FALSIFICAZIONE
La f. degli oggetti d'arte anche se, come nella nostra trattazione, limitata solamente a quelli dell'arte antica, non si sottrae agli elementi che caratterizzano ogni falsificazione: vi devono concorrere due elementi, l'uno oggettivo, cioè la materiale esecuzione dell'oggetto, nella quale si imitano - o si tenta di imitare - forme e tecnica antiche, l'altro soggettivo, e, cioè, che la imitazione sia diretta a scopo fraudolento, al fine di ingannare altre persone sull'età dell'oggetto. Sotto questo aspetto, vanno escluse dal novero delle f., oltre alle vere riproduzioni - di cui, ad esempio, a Napoli esistettero ed esistono ancora officine che furono fiorenti nel XIX sec. ed al principio del secolo nostro, specializzate in copie di marmi dei musei italiani e dei bronzi di Pompei ed Ercolano - quelle imitazioni ed esercizi "à l'antique", eseguiti per soddisfare la ricerca dei committenti o per mostrare abilità nel gareggiare con gli antichi da parte di artisti di ogni tempo, e in maniera più ampia, dall'età prima della Rinascenza fino al tardo periodo neoclassico.
A questa categoria, appartennero alcune opere che Michelangelo scolpì nella sua giovinezza e forse anche il suo Amore dormiente, un tempo in possesso di Isabella d'Este (v. avanti); né diverso sarà il giudizio per un ritratto romano, opera di Bartolomeo Cavaceppi (1716-1799), noto restauratore e rifacitore di marmi antichi. Da queste considerazioni appare evidente la difficoltà di colpire con sanzioni giuridiche e penali la falsificazione di oggetti antichi d'arte o di artigianato: se si eccettuano alcune norme del diritto penale della Grecia moderna, la imitazione di essi non è colpita da sanzioni. Non può, quindi, meravigliare che talora, anche quando la f. sia provata - e non va taciuto per questo che la dimostrazione non è sempre raggiungibile, soprattutto sotto il profilo giuridico, da parte degli esperti - il falsario sia uscito indenne da un giudizio penale, avendo dimostrato che era solo esecutore materiale di opere od oggetti, da altri venduti o ceduti come antichi. Ma quando ad un'opera vengono applicati sistemi, intesi a simulare l'azione del tempo, la cosiddetta "truccatura", il dubbio non dovrebbe sussistere. I sistemi, a cui sono ricorsi e ricorrono i falsarî, sono numerosi: ad esempio, per ottenere la corrosione della superficie dei marmi vengono adoperati l'aceto e gli acidi, soprattutto quello cloridrico o, addirittura, la fiamma ossidrica per imitarne la calcificazione; il permanganato e l'acqua di ruggine per la patina; per mezzo di agenti chimici e fisici si è giunti perfino a riprodurre la impronta delle radici delle piante, indizio che, almeno fino a qualche tempo fa, era ritenuto sicuro per l'autenticità dei marmi, che sembravano rimasti a lungo sepolti. Indubbiamente, più complessi sono i metodi per ottenere le patine antiche sui bronzi, ma uno studioso e tecnico di profonda conoscenza, K. Kluge, ha dimostrato quanto fallaci siano le conoscenze che si credevano acquisite su queste patine. Le analisi chimiche o elettrolitiche non hanno dato finora risultati sicuri per provare l'antichità di alcuni bronzi; né è presumibile che l'analisi spettrografica possa risolvere il problema. Troppo poco sappiamo delle leghe dei bronzi antichi dalle notizie vaghe e, spesso, errate che ci ha trasmesso la tradizione letteraria, attraverso Plinio il Vecchio, e troppo poche sono le analisi finora eseguite (v. bronzo) anche perché esse impongono la distruzione di particelle dell'oggetto: al più, l'analisi spettrografica potrà essere ottima guida nella individuazione dei restauri per i bronzi scoperti in età anteriore alla nostra e, soprattutto, per quelli trovati nel XVIII sec. ad Ercolano. Ancora più difficile è la prova della falsificazione negli oggetti di metallo prezioso. Come è noto, l'oro, salvo in casi limitati ed eccezionali (ad esempio, alcuni aurei trovati a Boscoreale o nelle città campane sepolte dall'eruzione vesuviana del 79 d. C., si presentano coperti da un velo nerastro senza apprezzabile spessore) non subisce, anche se rimasto a lungo a contatto del terreno, alterazioni; i depositi di origine organica, che talvolta si formano su di esso, sono facilmente imitabili.
Notissima è la falsificazione della "tiara" di lamina d'oro, decorata da rilievi a sbalzo e ritoccati con il cesello che, secondo l'iscrizione greca appostavi, sarebbe stato dono degli abitanti di Olbia al regolo scita Saitaferne. La "tiara" fu acquistata dal Museo del Louvre nel 1896, dopo aver suscitato l'entusiasmo in alcuni dotti archeologi di Vienna, dove precedentemente era stata offerta in vendita. Per quanto fin dal suo primo apparire un archeologo russo ne avesse denunziata la falsità, dimostrata con analisi filologica dal Furtwängler, solo più tardi fu accertato che l'oggetto era opera di un incisore di Odessa, Israel Chonrumonsky. Nella seconda metà del sec. XIX comparvero numerose lamine auree false di arte etrusca, decorate con la tecnica della granulazione oppure con figure a sbalzo od incise: l'officina era certamente in Toscana, forse nei dintorni di Firenze. Più o meno nello stesso tempo, diademi aurei furono falsificati in Grecia; ma lo stile delle figure e delle scene denunziava facilmente la non autenticità. A differenza dell'oro, l'argento assume facilmente patine e, soprattutto, quella nerastra (argent corné) che i falsarî hanno spesso tentato di imitare, ricorrendo al solfuro d'argento. Per quanto questa patina sia difficile ad imitare, restano ancora alcuni casi dubbi: tale quello di alcune monete d'argento trovate negli scavi americani di Olynthos, giudicate false da un esperto studioso, secondo il quale monete false sarebbero state mescolate ad altre autentiche da scaltri falsarî per dare valore di autenticità alle loro falsificazioni. Il sospetto sembra eccessivo, ma il problema non è stato ancora sufficientemente chiarito. Più rara e meno facile, anche perchè la conoscenza delle tecniche pittoriche antiche non è molto diffusa, è stata finora la falsificazione dei dipinti antichi (v. avanti). Le applicazioni delle indagini con i raggi X, la microfotografia, la fotografia a luce radente e gli altri procedimenti che per i dipinti dell'età medievale e moderna hanno dato in tanti casi eccellenti risultati, per quelli antichi, che sono, in genere, dipinti murali su intonaci, potrebbero concorrere a determinare i restauri che, soprattutto in quelli scoperti nei secoli passati, hanno profondamente alterato la originale fisionomia. Anche rare sono le falsificazioni dei vasi greci che siano difficilmente individuabili. In alcuni vasi attici a fondo bianco e decorato con policromia, però, il perduto disegno e i colori sono stati sapientemente ripresi sì da costituire vere e proprie falsificazioni. In conclusione, non si possono additare regole sicure per l'identificazione dei falsi antichi e solo una consumata conoscenza dello stile e un'adeguata esperienza della tecnica potranno permettere di giudicare se un oggetto appartenga all'antichità o sia un falso, eseguito in età posteriore.
Antichità. - La storia della f. si identifica con quella del commercio delle opere d'arte e della loro richiesta. In Grecia, nel periodo anteriore all'ellenismo e prima che si avvertisse una più profonda maturazione della coscienza storica, la generale modestia della vita privata rende difficile supporre che siano stati eseguiti falsi di opere d'arte. Nei santuari della Grecia erano conservati oggetti che si facevano risalire a grande antichità, come quelli che si dicevano donati da oblatori mitici al santuario di Atena in Lindo, come l'Arca di Cipselo nel tempio di Hera ad Olimpia; ma non possiamo precisare quando questi oggetti, sulla cui antichità aveva ricamato la fervida fantasia dei credenti o la speculazione dei sacerdoti, furono eseguiti. Abbiamo invece prove sicure di f. di iscrizioni: ad esempio, di quelle che Erodoto (v, 59) afferma iscritte sui tripodi in onore di Apollo Ismenio a Tebe, oppure che Pausania lesse sul thàlamos di Alcmena (ix, ii, i) ed altrove (i, 43, 7; viii, 14, 4, ecc.). Indubbiamente falsa era anche l'iscrizione del disco, conservato ad Olimpia nello Heraion (Paus., v, 20, 1), in cui erano riportati i patti della ekecheirìa o tregua sacra, istituita dal legislatore spartano Licurgo, e che Aristotele vide (Plut., Lyc., i, e xxiii). Però queste false epigrafi, la cui età non è sempre precisabile, furono determinate da motivi politici o religiosi. Per quel che riguarda più da vicino le opere d'arte, è stato affermato che in alcuni vasi attici di stile severo è stata aggiunta la firma di un vasaio o decoratore celebre: ad esempio, la firma di Epiktetos in una pelìke del museo di Berlino, decorato dal Pittore di Kleophrades. In questo caso, influirono motivi economici, allo scopo di aumentare il valore dell'oggetto. Quando si diffuse, soprattutto per ispirazione della corte pergamena degli Attalidi, il desiderio di raccogliere i capolavori dell'arte passata e quando per una statua di Policleto fu pagata la cospicua somma di cento talenti (Plin., Nat. hist., xxxiv, 55), possiamo supporre che nacque anche l'industria dei falsarî. L'unica prova addotta, il sospetto sulla firma di Boethos, iscritta su di un'erma di bronzo trovata in mare presso le coste tunisine e facente parte del carico di opere d'arte spedite da Atene, forse come bottino ricavato dalla presa della città nell'anno 86 a. C., durante la prima guerra mitridatica, è molto discutibile. Frequente fu nel mondo greco la f. delle monete: ne è prova la severità delle leggi che, a cominciare da quelle di Solone (Demosth., Adv. Timocrat., 765, Reiske), minacciano costantemente per i falsari la pena di morte. Però, la coniazione di monete false dai privati passò allo stato e l'esempio più antico - e non unico - è attestato per il tiranno di Samo, Policrate che pagò gli Spartani con monete di piombo dorato (Herodot., iii, 56). Ma se di questi falsi non ci sono giunti esemplari, cospicua è la serie di monete antiche, composte da una sottile foglia di metallo prezioso, racchiudente una anima di metallo comune: queste monete si dicono comunemente suberate e, più propriamente foderate, perché l'anima, oltre che di rame, è spesso di ferro, piombo o stagno. Esse vengono comunemente ritenute opera di falsarî antichi ed alcune sono in realtà tali. Ma di emissioni statali di monete del genere abbiamo prove sicure: a Roma esse furono talvolta coniate per deliberazione del Senato fin dal tempo della guerra annibalica e degli imperatori durante i due primi secoli dell'Impero; quando, al tempo di Caracalla, per la scadente lega dell'argento l'operazione non fu più redditizia, venne limitata solo a quelle d'oro. Più che di falsi, quindi, si tratta di monete fiduciarie e sappiamo pure che alcuni esemplari raggiungevano un valore superiore di quelli genuini (Plin., Nat. hist., xxxiii, 132). Non rare sono anche le monete celtiche foderate e in Pannonia sono stati trovati esemplari di zinco misto a piombo, ricavati da forme, desunte da monete d'argento. Se, dunque, il giudizio su queste monete è incerto, prova della falsificazione delle monete anche per Roma desumiamo dalle sanzioni delle leggi e da qualche accenno degli scrittori (Persius, Saturae, v, 105). Quando le conquiste in Oriente e l'affluenza di ricchezze determinarono un profondo e sostanziale cambiamento nella società romana degli ultimi tempi della Repubblica, accanto alla bramosia per il possesso di opere dell'arte greca, alla schiera dei collezionisti, mediatori e venditori di opere d'arte, del tipo di quel Damasippo, di cui Cicerone (Fam., vii, 23, 2; ad Att., xii, 2; xxxii, 1) ed Orazio (Serm., ii, 3) ci lasciano intravedere il profilo, nacque fiorente l'industria del falso. Indubbiamente falsi saranno stati molti di quei bronzi di Corinto che gli intelligentes riconoscevano dall'odore o dal colore (Cic., Tusc., ii, 14; Mart., ix, 50), sulla cui origine Petronio fa amenamente discettare Trimaichione (Sat., 50) e di cui Plinio espone la composizione (Nat. hist., xxxiv, 6). Falsi saranno stati anche molti dei tyrrhena sigilla, ricercati avidamente dagli amatori di antichità (Hor., Ep., ii, 2, 180). Intorno ad alcune opere si creavano storielle di lontana antichità, come per il catillum Evandri manibus tritum (Hor., Serm., i, 3) o si fantasticava di possessori illustri, come per l'Eracle di Lisippo, posseduto da Nonio Vindice, in realtà modesta copia di età romana (Mart., ix, 44-45; Stat., Sylv., iv, 6, 32 ss.). Spesso i mercanti aggiungevano alle copie, più o meno fedeli, il nome di grandi maestri (Phaedr., v, 1) o attribuivano alla mano di famosi cesellatori greci e, in qualche caso, a Fidia stesso (Mart., iii, 35; iv, 39), i vasi di argento, tanto ricercati sul mercato di Roma. Si potrebbe perfino affermare, spigolando nella tradizione letteraria, che fin dai primordi della storia di Roma si ebbero falsi o per lo meno imitazioni, ricordando quel Veturio Mamurio che riprodusse per Numa in undici esemplari lo scudo caduto dal cielo (Plut., Numa, 13; Ovid., Fast., iii, 351 ss.). Quando la sede dell'Impero fu spostata a Bisanzio, gli imperatori che vi risiedettero, a cominciare da Costantino, fecero incetta di opere d'arte in tutto l'Impero per abbellire la nuova capitale; ma la lunga serie degli epigrammi dell'Anthologia Graeca che celebrano capolavori che ornavano la città, lascia sospettare che, tra quelli autentici, non mancassero falsificazioni o, almeno, copie, nobilitate da iscrizioni che le attribuivano a celebri artisti greci. Analogamente, a Bisanzio non cessò l'opera dei falsarî di monete e continuarono le adulterazioni, eseguite per volere dei sovrani.
Per quanto nel diritto romano il reato di falsità sia perfettamente configurato - sia negli atti privati, sia negli atti pubblici ed in specie nel campo della monetazione, (v. Paul., Sent., v, 25; Dig., xlviii, 10, 19; Ulp., Dig., xlviii, 10, 8, 9) - nel campo delle opere d'arte esso non è sentito e determinato con uguale precisione. E ciò per molte ragioni, tra le quali anche l'assenza di un commercio regolare di opere d'arte, almeno fino alla conquista romana della Grecia. Ma in primo luogo il concetto platonico ed aristotelico dell'arte, per cui essa era essenzialmente imitazione della natura, e quindi nell'opera d'arte non si ricercava una sua peculiare individualità, ma la verisimiglianza; e perciò anche un originale era sempre una imitazione. L'opera d'arte era in ultima analisi un modo della conoscenza, e quindi era perfettamente indifferente che si trattasse dell'opera d'arte originale o di un suo surrogato, come un falso, quando questo surrogato raggiungeva ugualmente lo scopo per il quale era stato pensato l'originale.
Col diffondersi del Cristianesimo nacque un nuovo genere di falsificazione: quello delle reliquie dei Santi e dei Martiri che, del resto, trovava qualche - e non sporadico - precedente nel mondo greco e romano. Per restare nel campo dell'arte figurativa, ricorderemo le immagini del Cristo e della Vergine che si dicevano non eseguite da mani umane (v. acheropita). Era celebre il ritratto che si diceva eseguito durante la vita del Cristo e inviato dal Cristo stesso al re di Edessa. Questo ritratto fu di scudo alla città, assediata dai nemici Persiani nel 544; in seguito sarebbe stato trasportato a Costantinopoli e poi a Roma: se ne hanno menzioni sin dagli scrittori del VI secolo.
Medioevo e Rinascimento. - Nell'alto Medioevo non si hanno prove per affermare vere falsificazioni di opere antiche. Tali, infatti, non possono essere giudicate le imitazioni di gemme che appartengono alla Rinascenza carolingia od ottomana, quando l'impronta classica domina perfino nella monetazione, per cui, quale esempio cospicuo, può essere indicata quella di Carlo il Grosso. Le gemme, che ornano alcuni oggetti del tempo (ad esempio: gli pseudocammei della rilegatura dell'Evangelario di S. Libuino di Utrecht, dell'Evangelario di S. Maurizio di Agaune o alcuni della croce di Brescia), sono imitazioni di cammei romani; ma l'uso di adoperare come suggello pietre incise romane, comune nell'età carolingia, condusse in qualche caso a veri e proprî falsi, anche se non ancora facilmente individuabili. Che nei secoli intorno al Mille si eseguissero falsificazioni o, per lo meno, si vendessero oggetti, attribuendo loro una remota origine, è provato dall'aneddoto, concernente l'arcivescovo di Milano, Arnolfo, al quale mercanti di Bisanzio vendettero un serpente di bronzo (oggi in S. Ambrogio a Milano) che l'arcivescovo acquistò come quello di Mosè, dimenticando che nel Libro dei Re (ii, xviii, 4) era affermato che il serpente di Mosè fu distrutto da Ezechia.
L'amore per gli studî e per le varie forme d'arte, che dominò la corte di Carlo V di Francia e quella del fratello Giovanni di Berry, favorì probabilmente la falsificazione. Giovanni di Berry, forse il primo possessore della Gemma Augustea (v. cammeo), ora a Vienna, aveva acquistato una moneta di Costantino. Essa è indubbiamente falsa; non si sa, però, se egli la ritenesse antica: certo tale era ritenuta nei secoli XVII e XVIII. Inoltre, il duca possedeva anche altre monete, come antiche; di esse una è conservata (quella dell'imperatore Eraclio), al Cabinet des Médailles. Nel tempo immediatamente posteriore, s'iniziano in Francia vere e proprie falsificazioni di monete ad opera di Guillaume Du Choul e di Antoine Le Pois. Poco più tardi, nella seconda metà del XV secolo, si diffonde in Italia e principalmente a Padova la falsificazione delle monete antiche. Invero gli esemplari dovuti a Vittore Camelio o Gambello (circa 1455-1537) o Giovanni dal Cavino, detto il Padovano (1500-1570), più che falsificazioni, possono essere definite belle medaglie rinascimentali: del resto, a Padova il terreno era ben preparato dalla monetazione, in cui larghe sono le ispirazioni dell'antichità, dei principi Carraresi, Francesco I e II. Oltre che a Padova, l'industria dei falsi fiorì poi a Parma e a Firenze, dove operarono i celebri falsarî, Michel Dervieu e il lionese Cogonnier; monete false furono prodotte anche in Spagna ed in Olanda e sono da ricordare, soprattutto, quelle dell'incisore Carteron. Queste monete venivano ricavate da matrici, bene imitate dall'antico; con sapienti ritocchi di bulino, spesso una moneta antica veniva modificata in maniera da farla apparire esemplare unico. All'industria, dettero impulso, da una parte gli studi umanistici, poiché alcuni falsi furono suggeriti proprio da umanisti allo scopo di apportare prove alle loro ipotesi, dall'altra gli studi di iconografia antica, iniziati con la raccolta di Andrea Fulvio (v.), dedicata nel 1517 al pontefice Leone X: le monete false riempivano i vuoti della serie in queste raccolte di immagini e nelle collezioni che si andavano formando: infatti, nella seconda metà del sec. XVI, quando l'olandese H. Goltz percorse buona parte dell'Europa per ricerche dotte, potè visitare più di ottocento collezioni di monete, delle quali trecentottanta solo in Italia, e l'inventano degli oggetti d'arte, appartenenti alla marchesa Isabella d'Este, compilato nel 1541, enumera circa duemila esemplari, in gran parte ritenuti antichi. Al principio del sec. XVI, l'industria dei falsi doveva essere tanto diffusa che i fondatori della scienza numismatica, Enea Vico (1523-1567) e Sebastiano Erizzo (1525-1585), sentirono il bisogno di esporre nei loro trattati le norme per distinguere le monete antiche autentiche da quelle false (ma poi ancora il Winckelmann confessava di affidarsi, per tali "expertises", alla pratica di un certo "Caciarino" che da venditore di mozzarelle si era fatto antiquario).
L'influenza dell'arte classica, sempre più affermantesi dal XIV sec., spinse indubbiamente alla esecuzione di molte opere di imitazione dell'antico; ma l'esame di esse esula dal nostro scopo: ricorderemo solo i rilievi del Verrocchio, decoranti la tomba di Francesca di Giovanni de' Tornabuoni, che apparvero antichi allo Shelley, la riproduzione (1465) della statua equestre di Marco Aurelio, ad opera del Filarete; i lavori che il giovane Michelangelo compì per dimostrare a Lorenzo de' Medici la propria abilità nel gareggiare con gli artisti antichi. Per il suo Amore dormiente, che ci è noto purtroppo solo da testimonianze letterarie, rimaniamo esitanti nell'affermare che sia stato intenzionale falsificazione: indurrebbe a pensarlo il prezzo di duecento ducati, per il quale l'opera fu acquistata dal cardinale Riario di S. Giorgio. Analogamente, i cento scudi che Isabella d'Este pagò a Giulio Romano per una testa marmorea romana farebbero pensare ad un falso antico, tanto più che attraverso le opere dei dotti, che si riunivano intorno alla marchesa d'Este, ci è giunta l'eco di discussioni sull'autenticità o meno dei pezzi che essa possedeva. L'esistenza di falsarî di antichità alla fine del sec. XV è pure provata in maniera indiretta, ma sicura, non tanto dalla menzione di scavi clandestini, contenuta in una lettera del 1488 diretta da Andrea Lotti a Lorenzo de' Medici, quanto da una notizia di Marcantonio Michiel, dalla quale apprendiamo che al tempo del passaggio di Carlo VIII per Roma un incisore di gemme, Pietro Maria della Pescia, preparò un rinvenimento di antichità: il diplomatico veneziano riporta il fatto come usuale. Inoltre, la promessa, anche se non mantenuta, fatta a Ciriaco di Ancona da parte di alcuni mercanti levantini di procurargli opere di Policleto, prova che i falsarî non agivano solo in Occidente. Però, il distinguere le falsificazioni del tempo dalle imitazioni non è facile impresa: l'imitatore, infatti, vede l'antichità con quei caratteri con i quali essa appare alla mente e allo spirito dei contemporanei e per questi sovente la sua opera racchiude, meglio che quella autenticamente antica, i segni del passato. Perciò, alcuni oggetti di imitazione sono stati immessi nelle raccolte di antichità e sono stati a lungo ritenuti antichi. Limiteremo, quindi, il nostro esame a pochi casi e significativi. Una testa del Camposanto di Pisa, a prima vista ritratto della tarda età antoniniana, è stata acutamente dimostrata come rielaborazione di una testa antica di Antinoo, eseguita in una bottega fiorentina e, probabilmente, in quella di Nanni di Banco nei primi decenni del sec. XV. A Baccio Bandinelli, che copiò il Laocoonte per Leone X, forse con lo scopo di farlo passare quale originale e mantenere la promessa di cederlo, che il Papa aveva fatto a Francesco I, è da attribuire un ritratto romano, apparentemente flavio, ora nel museo di Venezia. Ad officine romane della Rinascenza sembra che sia da attribuire il busto di Antonino Pio dei Musei Capitolini (Salone 25), mentre dalla bottega dei Lombardo e, particolarmente, da quella di Tullio provengono alcuni ritratti, tra i quali il busto di Marco Aurelio giovane, ora nel museo di Napoli e già nella Collezione Farnese. Nell'ambiente lombardo, teste arieggianti l'antico furono create a scopo di decorazione architettonica e, isolate, possono talora trarre in inganno sulla loro autenticità. Ad officine veneziane si possono attribuire la maggior parte delle copie del presunto Vitellio di Venezia, entrato nelle collezioni pubbliche per il legato Grimani del 1523, il Traiano delle stesse collezioni ed il busto, detto di Livio, a Padova; mentre a Gian Cristoforo Romano apparterrebbe una testa marmorea di giovane romano della Ca' d'Oro. L'uso di decorare con le immagini degli uomini illustri del passato edifici pubblici e dimore principesche risale appunto a quest'epoca. La più antica menzione, a noi nota, è la decorazione di medaglioni dipinti fatta eseguire dal già ricordato Duca di Berry per la Galleria del suo castello di Bicêtre. Forse a tal fine, il Sansovino scolpì un'immagine di Alessandro, desumendola dal noto busto della Galleria degli Uffizi. Da tale usanza certamente derivarono in gran parte i ritratti romani, scolpiti durante la Rinascenza e, principalmente, quelli della serie dei 12 Cesari, il cui impiego, a scopo decorativo, è attestato in Italia sino dalla fine del XV secolo. In questi casi, è ambiguo il limite tra le opere veramente false e le imitazioni, aventi solo scopo di completare la serie; però, una di queste serie, eseguita da T. della Porta, figlio di Guglielmo, venduta per antica e riconosciuta moderna, fu restituita. Il tema dei 12 Cesari passò dall'Italia alla Francia, alla Spagna e, quindi, in Germania, dove assunse particolare significato di esaltazione del potere imperiale. Dalla decorazione della tomba di Massimiliano I a Innsbruck proviene il ritratto di bronzo già all'Antiquarium di Monaco, identificato come Massimino Trace, il quale ha così schietti caratteri rinascimentali nelle forme del viso e, soprattutto, nell'adattamento della corona alla chioma che sembra incredibile come la testa possa essere stata giudicata antica da esperti studiosi. Essa faceva parte, sappiamo, di una serie di ritratti di imperatori romani, fusi ad Augusta e facenti parte, appunto, della decorazione sepolcrale anzidetta, notevolissima anche per la spesso riuscita identificazione dei tipi iconografici. Opera del Rinascimento è anche una testa di bronzo di Cesare, già in possesso Lazzeroni e poi a Parigi, il cui carattere di fedeltà ai modelli antichi farebbe sospettare un deliberato falso. Per i bronzi non è da trascurare la notizia, contenuta in una lettera, diretta nel 1575 al duca di Parma da Guglielmo della Porta, in cui questi annunzia di essere intento alla fusione di una decina di grandi bronzi: forse dalla sua officina provengono l'Euripide copiato dall'esemplare Farnese e l'Antinoo molto vicino all'esemplare di Napoli, pure Farnese. Più che falsi, sono da considerare imitazioni molte statuette di bronzo rinascimentali, come quella riproducente Ercole che strozza i serpenti, secondo uno schema ripetuto anche nella decorazione dell'arco di Alfonso d'Aragona a Napoli. Più decisamente un falso può essere indicato nella statuetta, nota in numerosi esemplari, della cosiddetta Angerona; in essa i caratteri del tempo si avvertono solo in alcune pieghe del panneggio e nel gesto di silenzio, eseguito con la mano sinistra, invece che con la destra, come voleva la tradizione antica. In alcuni rilievi l'ispirazione è tratta dal mito e dalla religione antica: così nel rilievo, scolpito verso il 1470, di Enea sacrificante, ora agli Uffizî, e in quello di Ravenna con una scena di combattimento tra mostri marini, disegnata anche da Andrea Mantegna, mentre al principio del XVI sec. appartiene il rilievo con scena di congedo del museo di Vienna. Benvenuto Cellini narra nella sua Vita (iii, 3) di avere cesellato un vaso di argento che fu poi venduto come antico. A metà del sec. XVI le vere e proprie f. non dovevano essere rare se Ulisse Aldovrandi nella sua opera (1556) sulle statue di Roma vi allude più volte. In questo tempo appare un nuovo genere di falsi: alle opere antiche vengono aggiunte iscrizioni e, spesso, firme di artisti greci per accrescerne il valore. Alcune di queste iscrizioni, come molte altre di differente carattere, sono state attribuite a Pirro Ligorio, forse con eccessiva larghezza.
Secoli XVIII e XIX. - I temi e le ispirazioni dall'antico continuano nel XVIII sec. al quale si deve forse riportare un rilievo con scena di sacrificio romano che alcuni decenni or sono era nella Collezione Fassini, presso Roma. Nelle riproduzioni dei ritratti romani si diffonde ora l'uso del porfido, mentre artisti italiani, francesi, come F. Girardon e A. Coysevox, e tedeschi, come W. Tetterow e B. Egger, eseguono traduzioni dall'antico, i cui intenti ci lasciano in qualche caso perplessi nel giudizio. Con la più intensa aspirazione ad avvicinarsi all'antichità, che caratterizza il XVIII sec., si moltiplicano le falsificazioni. Gli studî nascenti di preistoria indussero perfino a falsificare fossili terrestri, ed è celebre la falsificazione eseguita verso il 1725 a Würzburg. Nelle opere d'arte figurativa vengono ripresi i temi classici: così nel rilievo di Demostene a Dublino; ma si eseguono - e forse con maggiore impegno - schiette f. come provano le rotture intenzionali, le patine artefatte, le corrosioni della superficie (ad esempio: testa dello stratega Polignac, testa di barbaro, testa di Niobide). Meno sicuro è il giudizio per alcune statuette come quella di Demostene al museo di New York, perché la produzione di queste statuette, derivate da sculture antiche e già iniziata nel secolo precedente, era diretta sovente solo a fornire a coloro che lo desideravano ricordi di viaggio. La scoperta di Ercolano e di Pompei, la risonanza che i ritrovamenti ebbero nella cultura del tempo, dettero incentivo all'esecuzione di nuovi falsi: vi concorse pure la posizione di esclusivo monopolio che la corte di Napoli intendeva mantenere gelosamente per le pitture antiche. Poco dopo la metà del secolo, G. B. Casanova inviò due quadri falsi al Winckelmann che li pubblicò nella prima edizione tedesca (1764) della sua celebre Storia. Qualche decennio dopo apparve una pittura in Inghilterra, riproducente Glauco e Scilla, che si diceva scoperta a Tivoli nel 1786 e che alcuni hanno giudicato falsa, altri completamente ridipinta in età moderna. Più o meno coeva, è la pittura, eseguita ad encausto e su lastra d'ardesia, della Musa o Polymnia di Cortona; con la stessa tecnica era dipinta una Cleopatra, che si diceva scoperta a Tivoli nella villa di Adriano e che verso il 1885 era in possesso privato a Sorrento. Ma il caso più celebre di falsi di pitture antiche fu dovuto all'opera di un veneziano, Giuseppe Guerra, scolaro del Solimena a Napoli. Con i suoi lavori, che affermava provenienti da uno scavo nei pressi di Ercolano, il Guerra riuscì ad ingannare dotti quali il Barthélémy, il Caylus e collezionisti italiani e stranieri; una quarantina delle sue pitture furono acquistate dai gesuiti di Roma per le raccolte del Museo Kircheriano. L'inganno fu scoperto nel 1758 in seguito ad un'inchiesta, promossa dal governo di Napoli. Roma in quel tempo era centro attivo di falsari; si falsificavano marmi, bronzi e anche oggetti di metallo prezioso: tra gli esecutori di questi ultimi fu Carlo Cropaleri, autore di un tempietto d'argento che il dotto Paciaudi inviò al conte di Caylus per metterlo sull'avviso.
L'imitazione delle gemme antiche, di cui facemmo cenno a proposito di quelle medievali, continuò nel Rinascimento, trovando poi ancora maggiore diffusione nel sec. XVIII, al quale appartengono numerose copie di un cammeo, rappresentante il trionfo di un imperatore, il cui originale è forse nel museo di New York e attribuito al IV sec. d. C. Incisori famosi che derivarono le loro opere direttamente dall'antico furono oltre ai due Pichler, Antonio ed il fratello Giuseppe, Giovanni Costanzi con il figlio Carlo e Giovanni Lorenzo Natter, il quale scrisse anche un trattato sul metodo antico e moderno di incidere le gemme, edito nel 1754 a Londra. Ma le opere di questi artisti non sono falsificazioni: talvolta, vi appongono il loro nome ed iscrizioni in lettere greche o latine (v. pazialis). Se qualcuna delle loro opere è stata giudicata antica - il caso avvenne per una gemma del Pichler, riprodotta dal Winckelmann - si deve ad una svista degli studiosi o a frode dei venditori. Un caso particolare fu quello di un appassionato collezionista polacco, il principe Poniatowski, il quale, stabilitosi a Firenze, dove morì nel 1833, stipendiò diversi valenti intagliatori a fabbricargli gemme antiche che furono scoperte come false soltanto quando, alla sua morte, gli eredi vollero mettere all'asta la collezione, che fu venduta a Londra. Da questa officina è stato ritenuto che possa provenire la testina in cristallo di rocca conservata al Museo Archeologico di Firenze (inv. 72717) giudicata, anche da valenti studiosi del tempo nostro, nientemeno che un ritratto di Alessandro Magno originale di Pyrgoteles (v.), ma che sul calco rivela chiaramente caratteri stilistici neoclassici. Meno facile è il giudizio per le riproduzioni in pasta vitrea di gemme incise e cammei, secondo una tecnica che trova larghi precedenti nel mondo antico e che continua ancora oggi. Dopo la pubblicazione delle fondamentali opere di I. H. von Eckhel nell'ultimo quarto del XVIII sec., la f. delle monete, fino ad allora ristretta, in genere, alle serie romane, si estese anche a quella greca. Si distinse soprattutto C. W. Becker (1772-1832), incisore di talento, che fabbricò molti falsi di monete greche e romane: il suo intento, però, sembra che fosse solamente quello di procurare a buon prezzo esemplari rari ai collezionisti per colmare le lacune nelle loro raccolte. Questo non avvenne nella realtà, e Francoforte sul Meno, nei cui pressi il Becker abitava, divenne centro attivo del commercio di false monete.
L'indirizzo accademico del principio del sec. XIX spinse i falsari ad ispirarsi alle opere del neoclassicismo antico. Al principio del secolo fu attivo a Napoli il romano Monti, autore di una serie notevole di rilievi falsi. Nonostante che l'impostura fosse già stata denunziata fin dal 1824 dal Gerhard e dimostrata appieno verso il 1890, nelle collezioni del museo di Napoli è esposto un puteale, scolpito dal Monti, su cui è rappresentata una serie di sette divinità, con la falsa indicazione della provenienza dalla Collezione Farnese. Questo puteale un tempo formava la base del cratere, firmato da Salpion, la cui firma si legge anche su di un rilievo che era a Bologna, proveniente dalla Collezione Palagi e rappresentante Zeus seduto, Hera ed Ebe, pure opera del Monti, come il rilievo, già Jérichau a Roma, con la rappresentazione di Cleobi e Bitone. Altro puteale, forse piuttosto abile esercitazione sull'antico che non f. intenzionale, si trova al Museo Torlonia in Roma.
Tra il 1820 e il 186o diverse sculture false vennero in luce nella zona del Reno: tra esse, un rilievo di Mulhouse con cavaliere e Sirena che sembra appartenere ad una officina che faceva capo a M. Kauffmann. Allora centri produttori di falsi furono non solo grandi città, come Parigi, Roma, Napoli, Atene, Bruxelles, Smirne, Cipro, ma anche alcune della Spagna meridionale e perfino la piccola località di Stemnitza in Arcadia. Da queste officine uscirono numerose statuette di marmo o di bronzo: la più celebre è quella dell'Apollo Stroganoff, derivata dalla statua del Belvedere, che ispirò anche la f. di altre statuette, due delle quali erano in Spagna. Analogo giudizio può essere espresso per una statuetta di bronzo di amazzone del tipo Mattei nel Museo Maffeiano di Verona, per una statuetta di marmo dello stesso tipo nel Metropolitan Museum di New York e per una di Ginevra, derivata dalla nota copia della Atena Parthènos del Varvakeion. Le scoperte di terrecotte in Grecia ed in Asia Minore diffusero il gusto per le cosiddette "Tanagra" di cui a metà del secolo la f. fu abbondante, non solo a Parigi ed in Grecia, ma anche nella zona del Reno e delle quali talune entrarono in collezioni di musei. Accanto alle f. ed alle riproduzioni (sono state già ricordate quelle di Napoli e vanno pure menzionate quelle di Roma e le riduzioni di 112 sculture antiche, eseguite verso il 1840 dal Barbedienne) furono numerose le imitazioni dall'antico. Oltre alle sculture che Francesco Antonio Franzoni eseguì per riempire i vuoti della sala degli animali al Vaticano, per ordine di Papa Pio VI, degno di menzione è il caso singolare di una statuetta, eseguita nel 1827 da J. Dinger e firmata sullo zoccolo dall'artista, che è stata per circa un secolo ritenuta antica.
Sec. XX. - Raffinatesi le cognizioni storico-critiche e con i mezzi più perfezionati di ricerca, l'industria del falso si è andata sempre più scaltrendo: il più recente e clamoroso episodio è quello delle sculture false di Alceo Dossena, artista, invero, di qualità meno salienti di quelle che alcuni vorrebbero attribuirgli, ma di eccezionale abilità. In alcune sue opere, derivate dall'arcaismo greco (gruppo con scena di ratto, Atena) o da quello etrusco, seppe fondere ed associare motivi, desunti da differenti esemplari antichi, riuscendo così, talvolta, ad ingannare anche esperti conoscitori. Per quanto già noto nello studio dell'artista, ancora è discusso, da alcuni, il caso della Diana con cerbiatto, ora al museo di St. Louis, Missouri.
Nel tempo passato ed in quello moderno non sono mancate collezioni composte dai falsi, sia per imperizia dei raccoglitori, sia per altre cause: ricorderemo oltre quella, già menzionata, di gemme del principe Stanislao Poniatowski, la Collezione Chiellini di Livorno e, soprattutto, quella del barone W. di Grüneisen esposta a Parigi nel 1924. Alcuni collezionisti raccolsero intenzionalmente falsi: così J. Ebermayer, al principio del sec. XVIII, formò una collezione di gemme, imitate dall'antico ad opera di J. B. Dorsch, ed Apostolo Zeno una di monete false per propria esercitazione.
Nel rapido sguardo alla storia della falsificazione abbiamo avuto occasione di elencare molte opere false: aggiungeremo qui alcuni casi celebri o sui quali è ancora aperta la discussione. Tutte le epoche del passato hanno tentato l'industria dei falsarî. Da poco è stata scoperta la frode dei resti umani fossili di Piltdown che trova riscontro in quella del cranio di Calveras, del presunto uomo terziario della California, scoperto circa mezzo secolo fa. Celebre è il ritrovamento di oggetti a Glozei presso Vichy (ciottoli incisi con segni che furono detti alfabetici, vasi di impasto, idoli di terracotta, ecc.) che invano furono difesi come autentici. Falsificazioni di oggetti dell'armamentario litico delle età più antiche non sono rare: così delle selci delle palafitte lacustri svizzere, di quelle di Bormio, degli oggetti di osso, per cui fu perfino postulata un'età dell'osso in Polonia, etc. Meno frequenti sono i falsi in metallo dell'età preistorica; ma, quando nacque l'interesse per lo studio delle antichità primitive, furono falsificate, verso il 1850, statuette di bronzo o di ottone sardo-fenicie, ritenute e studiate come antiche. Una analoga serie di idoletti delle primitive civiltà italiche è diffusa largamente: quelli più antichi, noti in Campania, risalgono almeno alla fine del XVIII secolo. Furono falsificate anche antichità orientali e, soprattutto, in Egitto, dove furono lavorate statue e statuette di granito e perfino una falsa mummia venne venduta a uno studioso di Oslo. Altre false antichità egiziane furono eseguite nella Spagna meridionale, a Tarragona. Nel 1878 il museo di Berlino acquistò una collezione di terrecotte "moabitiche", provenienti dalla Palestina, false. Sigilli sono stati fabbricati a Bagdad e Karbala in Mesopotamia e, recentemente, in Siria: gemme sassanidi false provengono da Teheran e da Saida (Sidone) nel Libano. Certamente falso (come bene rilevò D. Opitz) è un rilievo che lo svizzero H. Moser acquistò a Parigi da un armeno e che nel 1914 lasciò, con la sua collezione, al museo di Berna. Sul rilievo è raffigurato il re persiano Ciro (identificato da un'iscrizione) seduto in trono, in atto di ricevere omaggio. L'autenticità del pezzo, il quale mostra uno stile di tipo tardo-antico, è stata vigorosamente affermata, anche di recente, da R. Delbrück e I. Lewy, ma è insostenibile sulla base dei motivi iconografici e stilistici in vigore nel periodo achemènide. In questi ultimi anni sono infine state immesse sul commercio antiquario palesi falsificazioni di statuette asserite provenienti dagli scavi di Mari (v.). Ma il campo nel quale si sono esercitati maggiormente i falsarî è quello dell'arte di Grecia e di Roma. Falsi della civiltà cretese-micenea vennero alla luce alcuni decennî or sono e, principalmente, una statuetta di marmo, entrata nel Fitzwilliam Museum, dopo essere stata a lungo a Parigi, ed alcuni anelli aurei (tra cui quello detto di Nestore) con scene create allo scopo di convalidare le prove dell'origine cretese-micenea della religione greca. La statuaria arcaica greca ha fornito frequentemente modelli ai falsarî: oltre alle statue del Dossena, due testine arcaiche di pòros, ambedue false, furono vendute ad un collezionista di Zurigo ed edite nel 1925 con la indicazione della provenienza dall'Acropoli. Qualche anno dopo si aggiunse una terza testa di egual materiale, ma di dimensioni maggiori, forse opera dello stesso scultore ateniese e una testa marmorea di kòre, copiata da quella n. 17 del Museo Nazionale di Atene. Statue, più o meno intere, di kòrai, indubbiamente false, furono derivate da quelle nn. 674, 678 e 68o del Museo dell'Acropoli. Sospetti, infondati, sono stati elevati, invece, contro la dea arcaica stante del museo di Berlino e contro la statua di giovane del tardo arcaismo a Monaco che, per l'anatomia di alcune parti del corpo e per le forme del viso, si inquadra nella serie dei koùroi attici, alla quale è comunemente attribuito. Ingiustificati sembrano anche i sospetti elevati contro un koùros arcaico del Metropolitan Museum. Per il periodo successivo, oltre ad una testa falsa di diretta derivazione da quella di uno dei caduti del frontone orientale di Egina, sono ben note le discussioni relative al Trono di Boston, trascurando l'assurda e isolata opinione di uno studioso che ha dubitato perfino dell'autenticità dell'analogo "trittico" Ludovisi. Argomenti sostanziali contro l'autenticità in realtà, non si sono acquisiti; la tecnica e l'iconografia, che si inquadra perfettamente nel repertorio figurativo greco e che trova forse pure risonanza in quella persistenza di motivi classici che si avverte nell'arte dal Medioevo, rendono molto esitanti a pronunziarsi in senso negativo. Non mancano sculture false del pieno V secolo: con ogni probabilità, è autentica la statuetta di bronzo di Bavai, rappresentante un guerriero o, come è stato affermato meno fondatamente,un'amazzone che è derivata da un originale di tale età; invece, sono note le falsificazioni in bronzo - se ne conoscevano nel 1884 sei - di una testa del tipo detto di Saffo, e quella della testa ritenuta replica della Supplice Barberini. Numerose sono state le falsificazioni di stèlai funerarie attiche della fine del V e del IV sec.: due, riconosciute da tempo, erano nel museo di Berlino, una terza, con iscrizione greca ed il nome di Poseidippos, nella Collezione Barracco a Roma; infine, una, già proprietà Schiff-Giorgini, venne esposta nel 1945 a Roma successivamente appurata come falsa (è opera di uno scultore di nome Gildo al quale si devono anche altre abilissime imitazioni dell'antico). Meno frequenti sono i casi di falsificazione della scultura più tarda: gli esempî più noti sono una falsificazione della testa dell'Afrodite di Milo, quella della testa del Laocoonte, quella di una statuetta derivata dall'Eracle Farnese le due ultime nella Collezione Grüneisen -, la copia opportunamente modificata di una testa di fanciulla dell'età ellenistica, che era un tempo a New York. Anche del ritratto, variamente identificato come Virgilio o Menandro, sono note copie di epoca recente. È singolare il fatto che i falsarî, ad eccezione che nelle terrecotte già ricordate, abbiano poco fermato finora la loro attenzione sulla scultura ellenistica, così larga di ispirazione per la plastica rinascimentale. Infatti, il Furtwängler ha segnalato una statuetta ellenistica di pescatore, cui il falsario, volendo restituire la testa, ha copiato una testa di una stele attica del IV secolo. Anche per la scultura etrusca è stato preferito ispirarsi al periodo arcaico: ricorderemo una statuetta in ambra di Apollo, già Grüneisen. Molto discusse sono la testa colossale di guerriero e le due statue di egual soggetto, acquistate dal Metropolitan Museum tra il 1915 e il 1921: i frammenti di terracotta che compongono le statue sono stati autorevolmente affermati come antichi: in tal caso indubbiamente il lavoro di ricomposizione e la ridipintura della superficie sarebbero tali che lo stile antico è notevolmente alterato, ma ciò che rende la autenticità delle sculture discutibile è la singolare unicità della testa colossale, la stretta somiglianza del guerriero con lo scudo con un bronzetto da Dodona (v.) a Berlino, la sospetta regolarità del cracquelé della superficie e la esagerazione delle caratteristiche forme arcaiche. Sospettata è stata anche, per la stretta somiglianza con le fotografie della kòre n. 678 dell'Acropoli, quella in terracotta della Gliptoteca Ny Carlsberg a Copenaghen, ritenuta etrusca. Nel campo dell'arte etrusca, oltre a qualche mediocre imitazione di urne funerarie e alla falsificazione con colori all'anilina della pittura di un sarcofago del museo di Berlino, sono stati segnalati numerosi bronzetti e specchi etruschi falsi, copiati da esemplari antichi con decorazioni a rilievo come uno del Musée d'Art et d'Histoire di Ginevra, o lavorati, incidendo con il bulino, od anche col procedimento dell'acquaforte, figure e scene su specchi originali antichi non decorati. Per la scultura romana abbiamo accennato alle ricordate imitazioni e f. di ritratti e rilievi; aggiungiamo qui che forse nei primi decenni del XIX sec. fu scolpito un rilievo con la rappresentazione della costruzione di un faro, alla presenza dell'imperatore Traiano, rilievo già in proprietà privata a Terracina, e che i sarcofagi romani, sempre richiesti per essere riadoperati fin dall'alto Medioevo (Beda, Hist., iv, 19) furono spesso riscolpiti o falsificati: così, uno con scena di pompa bacchica in possesso Calebdjah a Parigi. Quando l'interesse degli studiosi si rivolse agli aspetti della tarda ritrattistica imperiale romana, non mancarono falsi e, talvolta, furono rimodellati ritratti romani dell'epoca precedente, come nel caso di un grandioso ritratto, attribuito al V sec. d. C., già nella Collezione Fassini.
Abbiamo già accennato ai falsi in metallo prezioso: nel museo di Napoli è una statuetta di toro nello schema riprodotto dalle monete di Thoùrioi, da tempo riconosciuta falsa; anche sospetto sembra, nonostante le prove chimiche alle quali è stato sottoposto, un pendaglietto di argento del museo di New York. Il sospetto è confermato dall'asserita provenienza dalla Russia meridionale, dove, nella seconda metà del XIX sec., erano officine di falsarî che, oltre ad oggetti d'oro e di argento, fabbricavano anche vasi ed iscrizioni greche. Si tratta degli argenti passati poi nella Collezione Stroganoff e quindi al Metropolitan Museum di New York. Di tutti, soltanto il calice di Antiochia è ancora discusso e la sua autenticità sembra riaffermata.
Rari sono i casi di vasi antichi che abbiano a lungo tratto in inganno i conoscitori, come il cratere di Leningrado con la scena di Apollo e Marsia. È da ricordare la imitazione della coppa tarquiniese, dipinta da Oltos nell'officina di Euxitheos, imitazione, ora nel Musée des Arts Décoratifs di Parigi, ad opera del toscano Angelo Scappini che firmava le sue opere, poi vendute da altri come antiche dopo idonee manipolazioni. Alla sua mano si devono forse alcuni buccheri del museo di Filadelfia ed una riproduzione del noto vaso di Bokenranf (Bocchoris) a Bonn. False sono alcune maschere di bucchero dei musei di Londra (H. 179-180). Nel campo dei vasi greci, i falsarî talvolta si limitarono a dipingere le figure su esemplari non decorati, come nell'anfora di Eros e Psyche dei Musei Vaticani. Non di rado su frammenti antichi non decorati su cui erano restate scarse linee, tracciarono una decorazione policroma, come nella coppa di Nephele, già nella Collezione Tiszkiewicz. Il procedimento si identifica con quello seguito dai falsificatori dei tondi e di alcuni vasi, che si affermano provenienti da Centuripe. Forse i frammenti che compongono gli uni e gli altri sono in parte antichi e forse esisteva anche qualche traccia dell'originaria ornamentazione; ma le figure furono completamente ridipinte in età moderna. Del resto, fin dal 1923, P. Orsi aveva richiamata l'attenzione sull'attività dei falsari di terrecotte centuripine. Dopo quelle ricordate per la fine del sec. XVIII, non sono state segnalate f. di pitture murali in tempi recenti; più frequenti sono quelle di mosaici. Un certo Leoni falsificò mosaici con figure a rilievo e due mosaici di tale tecnica sono nel museo di Napoli (nn. 424-425). Altri mosaici falsi sono eseguiti con la tecnica comune: ad esempio, quello con la scena dell'uccisione di Archimede, che si diceva proveniente da Ercolano e, un tempo, a Wiesbaden; tre mosaici con scene degli Inferi nel Museo Universitario di Princeton ed, infine, uno con una scena di paesaggio e pescatori nel commercio antiquario (Jahrbuch, Arch. Anz., 1941, fig. 102). La continuità della tecnica ha facilitato lo smercio di false gemme antiche, difficilmente riconoscibili; del resto, l'industria dei falsari è estesa a tutti gli oggetti del mondo antico, alle iscrizioni e, perfino, alle glandes missiles, come è dimostrato da almeno gran parte di quelle trovate a metà del secolo scorso, presso Ascoli. Ma dove più attiva è stata questa industria è nella f. di monete, soprattutto in Grecia, nell'Oriente mediterraneo, in Sicilia. Celebri furono i mille falsi di Costantino Christodoulos, svelati nel 1922 da J. N. Svoronos. Altri, come un Demaratèion e un tetradracma di Katàna del museo di Reggio, furono fabbricati in Italia e gli esempi potrebbero essere agevolmente moltiplicati. Spesso ad un esemplare antico fu aggiunta la firma di un incisore celebre o qualche simbolo, allo scopo di creare rarità inedite. Purtroppo, su alcuni di questi esemplari falsi furono fondate teorie numismatiche: così da un tetradracma di Gela, al quale erano stati aggiunti tre globuli da un falsario, è stata elaborata la teoria della corrispondenza tra la dracma leggera e quella pesante nella monetazione siceliota.
In genere, però, quando si tratta di pitture o sculture che escano dall'ambito dell'artigianato, le f. riescono ad ingannare gli esperti per un periodo di tempo limitato; dopo uno o due decenni avviene che le f. divengano evidenti anche ad occhi meno esperti. Segno questo che in ogni f., per quanto abile, come in ogni giudizio critico, per quanto cauto, agisce un particolare modo di vedere l'arte di un determinato tempo, che è legato col gusto contemporaneo.
Monumenti considerati. - Tiara di Saitaferne: A. Furtwängler, Intermezzi, Lipsia - Berlino 1896, p. 81 ss. - Monete di Olynthos: O. E. Ravel, Numismatique grecque, Falsifications, Londra 1946, p. 68 ss.Erma di Boethos: M. Bieber, The Sculpt. Hell. Age, New York 1955, p. 82, fig. 286. - Antinoo del Camposanto di Pisa: R. Bianchi Bandinelli, in Journal Warburg Courtauld Inst., ix, 1946, p. 1 ss. - Antonino Pio del Campidoglio: Catal. Ancient Sculptures, p. 291, n. 25, tav. 76. - Busto di Marc'Aurelio di Napoli (inv. 6090): Guida Ruesch, p. 250, n. 1035. - Copie del Vitellio e Traiano di Venezia: M. Wegner, in Bericht über d. VI int. Kongr. f. Arch., Berlino 1939, p. 147; H. Koch, in Festschrift W. Wätzoldt, Berlino 1941, p. 244. - Busto di Livio a Padova: D. Frey, Apokryphe Liviusbildnisse, in Wallraf-Richartz-Jahrb., xvii, 1955, p. 132 ss. - Testa della Ca' d'Oro: L. Planiscig, Venezian. Bildhauer d. Renaissance, Vienna 1921, p. 313. Cosiddetto Massimino Trace (bronzo) dell'Antiquarium di Monaco: R. Delbrück, Antike Portraets, Bonn 1912, tav. 52; K. Kluge, Die antike Erzgestaltung, Berlino-Lipsia, i, 1927, p. 237, f. 39 (B). - Testa di bronzo già Lazzeroni, Parigi: A. Venturi, in L'Arte, vii, p. 475 ss. - Euripide (bronzo): G. Treu, in Arch. Anz., vi, 1891, p. 11 ss. - Antinoo: A. Rumpf, in Röm. Mitt., xlii, 1927, p. 242. - Polymnia di Cortona: C. Albizzati, in Critica d'Arte, vii, 1937, p. 22 ss. - Dipinto di Glauco e Scilla: A. Michaelis, Anc. Marbles in Great Britain, Cambridge 1882, n. 36. - Testa in cristallo (cosiddetto Alessandro) a Firenze: R. Bianchi Bandinelli, in Bull. Vereeniging v. Kennis Antieke Beschaving, 1951. - Puteale di Napoli (inv. 6670): Guida Ruesch, p. 289. - Rilievo a Bologna firmato da Salpion: R. Kekule, in Arch. Zeit., n. s., iii, 1879, p. 4, tav. 27. - Apollo Stroganoff: A. Furtwängler, in Ath. Mitt., xxv, 1900, p. 280. - Giovane di Monaco: Ch. Picard, Manuel, i, pp. 260, n. 2; 557; 593, n. 1 (cfr. per l'opinione contraria G. M. A. Richter, Sculpture and Sculptors, p. 54). Per i falsi Griüneisen: C. Albizzati, in Historia, i, 1927; iii, 1929; iv, 1930. - Falsi Dossena: F. Studniczka, in Jahrbuch, xliii, 1928, p. 140 ss. e 171 ss. Diana con cerbiatto a S. Louis: L. Banti, in Studi etruschi, xxxvi, 1958, p. 237 ss. (con bibl.). - Koùros a New York: G. M. A. Richter, Archaic Greek Art, New York 1949, p. 9, figg. 10-11. - Trono di Boston: B. Ashmole, in Journ. Hell. St., xlii, 1922, p. 248 ss.; id., in Proceed. Brit. Acad., xx, 1934, p. 91 ss. - Bronzo di Bavai: G. Faider-Feytmans, Rec. bronzes Bavai, Parigi 1957, p. 69, n. 104. Testa "Supplicante" Barberini: E. Paribeni, Museo Naz. Rom., Scult. greche, Roma 1953, p. 69, n. 124. Stele Barracco: W. Helbig, Führer, 3a ed., 621, n. 115. Stele Schiff-Giorgini: P. Cellini, in Paragone, n. 65, 1955. Testa di Afrodite di Milo: G. M. A. Richter, op. cit., fig. 536. - Testa del Laocoonte: C. Albizzati, in Historia, I, 1927, p. 37. - Statuetta di pescatore: A. Furtwängler, N. Fälsch., p. 11 ss., f. 9. - Guerrieri etruschi a New York: G. M. A. Richter, Etruscan Terracotta Warriors, in The Metr. Mus. of Art Papers, n. 6, 1937; M. Cagiano de Azevedo, in Bull. Ist. Centr. Restauro, 1950, p. 44. - Kòre Ny Carlsberg: F. Poulsen, in Die Antihe, viii, 1932, p. 95 ss. - Sarcofago dipinto a Berlino: C. Albizzati, in Enciclopedia Italiana, xiv, p. 758, s. v. - Specchi etruschi a Ginevra: R. Noll, in Oesterr. Jahreshefte, 1932, p. 59, f. 101 s. - Rilievo con Traiano e la costruzione di un faro: H. W. Gross, in Arch. Anz., liii, 1938, c. 148 ss. - Ritratto Collezione Fassini: Collezione d'arte del Barone Fassini, Arte Classica, ii (a cura di G. E. Rizzo), Milano-Roma 1931, tav. xxii-xxiii. - Toro di Napoli (inv. 24852): L. Breglia, Cat. delle oreficerie, Roma 1939, p. 100, n. 128. - Pendaglietto d'argento a New York: Metrop. Mus. Handbook, 1930, p. 195, f. 134. - Calice di Antiochia: J. J. Rorimer, in Studies for B. da Costa Green, Princeton 1954, p. 20 ss. - Vaso di Leningrado: O. Waldhauer, in Jahrbuch, xxviii, 1913, p. 61. - Coppa di Oltos e copia vaso di Bocchoris: G. Karo, in Ath. Mitt., xxxv, 1920, n. 156. - Terrecotte di Centuripe: C. Albizzati, in Athenaeum, xix, 1941, p. 67; xx, 1942, p. 62; xxiii, 1948, p. 211. Mosaici a Napoli, nn. 424 e 425: O. Elia, Pitture murali e mosaici, Roma 1932, p. 148. - Mosaico con uccisione di Archimede: F. Winter, 82. Berliner Winckelmannsprogr., 1924. - Mosaici a Princeton: P. Wolters, in Jahrluch, xli, 1925, c. 279 ss. Ghiande missili: C. Zangmeister, in C. I. L., ix, p. 632. - Monete: J. N. Svoronos, Synopsis de 1000 coins de Christodoulos, Atene 1922. - Tetradracma di Gela: W. Giesecke, Sicilia Numismatica, Lipsia 1923, p. 12, tav. ix, 5; O. E. Ravel, Numismatique grecque, Falsifications, Londra 1946, p. 75. - Rilievo di Ciro a Berna: D. Opitz, in Archiv f. Orientforschung, v, 1928-29, pp. 168-70; R. Delbrück-J. Lewy, in Jahrbuch d. Bernischen Historischen Museum, xxix, 1949, pp. 42-71. - Statuette di Mari: A. Parrot, in Syria, xxxii, 1955, pp. 182-83.
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