MICHELINI, Famiano
MICHELINI, Famiano (Francesco di S. Giuseppe). – Nacque a Roma il 31 ag. 1604 da genitori provenienti dalla Sabina e di modeste condizioni.
Sembra probabile che abbia frequentato le Scuole pie e certo che apprese la calligrafia da Ventura Sarafellini, collaboratore di Giuseppe Calasanzio. Il 13 giugno 1619 prese l’abito della Congregazione degli scolopi come «fratello operaio» (laico addetto ai lavori di manutenzione della casa), con il nome di Francesco di S. Giuseppe. Terminato il noviziato, il 25 luglio 1621 fece la sua professione semplice nelle mani dello stesso Calasanzio, il quale lo incoraggiò allo studio dell’abaco, materia in cui era naturalmente versato. Nel 1622 fu destinato come maestro d’abaco alla nuova fondazione di Savona, dove emise la professione solenne (25 marzo 1625). Nel 1627 era a Genova, dove lo raggiunse la promozione a chierico operaio (con il diritto alla tonsura, la berretta e l’insegnamento nelle scuole basse) e dove divenne assistente del nuovo provinciale della Liguria, padre Francesco Castelli. Il soggiorno a Genova fu importante anche per la sua formazione scientifica. Fu qui che il M. frequentò le lezioni di Antonio Santini, matematico somasco, e conobbe il matematico gesuita Giovanni Battista Baliani, poi suo mallevadore presso Galileo Galilei.
Dopo un breve soggiorno romano, nel novembre 1629 il M. fu inviato da Calasanzio a Firenze per partecipare all’organizzazione delle scuole che si volevano impiantare nel Granducato. Ottenuto faticosamente il placet granducale, il 22 maggio 1630 le scuole aprirono i battenti e il M. vi andò a esercitare la funzione di maestro di scrittura e abaco. Nel 1633 la suola di matematica era ormai in funzione con un’aula propria presso la casa professa dell’Ordine, a S. Maria de’ Ricci. Il M. annoverò fra i suoi discepoli, fino al 1648, giovani dell’aristocrazia fiorentina come Carlo Dati, Valerio Chimentelli, Candido e Paolo Del Buono, Simone e Filippo Paganucci e giovani professi come Angelo Morelli, Salvatore Grise, Clemente Settimi e Giovanni Battista de Ferraris.
Grazie alla presentazione di Baliani – il quale lo descriveva come «giovane virtuoso, e studioso, e in qualche parte delle matematiche» eccellente la «mediocrità» (Ed. nazionale delle opere di G. Galilei, XIV, p. 46) – il M. a Firenze entrò in contatto con Galileo e i suoi discepoli e iniziò a frequentare abitualmente la villa Il Gioiello ad Arcetri insieme con alcuni confratelli. Le due spedizioni a Roma nel 1634 per conto dell’Ordine furono per il M. altrettante occasioni per ampliare le sue frequentazioni galileiane. A Roma, infatti, egli divenne assiduo del padre benedettino Benedetto Castelli al monastero di S. Callisto e degli ospiti abituali di questo: il giovane Giovanni Alfonso Borelli, forse Evangelista Torricelli, soprattutto Raffaello Magiotti. Di Magiotti, in particolare, il M. condivise non solo le curiosità matematiche ma anche l’entusiasmo per la scoperta della circolazione del sangue, «bastante – come gli scrive Magiotti – a rivolgere tutta la medicina » (ibid., XVII, pp. 64 s.).
Nel 1635 il M. entrò a corte come maestro dei paggi, esperto di materie idrauliche e, dal 1638, per interessamento di Galileo, maestro d’algebra dei giovani fratelli del granduca Ferdinando II de’ Medici, Giovanni Carlo e Leopoldo, che iniziò a Euclide e alla moderna scienza del moto. Secondo alcuni suoi biografi (Fabroni, Picanyol), sarebbero stati proprio i Medici a pretendere per lui da Calasanzio la nomina sacerdotale, che tanto scompiglio causò all’Ordine. L’11 nov. 1636, infatti, il M. e il confratello matematico Ambrogio Ambrogi ricevettero per meriti straordinari il sacerdozio, ordinazione di norma negata ai fratelli «operai» e allora concessa, infatti, con deroga papale. L’investitura rinfocolò la polemica degli esclusi, al punto da indurre il capitolo generale (1637), sotto la presidenza della Congregazione della visita apostolica, a vietare per il futuro qualsiasi mobilità interna all’Ordine e a imporre ai neosacerdoti la sospensione dal titolo e l’obbligo dell’assoluzione papale, che ottennero il 7 genn. 1638.
Il servizio a corte costrinse il M. a frequenti assenze da Firenze e a lasciare pertanto al confratello Settimi, altro «scolopio galileiano» (Giovannozzi, 1917), la scuola di matematica e le visite settimanali a Galileo, con il quale egli mantenne però ottime relazioni epistolari. Nella primavera del 1638 era a Pisa dove assisteva alle prediche astronomiche del gesuita Niccolò Zucchi; nell’autunno dello stesso anno a Siena, dove leggeva matematica ai confratelli al convento di S. Agostino (di cui era governatore) e i Discorsi e dimostrazioni matematiche di Galileo al giovane Leopoldo. Nella primavera del 1639, di ritorno a Siena da Livorno, otteneva il permesso di trascorrere qualche giorno ospite di Galileo: questo fu il loro ultimo incontro.
Nel 1641, il M. – insieme con Settimi, Ambrogi, Morelli e Carlo Conti – fu denunciato dal confratello Mario Sozzi al tribunale dell’Inquisizione di Firenze come seguace di Galileo e del copernicanesimo. L’immunità in quanto servitore dei principi gli evitò la comparsa al processo che, del resto, mandò prosciolto Settimi, l’unico accusato in quel momento a Firenze. L’amarezza per quella condotta, però, fu all’origine della sua dura renitenza all’obbedienza a Sozzi, allorché questi divenne provinciale di Toscana. Lasciato con un pretesto il monastero per la corte (gennaio 1642), fu alla testa del rifiuto della casa di Pisa a sottomettersi all’obbedienza a Sozzi e al suo successore. Nei turbolenti anni 1642-46, che si conclusero con il breve innocenziano Ea quae pro felici (marzo 1646) con cui le Scuole pie venivano abbassate a congregazione senza superiori, il M., a differenza di quanti scelsero di lasciare l’abito, continuò ad adoperarsi, pur tra mille difficoltà, per il buon andamento delle scuole di Pisa e di Firenze.
Nel settembre del 1648 subentrò a Vincenzo Renieri sulla cattedra di matematica dell’Università di Pisa con lo stipendio iniziale di 150 scudi. Secondo il costume, il 5 novembre pronunciava la lezione inaugurale del suo corso, in cui sostenne – lo sappiamo da un suo ricordo posteriore di qualche anno – che «ogni sapere è matematica» (lettera del M. a Cristina di Svezia, in Targioni Tozzetti, III, pp. 322-327, cit. p. 325).
Nella lettera a Cristina di Svezia – non datata ma stesa forse in risposta all’invito ricevuto tramite Francesco Redi a unirsi alla neonata Accademia reale (aperta a Roma nel gennaio 1656) – il M. si dichiarava meravigliato della indifferenza mostrata dai matematici nei confronti della medicina e della terapeutica. Egli attribuiva tale indifferenza al «comune errore» di introdurre artificiali distinzioni entro il dominio delle scienze naturali e a un giudizio svalutativo nei confronti della medicina, considerata materia «bassa, e non attinente alla loro sublime professione» (ibid.).
Nelle posizioni del M. rifluivano profondi convincimenti ma anche considerazioni autobiografiche. A quella data, infatti, erano divenute pubbliche le sue ricerche anatomiche e sui modi per curare alcune malattie, come certe ostruzioni, edemi e febbri. Oltre ai frammenti del suo carteggio, la trattazione più ampia di tali problemi è affidata al Sistema d’igienica, o sia Regola per conservare lungamente la sanità, opera non datata il cui manoscritto era appartenuto, sembra, ad Antonio Cocchi e fu edito postumo da Targioni Tozzetti (ibid., pp. 329 s.).
Il M. vi esprimeva un’anatomia e una fisiologia strettamente meccaniciste, secondo cui il corpo sarebbe «un orologio, o macchina semovente», costituito di «innumerabili canali […] e di alcuni vasi e pezzi di carne, da noi chiamati officine o botteghe, come lo stomaco, il mesenterio, il fegato, il cuore, il pancreas, la milza, il polmone, et altre», azionati a loro volta da ordigni simili a «molle e contrapesi» denominati «lavoranti». Dietro il linguaggio ingenuamente allegorico traspaiono, pure, una «raffinata coscienza storica dei progressi dell’anatomia», dalla scoperta delle valvole venose di Girolamo Fabrici d’Acquapendente, a quella dei vasi chiliferi di Gaspare Aselli (Trabucco, p. 248), così come una visione della natura interamente meccanicista (e dunque potenzialmente matematizzabile). A queste premesse teoriche – poi sviluppate nell’opera dell’amico e discepolo Borelli – seguivano tuttavia indicazioni pratiche piuttosto elementari: una dieta sobria e scandita secondo rigide proporzioni tra quantità di cibo e tempo di digestione, calcolate in modo da permettere a ciascun apparato di assolvere correttamente alla sua funzione.
Il discredito che queste riflessioni e pratiche gettò sulla sua reputazione ebbe un peso rilevante in occasione di una disputa in materia di idraulica sostenuta dal M. nel 1645. In quell’anno, infatti, Leopoldo lo aveva chiamato in causa come perito nella questione dell’idrografia della Val di Chiana. Allora egli sostenne che per mettere in sicurezza gli argini dell’Arno, considerata la variazione annua della portata, fosse sufficiente prosciugare il fiume Chiana per un terzo del suo corso, da Montepulciano alla Chiusa dei Monaci, presso Ponte Buriano. Dalla sua scrittura scaturì una serrata polemica con Torricelli, interpellato per primo, che aveva espresso un diverso parere e che assai infastidito, pretese da Leopoldo l’arbitrato di Bonaventura Cavalieri. Questi declinò l’invito, ma in privato manifestò disistima nei confronti del M., per il dilettantismo mostrato quando si era offerto «del risanarmi la podagra» (Le opere dei discepoli …, I, p. 257). La cattiva stampa nei confronti del M. ebbe i suoi effetti. Nel luglio 1648, il cancelliere Lodovico Serenai presumeva oramai che il M. fosse «di setta contraria» a quella di Galileo (ibid., p. 517). Alla luce di questi fatti, la sua nomina alla cattedra pisana è apparsa come uno dei segni della temporanea rinuncia dei Medici a sostenere il programma galileiano dopo la morte di Galileo (Bucciantini, 1989, pp. 383 s.).
Alla metà degli anni Cinquanta si verificò un radicale mutamento di rotta nella vita del M.: nel 1654-55 si licenziò dalla cattedra pisana – forse in risposta agli attacchi dei matematici –, per la quale caldeggiò, e ottenne, la chiamata di Borelli. Inoltre, malgrado la fedeltà dimostrata al progetto calasanziano, a un anno dall’enciclica con cui Alessandro VII restituiva agli scolopi il grado di Congregazione regolare, fece richiesta di secolarizzazione, ottenuta il 21 apr. 1657.
Sono controverse le cause della sua decisione: dissapori con alcuni confratelli della casa di Pisa, che era stata chiusa nel 1656 (Tosti, 1989), una certa fragilità psichica prodotta da una lunga successione di malattie (Giovannozzi, 1917). In ogni caso, la secolarizzazione gli alienò la protezione del granduca, circostanza che può forse spiegare perché il M., pur rimanendo nella massima considerazione di Leopoldo come uomo di scienza, non venne ascritto all’Accademia del Cimento – inaugurata nel 1657 – a differenza di molti suoi amici (come Borelli o i fratelli Del Buono) ed ex colleghi pisani.
Alle difficoltà economiche prodotte dalla perdita della protezione granducale, il M. rispose cercando – sempre senza costrutto – di brevettare e vendere al miglior offerente i suoi rimedi terapeutici contro la febbre: in realtà, una semplice dieta a base di acqua e succo di limone da somministrare al malato all’insorgere della febbre. Le difficoltà economiche spiegano anche la scelta del M. di seguire (fine luglio 1658) monsignor Simone Rao Requesenz, vescovo di Patti e grande amico di Borelli, come suo provicario in Sicilia. La morte improvvisa di Rao (novembre 1659) lo costrinse a tornare a Firenze. Gli ultimi anni fiorentini furono difficili per il Michelini.
I suoi ingenui commerci e la sua proterva sperimentazione in materia di igiene gli avevano guadagnato nella società colta fiorentina l’appellativo di «Padre staderone», per l’abitudine di pesarsi prima e dopo i pasti, frutto della sua ipocondria, ma anche degli esperimenti condotti per verificare la dottrina della «traspirazione insensibile» di Santorio Santori. D’altro canto le ristrettezze economiche persistevano – viveva allora degli aiuti di certo Tommaso Grilli – e i ripetuti appelli al granduca si erano rivelati infruttuosi, perché subordinati a che egli scrivesse un’opera di gusto del principe, impresa improba per il M., non educato alle lettere.
La protezione di Leopoldo si rivelò ancora una volta decisiva. Questi, infatti, affidò a Borelli e a Vincenzo Viviani – allievo quest’ultimo di Settimi – la revisione del brogliaccio di un’opera di idraulica solo abbozzata dal Michelini. Grazie ai buoni uffici dei due matematici, di Carlo Dati che ne ripulì lo stile e alla generosità di Leopoldo, che ne finanziò la stampa e provvide personalmente alla sua massima diffusione, il Trattato della direzione dei fiumi uscì nell’ottobre del 1664 con dedica a Ferdinando II.
Nel volume si tratta in ventisette capitoli degli effetti rovinosi delle esondazioni dei fiumi e dei ripari che sogliono comunemente opporsi loro per difendere le campagne adiacenti dalle inondazioni allora in uso. Nell’avvertimento al lettore, l’autore rivendica e giustifica la novità dell’opera, un trattato che superava le gerarchie culturali – ma anche sociali e professionali – tra matematici teorici e praticanti, deducendo soluzioni pratiche (lunghezza e posizione dei ripari, spianamento degli arenili, cambiamenti di direzione e inclinazione dei corsi e così via) da premesse geometriche e fisiche teoriche. Se l’opera venne accolta con favore relativamente alle soluzioni pratiche, le premesse teoriche suscitarono notevoli perplessità tra gli studiosi. Il M. sosteneva che non solo l’acqua corrente ma anche l’acqua stagnante esercita una pressione e che tale pressione corrisponde all’«energia di moto», ovverosia al conato dell’acqua a muoversi dovuto alla gravità e diretto sempre verso il basso lungo traiettorie lineari verticali (pp. 17 s.). Ne risultava che l’acqua stagnante eserciterebbe una pressione solo sul fondo del letto e non verso gli argini, proposizione presto impugnata sia dai matematici romani, per bocca di Michelangelo Ricci, sia da Stefano Degli Angeli, matematico gesuato. Degli Angeli, per parte sua, riteneva la spiegazione del M. insufficiente anche perché non teneva conto della forza che gli strati superiori del liquido esercitano sulle parti inferiori (un’intuizione, questa, del concetto di pressione idrostatica), spingendo il liquido in tutte le direzioni e incidendo sulla sua velocità. Il dibattito continuò per alcuni mesi a colpi di esperimenti e di lettere semipubbliche, nonostante la via di uscita proposta da Ricci di assumere la proposizione del M. come una verità matematica e non fisica. La polemica giunse al punto da far sospettare a Borelli, dietro alle resistenze romane, ragioni politiche, e costrinse Leopoldo a intervenire personalmente per sedare gli animi. La difesa da parte dei toscani di un’opera «di retroguardia» come questa è parsa esemplare del ritardo in materia di scienza accumulato dalla Toscana a pochi anni dalla morte di Galileo (Maffioli, 1994, pp. 99-104). Il Trattato conteneva anche suggestioni interessanti, come il rapporto tra le velocità dei fiumi e l’inclinazione del loro letto o la relazione tra la viscosità dell’acqua e la velocità del fiume. Queste e altre ragioni valsero al M. la menzione di Domenico Guglielmini nel suo trattato Della natura dei fiumi (1697) e, tramite questo, il successo settecentesco dell’opera. Il Trattato ebbe infatti diverse riedizioni: a Bologna nel 1700 e in tutte le successive edizioni della Raccolta d’autori che trattano del moto delle acque (a cominciare dalla prima: Firenze 1723, I, pp. 213-273).
La polemica continuò a imperversare a dispetto della scomparsa del suo protagonista. Ai primi di gennaio 1665, infatti, il M. cadde improvvisamente malato. Malgrado le cure di Francesco Redi, medico di corte del granduca, e l’assistenza di Borelli, inviato appositamente al suo capezzale da Leopoldo, egli morì a Firenze il 20 genn. 1665.
Lorenzo Magalotti, allora segretario dell’Accademia del Cimento, ipotizzò che durante l’agonia il M. avesse rivelato a Borelli alcune delle sue invenzioni inedite: il modo di riparare i porti di mare dai venti; un progetto di risistemazione della laguna di Venezia. L’ipotesi di Magalotti troverebbe conferma nell’offerta avanzata da Leopoldo alla Repubblica di Venezia, pochi mesi dopo, di far continuare l’opera del M. da qualcun altro dei matematici fiorentini. Redi e Borelli furono testimoni del suo testamento, con il quale lasciava tutte le sue misere suppellettili alla donna che lo accudiva. Fu sepolto in S. Iacopo Sopr’Arno, sua parrocchia, in un sepolcro comune.
Fonti e Bibl.: Un elenco completo delle fonti manoscritte (in parte digitalizzate) relative al M. conservate tra i Manoscritti Galileiani della Biblioteca nazionale di Firenze si trova in http://opac.bncf.firenze.sbn.it; A. Fabbroni, Lettere inedite d’uomini illustri, Firenze 1755, ad ind.; Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche, accaduti in Toscana, a cura di G. Targioni Tozzetti, Firenze 1780, ad ind.; Delle lettere di uomini illustri, a cura di G.B. Tondini, Macerata 1782; Ed. nazionale delle opere di G. Galilei, diretta da A. Favaro, XIV-XVIII, Carteggio, Firenze 1904-06, ad ind.; G. Giovannozzi, Lettere inedite di s. Giuseppe Calasanzio a F.F. M., Firenze 1918; Id., Una lettera di F.F. M. a Giovanni Alfonso Borelli, in Atti della Pontificia Accademia delle scienze Nuovi Lincei, LXXX (1927), pp. 315-319; Epistolario di s. Giuseppe Calasanzio, a cura di L. Picanyol, IV-VIII, Roma 1952-55, ad ind.; G. Santha, Epistulae ad S. Iosephum Calasanctium ex Hispania et Italia. 1616-1648, I-II, Romae 1972, ad indices; Le opere dei discepoli di Galileo Galilei, I, Carteggio, a cura di P. Galluzzi - M. Torrini, Firenze 1975, ad ind.; G. Santha - C. Vila Pala, Epistolarium coetaneorum s. Iosephi Calasanctii 1600-1648, Romae 1977-82, ad indices; E. Knowles Middleton, Some unpublished correspondence of Giovanni Alfonso Borelli, in Annali dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, IX (1984), 2, pp. 128-132; B. Castelli, Carteggio, a cura di M. Bucciantini, Firenze 1988, ad ind.; M. Talenti, Vita del beato Giuseppe Calasanzio, Roma 1753, pp. 256 s.; A. Fabroni, Historia Academiae Pisanae, Pisis 1795, III, pp. 128, 164, 435-440, 460; A. Neri, Il padre Staderone (F. M.), in Rivista europea, XXIII (1881), pp. 756-764; R. Caverni, Storia del metodo sperimentale in Italia, Firenze 1891-1900, I, p. 162; III, pp. 30, 156; M. Cioni, Documenti galileiani del S. Uffizio di Firenze, Firenze 1908, pp. 51, 56-60; G. Giovannozzi, Scolopi galileiani, Firenze 1917, passim; Id., Un capitolo inedito della «Storia del metodo sperimentale in Italia» di Raffaello Caverni, in Memorie della Pontificia Accademia dei Nuovi Lincei, s. 2, XI (1928), pp. 171-190; E. Falqui, Antologia della prosa scientifica italiana del ’600, Roma 1930, pp. 329-335; L. Picanyol, La scuola dei nobili nelle Scuole pie fiorentine e il suo fondatore p. Giovan Francesco Apa, Roma 1939, p. 3; P. Vannucci, Il collegio Nazareno, Roma 1939, p. 31; L. Picanyol, Le Scuole pie e Galileo Galilei, Roma 1942, pp. 63, 73-94; M. Ferrero, Le Scuole pie di Savona, Savona 1967, pp. 12 s.; L. Belloni, La dottrina della circolazione del sangue e la scuola galileiana 1636-61, in Gesnerus, XXVIII (1971), pp. 9 s.; M. Bucciantini, Il trattato «Della misura dell’acque correnti» di Benedetto Castelli: una discussione sulle acque all’interno della scuola galileiana, in Annali dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, VIII (1983), p. 132; O. Tosti, Notizie storiche del «Pellegrino» noviziato degli scolopi a Firenze, in Ricerche, III (1983), pp. 49 s.; Id., Giovan Francesco Fiammelli e l’introduzione degli scolopi in Firenze, ibid., V (1985), 1, pp. 63-67; Id., Gli scolopi a Pisa. Cenni storici, ibid., pp. 201-320; M. Bucciantini, Eredità galileiana e politica culturale medicea, in Studi storici, XXX (1989), pp. 383 s.; G. Santha, L’opera pedagogica del Calasanzio, in Ricerche, IX (1989), pp. 112-116; C.S. Maffioli, Sulla genesi e sugli inediti della Storia del metodo sperimentale in Italia di Raffaello Caverni, in Annali dell’Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, X (1985), pp. 80 s.; O. Tosti, Il p. F. M., in Ricerche, IX (1989), pp. 203-209; C.S. Maffioli, Out of Galileo: the science of waters, 1628-1718, Rotterdam 1994, pp. 63 n., 99-104, 361; E. Levi, The science of water. The foundation of modern hydraulics, New York 1995, ad vocem; Storia dell’Università di Pisa, Pisa 2000, I, pp. 355 s., 519, 525, 566; O. Trabucco, Delle cagioni delle febbri maligne di G.A. Borelli: una lettura contestuale, in Giornale critico della filosofia italiana, s. 6., XX (2000), pp. 248 s.; G. Tabarroni, F. M., in Dictionary of scientific biography, IX, New York 1974, sub vocem.
F. Favino