dal fuoco delle incriminazioni di nuovo conio (e, appena il caso di notarlo, proprio la eliminazione delle soglie quantitative e delle disposizioni ad esse funzionali segna uno dei momenti di maggiore frattura rispetto all’assetto previgente, mostrando la scarsa consistenza di un argomentare necessariamente appoggiato su una lettura delle nuove disposizioni come il frutto di interventi di “taglia e incolla” sui testi normativi preesistenti).
Né infine pare conducente il richiamo all’art. 2638 c.c.: se l’argomento si riducesse (come sembrano ritenere la più volte menzionata decisione della Corte regolatrice e gli autori cui essa si richiama) al canone dell’“ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, a confutazione basterebbe osservare che si è al cospetto di un intervento normativo riguardante esclusivamente le false comunicazioni sociali, posto che l’intero iter legislativo ha riguardato esclusivamente detta fattispecie e non altre materie.
Oltre tale (pur rilevante) profilo, sta in principio la notazione che il delitto dell’art. 2638 c.c. ha obiettività giuridica ben diversa da quella delle false comunicazioni sociali e, seppur apparentato dalla componente comunicazionale, se ne distingue sul versante strutturale non soltanto per la differente tipologia dei destinatari (singole autorità di vigilanza versus le indifferenziate categorie dei soci e dei creditori), ma anche per il ben più ampio spettro delle informazioni oggetto di comunicazione e, soprattutto, per l’assenza (nella disposizione dell’art. 2638 c.c.) dell’estremo della idoneità a indurre in errore, che svolge una funzione essenziale nell’economia delle false comunicazioni sociali, mentre l’oggetto del dolo specifico del delitto di ostacolo alle funzioni di vigilanza suggerisce chiaramente che non è richiesta affatto una attitudine decettiva, bastevole essendo il perseguimento di un mero intralcio.
Sembra da ultimo privare di qualunque affidabilità un’esegesi limitata alla grammatica delle parole, avulse dal contesto, il rilievo non confutabile che il legislatore del 2015 ha utilizzato il sintagma “fatti materiali rilevanti” (la cui comunicazione è imposta dalla legge) come oggetto della condotta in forma omissiva tanto nell’art. 2621 c.c. quanto nell’art. 2622 c.c., mentre nella tipizzazione della condotta attiva l’art. 2621 c.c. contempla il riferimento a “fatti materiali” (non rispondenti al vero) non ulteriormente qualificati, laddove l’art. 2622 c.c. riproduce la formula nella sua interezza “fatti materiali rilevanti” (non rispondenti al vero).
La maldestra sintassi legislativa, che impedisce di individuare criteri affidabili per distinguere il valore semantico delle clausole adoperate, suggerisce ulteriormente all’interprete di affidare le mosse ermeneutiche alla lettura sistematica e all’apprezzamento del dato testuale nel contesto (necessario) del linguaggio convenzionale nel quale si colloca.
Sul versante sistematico non può sfuggire che la formula “esposizione di fatti” – soprattutto se colta nel contesto (il referente è il bilancio di esercizio, che si compone in modo pressoché esclusivo di valutazioni) – rimanda necessariamente alla rappresentazione in un linguaggio convenzionale dell’informazione (qualunque sia l’oggetto della stessa), impensabile essendo attribuire al sintagma la sua valenza asfitticamente letterale (esporre un fatto, in termini letterali, vuol dire mostrare il fatto medesimo nella sua oggettiva, fisica materialità a un osservatore). Con la conseguenza che la locuzione “fatti materiali” (proscritti se falsamente esposti ovvero se antidoverosamente omessi), in quanto collocati nel contesto delle comunicazioni sociali previste per legge, rimanda a un campo semantico nel quale sono comprese le nozioni di informazioni e di valutazioni.
Né dubbi possono sorgere sulla adeguata tipizzazione della condotta: la presenza della clausola che esige l’idoneità ingannatoria (che riconduce lo schema legale al modulo della truffa in incertam personam, qui modellata come figura di reato di pericolo concreto) assicura alle fattispecie di nuovo conio una bastevole caratterizzazione della condotta sul versante della necessaria offensività.
Per altro verso, non può non rammentarsi che l’interpretazione fatta propria dalla citata sentenza finisce con determinare l’abrogazione della fattispecie, conseguenza che già autorevole dottrina23 aveva correttamente giudicato accettabile soltanto se il dato normativo non permette letture diverse (che tuttavia devono essere compatibili con il superiore canone segnato dal principio di legalità).
Che il criterio ermeneutico per il quale la formula “fatti materiali” precluderebbe la sussunzione nel tipo punibile delle valutazioni sia destinato a dar luogo a esiti paradossali, nei quali a venire in rilievo è la forma linguistica nella quale viene espressa la condotta, costituisce segno evidente che il “fatto” esposto nel bilancio è necessariamente una valutazione (cioè traduzione in un linguaggio convenzionale di un’informazione qualunque sia l’oggetto della stessa).
Come è stato acutamente osservato, ciò emerge dal confronto fra i capi di imputazione per i quali – secondo la più volte menzionata sentenza – non vi è stata abolitio criminis (capo 1 n. 1 lett. a) con quelli per i quali l’abolitio vi sarebbe stata (capo 1 n. 1 lett. d)– n. 2 e 3 e capo 19). Se si va oltre la diversa formulazione linguistica adoperata per esporre le condotte nelle diverse imputazioni e si osservano le vicende sottostanti, è agevole avvedersi che i comportamenti contestati nei vari capi hanno la medesima matrice: in un caso esposizione di crediti inesistenti, nell’altro di un capitale inesistente (ovvero omessa esposizione di un credito verso i soci per il mancato versamento del capitale).
Nella prima ipotesi la condotta appare relativa a un fatto materiale perché viene descritta come appostazione di un credito inesistente, appostazione che – come peraltro spiega la sentenza stessa – è stata possibile attraverso la simulazione di contratti. Nel secondo caso si verterebbe invece – sempre stando alla sentenza – in una valutazione, in quanto la condotta è descritta come sovrastima di beni conferiti (che comporterebbe una simulazione relativa, con conseguente falso versamento del capitale)24. Ma in entrambi i casi le condotte, pur diversamente narrate, consistono nella simulazione di transazioni per far apparire esistente un credito che non lo è.
Come ognun vede, ritenere che nel contesto del bilancio di esercizio e delle altre comunicazioni sociali “fatto materiale” rimandi esclusivamente a un referente oggettivo della realtà fenomenica (inteso quasi nella sua fisicità) conduce a contraddizioni insanabili, nelle quali la tipicità della condotta evapora, venendo a dipendere esclusivamente dalle modalità espositive (questa volta dell’interprete) nella redazione del capo d’imputazione prima e della sentenza poi. Torna circolarmente l’argomento più volte segnalato: all’interno delle comunicazioni sociali, consistenti in valutazioni, pretendere di escludere dal campo semantico della locuzione “fatti materiali” le valutazioni non costituisce affatto una doverosa opzione a tutela del principio di legalità, ma una scelta interpretativa non condivisibile, perché limita in modo inammissibile sul versante sistematico il contenuto semantico del sintagma di riferimento.
Il canone ermeneutico più affidabile è dunque ancora quello che individua la «falsità penalmente rilevante solo nei casi in cui le informazioni (offerte dal bilancio) sono il frutto di una valutazione che falsifica o l’entità quantitativa del dato di riferimento…oppure (o anche, poiché sono possibilità non alternative) lo valuta impiegando un criterio difforme da quello dichiarato e oggi trova normalmente riscontro nella nota integrativa, in contrappunto alle disposizioni di legge»25. L’aggettivo «materiali» non arricchisce la fattispecie sul piano semantico, limitandosi a escludere le sole opinioni di natura soggettiva, le previsioni, i pronostici (quelle operazioni che nella lettura aziendalistica vengono denominate stime di bilancio congetturali).
1 Pedrazzi, C., In memoria del “falso in bilancio”, in Riv. soc., 2001, 1371, adesso in Id., Diritto penale, III, Scritti di diritto penale dell’economia, Milano, 2003, 844 (da qui le citazioni).
2 In questo senso v. Pedrazzi, C., In memoria, cit., 844.
3 Cfr. Pedrazzi, C., (voce) Società commerciali (disciplina penale), in Dig. pen., XIII, Torino, 1998, 347 ss., adesso in Id., Diritto penale, III, cit., 320; Alessandri, A., Diritto penale e attività economiche, Bologna, 2010, 281.
4 Pedrazzi, C., In memoria, cit., 844.
5 Indipendentemente dalla condivisibilità di un simile assetto sul piano assiologico, pare a dir poco singolare che nel coro più o meno intonato di entusiasti del mercato e dell’impresa, si distinguano proprio fra le più ferventi le voci consentanee a quelle che portarono alla (contro)riforma del 2002 e che tuttora vedono in questo pur indispensabile – ma ancora limitato – intervento normativo uno spauracchio limitativo della libertà d’impresa: tornano alla mente le parole antiveggenti di Pedrazzi, quando insegnava che «in materia economica, l’esigenza di un tecnicismo agguerrito, che alla precisione dei concetti sappia unire la chiarezza delle formulazioni, si fa particolarmente pressante...Non è chi non veda che una minaccia penale sfumata, nei suoi contorni, da un alone di indeterminatezza finisce per esercitare un’azione disincentivante a raggio troppo vasto, al di là dei reali intendimenti del legislatore…Il rischio, chiaramente, è di provocare un fenomeno generalizzato di fuga dalle responsabilità, del quale non è difficile scorgere, qua e là, i segni premonitori. Sarebbero, paradossalmente, proprio gli operatori più coscienziosi ad abbandonare per primi il campo: effetto perverso di pretese moralizzatrici non sufficientemente controllate nella loro traduzione legislativa». Così Pedrazzi, C., Problemi di tecnica legislativa, in AA.VV., Comportamenti economici e legislazione penale, Milano, 1979, 17 s., adesso in Id., Diritto penale, III, cit., 138.
6 Pedrazzi, C., In memoria, cit., 845.
7 Ben severa la critica di Pedrazzi, C., In memoria, cit., 846, sulla procedibilità a querela: «nella falsità informativa così travisata e depotenziata viene calata una seconda censura, con pesanti riflessi sul regime sanzionatorio … La giustificazione che si legge nella Relazione che accompagna il disegno al Senato è disarmante nella sua franchezza “i soci potrebbero preferire non portare all’esterno irregolarità che avrebbero l’effetto di danneggiare l’immagine commerciale dell’impresa”. Il quadro ispiratore è quello della bega intestina, con contorno di ricatti trasversali dei quali la querela è strumento collaudato».
8 V. in questo senso Bricchetti, R.Pistorelli, L., Per le “non quotate” la tenuità del fatto salva dalla condanna, in Guida dir., 2015, f. 26, 64 ss.
9 Sul punto sia permesso rinviare a Mucciarelli, F., Le “nuove” false comunicazioni sociali: note in ordine sparso, in www.penalecontemporaneo.it, 18.6.2015, 26.
10 Cfr. Seminara, S., La riforma dei reati di false comunicazioni sociali, in Dir. pen. proc., 2015, 818; nonché, volendo, Mucciarelli, F., Le “nuove” false comunicazioni sociali, cit., 5.
11 In argomento v. – scusandomi per l’ineleganza dell’autocitazione – Mucciarelli, F., Le “nuove” false comunicazioni sociali, cit., 17. Egualmente Seminara, S., La riforma, cit., 820.
12 Allude per vero a una continuità normativa sotto ogni punto di vista Cass. pen., 16.6.2015, n. 33774, traendone argomento per ritenere non più previste dalla legge come reato fattispecie che, a detta di tale pronuncia, sarebbero state punibili in base alla previgente disposizione in quanto integranti “valutazioni” ma non anche secondo le attuali figure di reato: il tema verrà esaminato più innanzi, segnalandosi tuttavia che la ricordata decisione è stata sottoposta a severa e ben argomentata critica: cfr. D’Alessandro, F., La riforma delle false comunicazioni sociali al vaglio del Giudice di legittimità: davvero penalmente irrilevanti le valutazioni mendaci?, in corso di pubbl. in Giur. it., 2015; Seminara, S., False comunicazioni sociali e false valutazioni in bilancio: il difficile esordio di una riforma, in corso di pubbl. in Riv. it. dir. proc. pen., 2015. Per vero la sentenza si pone in contrasto con la maggior parte della dottrina che si è espressa dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni: ad eccezione del commento di Bricchetti, R.Pistorelli, L., La lenta “scomparsa” del diritto penale societario italiano, in Guida dir., 2015, f. 26, 53 (dai toni per vero dubitativi), si vedano le ferme prese di posizione, oltre ai già citati commenti, di Seminara, S., La riforma, cit., 814 s.; Gambardella, M., Il “ritorno” del delitto di false comunicazioni sociali: tra fatti materiali rilevanti, fatti di lieve entità e fatti di particolare tenuità, in Cass. pen., 2015, 1738 ss.; nonché, volendo, Mucciarelli, F., «Ancorché» superfluo, ancora un commento sparso sulle nuove false comunicazioni sociali, in www.penalecontemporaneo.it, 2.7.2015, 2 ss.
13 Cfr. Perini, A., I “fatti materiali non rispondenti al vero”: harakiri del futuribile “falso in bilancio”?, www.penalecontemporaneo.it, 27.4.2015.
14 Si tratta di Cass. pen., n. 33774/2015.
15 In ordine cronologico: Mucciarelli, F., opp. citt.; Seminara, S., opp. citt.; Gambardella, M., Il “ritorno”, cit.; D’Alessandro, F., La riforma, cit.; Avenati Bassi, G., Intervento a Tavola rotonda “Il falso in bilancio, le violazioni tributarie e la bancarotta fraudolenta quali reatispia della corruzione e del riciclaggio”, in Indagini penali e criminalità economica, corso della Scuola Superiore della Magistratura, Scandicci, 30.9.2.10.2015. Contra, nella linea poi seguita da Cass. pen., n. 33774/2015, v. Lanzi, A., Quello strano scoop del falso in bilancio che torna reato, in Guida dir., 2015, f. 26, 12; parz. conf. Bricchetti, R.Pistorelli, L., La lenta “scomparsa”, cit., 53; Caraccioli, I., Il rischio penale per le valutazioni estimative: reati fiscali a confronto con il nuovo falso in bilancio, in Fisco, 2015, n. 28, 2735; da ultimo, Scoletta, M., Tutela dell’informazione societaria e vincoli di legalità nei nuovi delitti di false comunicazioni sociali, in Società, 2015, 1301 ss.
16 In questo senso, in particolare, Scoletta, M., Tutela dell’informazione, cit., 1306 s.
17 Pedrazzi, C., (voce) Società commerciali, cit.
18 In questi termini, dopo la (contro)riforma del 2002, Alessandri, A., Diritto penale e attività economiche, cit., 280.
19 Seminara, S., La riforma, cit., 816 ss.; cui adde, volendo, Mucciarelli, F., Le “nuove” false comunicazioni sociali, cit., 7 ss.
20 Testualmente «amputandola [id est: la formula] però del riferimento alle valutazioni (di cui all’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”»: così Cass. pen., n. 33774/2015, § 2.1.c.
21 Seminara, S., False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni di vigilanza, in Dir. pen. proc., 2002, 677. Egualmente Conti, L., Disposizioni penali in materia di società e di consorzi, in Galgano, F., a cura di, Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, IV ed., Bologna-Roma, 2004, 73 s.; Foffani, L., La nuova disciplina delle false comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622), in Giarda, A. Seminara, S., a cura di, I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova, 2002, 265; Musco, E., I nuovi reati societari, con la collab. di Masullo, M.N., II ed., Milano, 2004, 64.
22 Il riferimento compariva nel comma quarto e nel comma ottavo, rispettivamente, dell’art. 2621 e dell’art. 2622 c.c. (nel testo risultante dalla riforma del 2002).
23 Conti, L., Diritto penale commerciale, I, II ed., Torino, 1980, 221 ss.
24 Avenati Bassi, G., Intervento, cit.
25 Alessandri, A., Diritto penale, cit., 284.