falso in bilancio
falso in bilàncio locuz. sost. masch. – I reati di false comunicazioni sociali, meglio noti, nel linguaggio corrente, come di falso in bilancio, costituiscono una costante degli ordinamenti giuridici occidentali. Nel sistema italiano le false comunicazioni sociali sono state oggetto di recente modifica, nel quadro della riforma del diritto penale societario (2002); la cosmesi operata ha profondamente inciso sulla struttura della incriminazione e ne ha fortemente contenuto l’ambito di operatività. La indeterminatezza che caratterizzava la precedente fisionomia dell'incriminazione aveva infatti permesso di fagocitare lo strumento penalistico nel più ampio conflitto tra i poteri dello Stato (politico e giudiziario), finalizzato a erodere il vasto sistema di corruttela imperante nel finire del secolo scorso. Il nuovo volto del falso in bilancio consegna tuttavia al giudice un’arma spuntata, a causa della eccessiva selettività delle condotte descritte, della ridondanza dei requisiti complessivi, nonché della mitezza delle sanzioni. L’attuale sistema penale conosce due distinte figure di false comunicazioni sociali. La prima, contenuta nell’art. 2621 del Codice civile, è punita con l’arresto fino a due anni. A onta della riconduzione nello schema delle 'contravvenzioni' e, per l’effetto, nel regime di imputazione soggettiva regolato dalla più agevole regola della rilevanza sia del dolo sia della colpa (art. 42, co. 4, cod. pen.), questa figura di falso in bilancio reclama – ai fini della punibilità – l’accertamento processuale di forme spiccate della volontà colpevole, nelle spoglie della intenzionalità di ingannare i soci o il pubblico e della determinazione a procurare per sé o per altri un ingiusto profitto. Il reato è posto a presidio della completezza, della veridicità e della trasparenza dell’informazione societaria e colpisce i soggetti investiti di particolari posizioni di garanzia all’interno delle strutture societarie, quando espongono fatti o valutazioni non rispondenti al vero, oppure quando omettono determinate comunicazioni imposte dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria interna o del gruppo a cui appartengono (è il caso delle holding). La seconda figura di false comunicazioni sociali, prevista dall’art. 2622 del Codice civile, è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni, salvo gli ulteriori aggravamenti di pena nel caso delle società quotate in borsa o nel caso di grave nocumento per i risparmiatori. Il delitto è focalizzato perlopiù sulla tutela del patrimonio dei soci, dei creditori e della società in seno alla quale il mendacio viene perpetrato; prova ne sia la punibilità condizionata alla rilevazione di un pregiudizio patrimoniale a carico degli stessi e un regime di procedibilità che impone la presentazione della querela da parte della persona offesa. A contenere la portata applicativa delle due ipotesi di reato, concorre un complesso sistema di soglie di punibilità, di tipo sia quantitativo sia qualitativo. Ove i fatti commessi non dovessero valicare le soglie di rilevanza penale, gli stessi degraderanno in illecito amministrativo, per il quale è comunque prevista la misura, tutt’altro che insignificante, della interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. La commissione dei reati di false comunicazioni sociali costituisce uno dei presupposti per il giudizio di responsabilità da reato a carico delle persone giuridiche (d. lgs. 231/2001). La prassi giurisprudenziale nel decennio trascorso mostra comunque, come da facile predizione, l'ineffettività della tutela apprestata dalle incriminazioni riformate, con scarsissime applicazioni nella pratica, sintomo manifesto anche della immanente difficoltà di accertamento probatorio per la pletora di requisiti richiesti e di un termine di prescrizione, specie per l’ipotesi contravvenzionale, davvero incompatibile con i tempi dell’attuale processo penale.