Famiglia e diritto
Declino del paradigma unitario e funzione del diritto
Il 20° sec. si è chiuso con il vivace dibattito dei giusfamiliaristi intorno a una legge francese – la n. 99-944 del 15 nov. 1999 istitutiva del PActe Civil de Solidarité (PACS) – che non menziona neppure una volta il termine famiglia e viceversa richiama di frequente la categoria del contratto.
Alla scelta del silenzio fa eco, in apertura del nuovo millennio, una serrata critica alla definizione tradizionale di famiglia icasticamente rappresentata dal titolo provocatorio di un saggio di diritto costituzionale: La famiglia: alla radice di un ossimoro di Roberto Bin («Studium iuris», 2000, 10, pp. 1066 e sgg.). Secondo l’art. 29 Cost., «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», ma l’immagine della ricezione fedele rispetto al piano sociale, che l’espressione parrebbe evocare, si ritiene tradita dal riferimento all’istituto giuridico del matrimonio, lontano dall’attuale complessità del sociale.
Il silenzio e la critica sono i segni più evidenti del declino di una concezione socialmente, eticamente e giuridicamente unica e condivisa di famiglia: quella visione tradizionale che – nonostante la diversità di ricostruzioni ideologiche che hanno animato il dibattito costituzionale – non consentiva di ravvisare nel 1948 il germe di una contraddizione nell’abbinamento tra società naturale e istituto giuridico del matrimonio.
Il crepuscolo del paradigma unitario complica il rapporto tra famiglia e diritto, là dove quest’ultimo non deve unicamente valutare il tipo di disciplina consono alle particolarità dell’istituto, ma ab imis è chiamato a identificare le nuove identità familiari giuridicamente rilevanti.
Una prima e più immediata risposta al pluralismo viene offerta dalla metafora dello specchio. Il frammento della norma costituzionale che evoca la società naturale e una lettura articolata delle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (2000) suggeriscono una visione del diritto di famiglia come necessario riflesso della realtà sociale, dalla quale riverbera un’immagine dominata dal pluralismo sia della famiglia sia dello stesso istituto matrimoniale. Un aspetto primario del diritto di famiglia – scrive Paolo Zatti – è quello che «lo lega strettamente all’esperienza e all’evoluzione di una società e ne definisce la funzione non al modo di una costruzione normativa che il legislatore illuministicamente, o ideologicamente, impone al tessuto sociale, ma invece come di uno specchio che si adatta a riflettere – certo nella prescrizione e non nella descrizione – lo stato dell’evoluzione delle relazioni familiari in un contesto sociale» (2002, p. 10).
L’esigenza di una costante fedeltà al tessuto sociale traghetta la formula costituzionale dal monismo al pluralismo e segna un percorso metodologicamente ineccepibile. Al contempo, tuttavia, la forza dell’inciso, in cui si rammenta che il diritto è prescrizione e non descrizione, basta a prefigurare l’illusorietà di una mera proiezione automatica dal sociale al giuridico. Al di là dello specchio, la scomposizione e ricomposizione dei nuclei, la proliferazione dei modelli e la proiezione multiculturale della famiglia consegnano un quadro denso di conflitti, nel quale si moltiplicano e si contrappongono le concezioni etiche e si dissolve l’accorpamento fra solidarietà e morale in quanto coscienza collettiva. Simile quadro si presta neutralmente a una descrizione, ma i conflitti etici e sociali non possono divenire, in quanto tali, norme: la dimensione prescrittiva impone delle scelte e la difficile via di una soluzione dei conflitti.
Se a Friedrich Nietzsche bastava presagire, nel suo Götzen-Dämmerung (1889), l’abolizione dell’istituto matrimoniale, la medesima ipotesi formulata nell’articolo The right to marry dal giurista Cass R. Sunstein (Public law and legal theory. Working paper series, 2004, 76), nel solco di una deregulation che richiede allo Stato unicamente di accogliere – o se si vuole di rispecchiare – le nostre libere scelte, si incrina nella sua intrinseca coerenza dinanzi al rifiuto di legittimare l’accordo fra tre adulti, segno tangibile di come sia ineliminabile il problema dei limiti.
Il diritto di famiglia non può non seguire il dato sociale, ma quanto più questo si dimostra articolato e conflittuale, tanto più il passaggio ‘dalla descrizione alla prescrizione’ esalta la funzione selettiva del diritto. Questa a sua volta, per quanto fedele al pluralismo, non si può limitare ad arbitrare la procedura dei conflitti, ma deve trovare una propria guida assiologica e presumibilmente cercarla nel tessuto dei principi. Al contempo, nel metodo, è inevitabile ispirarsi a una gradualità e finanche a un virtuoso ritardo rispetto ai fermenti sociali alla ricerca di un consenso diffuso, o quanto meno largamente condiviso, e di una minima coerenza fra cultura, ideologia e diritto.
Modelli di aggregazione familiare
La relatività e la storicità della prospettiva giuridica e della funzione selettiva del diritto allontanano l’illusoria tentazione di ridefinire una realtà sempre più dominata dal pluralismo e orientano verso la ricostruzione di uno sguardo di insieme sul riconoscimento attuale di alcuni nuovi modelli di aggregazione familiare e sul grado di tutela approntato.
Il processo del ‘farsi delle comunità’ mostra radicali profili innovativi sia nelle relazioni orizzontali sia nei rapporti fondati sulla genitorialità.
A latere della famiglia tradizionale costituita attraverso il matrimonio, si consolida (e sul piano sociale acquisisce una diffusione crescente) la convivenza di fatto; al contempo – specie nell’orizzonte europeo – si anima il dibattito sulle unioni civili fra adulti dello stesso sesso, mentre il processo di circolazione globale attiva le problematiche giuridiche connesse con la presenza di modelli di famiglia aventi una matrice culturale differente rispetto a quella occidentale.
Parallelamente, le relazioni verticali, in virtù non soltanto dell’istituto dell’adozione ma anche del progredire delle tecniche che consentono la fecondazione assistita, vedono affiancare al concepimento naturale nuove fonti costitutive del rapporto genitoriale.
Dinanzi a tale articolazione dei vincoli, si assiste nel dibattito e nell’analisi dei sociologi a una tendenza a rifondare le basi costitutive della responsabilità propria del rapporto familiare, secondo la lettura di Émile Durkheim (Per una sociologia della famiglia, 1999), cercando il modello che dia maggiori garanzie di solidità nel fondare la responsabilità familiare. Una parte degli studiosi, in particolare esponenti del pensiero femminista nordamericano, rileva la fragilità e l’instabilità delle relazioni incentrate sul fattore sessuale per rivendicare quale esclusivo modello familiare quello che scaturisce dal rapporto genitoriale (M.A. Fineman, The neutered mother, the sexual family and other twentieth century tragedies, 1995, pp. 4, 199 e sgg.). Per converso, vi è chi rivendica il modello dell’unione matrimoniale, ma sottolinea l’esigenza di liberarlo dal presupposto della diversità di sesso (M.C. Regan, Family law and the pursuit of intimacy, 1993).
Simili contrapposizioni e alternative tra fonti orizzontali e verticali della responsabilità familiare non paiono riscontrarsi nella prospettiva giuridica e a ben vedere non sono neppure da auspicare. Gli artt. 29 e 30 della Costituzione conferiscono legittimazione a entrambe le tipologie di vincolo e la loro autonoma e parallela rilevanza sono la premessa di un’assoluta equiparazione tra famiglia naturale e famiglia legittima.
D’altro canto, l’autonomo riconoscimento di ambo i vincoli non vale certo a trascurare il loro intreccio, che si fa sempre più articolato al di là dei confini dei modelli tradizionali. Il formarsi, dopo la patologia di un vincolo, di una nuova unione matrimoniale o di fatto che si proietta su precedenti relazioni verticali, genera il fenomeno delle cosiddette famiglie ricomposte. E ancora, il consolidarsi di relazioni verticali non più fondate sul concepimento naturale, ma sull’adozione e sulla fecondazione assistita, si interseca – specie nella disciplina dell’accesso – con le nuove tipologie di aggregazioni orizzontali e con il modello di famiglia monoparentale.
Ed è proprio la complessità dell’intersezione tra nuove relazioni verticali e orizzontali che fa dell’autonoma rilevanza e distinzione di piani una chiave di lettura per l’interprete che intenda evitare qualsivoglia automatismo e valorizzare il differente tessuto di principi fondamentali coinvolti nei rapporti tra adulti e nella cura dei minori.
Sullo sfondo descritto, la pluralità di aggregazioni diffuse nella dimensione sociale delineano sul terreno del diritto un quadro caratterizzato da molteplici sfumature cromatiche che alternano il consolidamento di alcuni nuovi modelli, pure contraddistinti tuttora da profili irrisolti, con l’elevato grado di problematicità connesso al riconoscimento di altre tipologie di unioni.
Ampiamente condiviso a livello italiano ed europeo è il modello della convivenza di fatto: liberato da qualsivoglia retaggio negativo, è penetrato sia nella fonte legale sia nella giurisprudenza costituzionale nonché nel tessuto della giurisprudenza ordinaria, che si è avvalsa di istituti generali – dalla responsabilità civile, alle obbligazioni naturali, all’arricchimento senza causa – per costruire una rete di sostegno a tutela della parte debole. In fieri, peraltro, è la ricerca della tipologia di regole più consone a un’unione che per definizione rivendica una fondamentale libertà rispetto all’istituto coniugale e naturalmente propende verso l’istituto dell’autonomia privata. Per altro, la difficoltà di far penetrare nel tessuto sociale, specie meno abbiente, la consapevolezza dell’utilità dello strumento contrattuale in previsione della crisi può potenzialmente orientare verso una tipologia di accordi costitutivi dell’unione che richiama più da vicino il modello dei PACS. In ogni caso la valorizzazione della fonte autonoma di disciplina non è un fenomeno circoscritto alla mera convivenza, ma è un dato caratterizzante del nuovo diritto di famiglia che si registra anche nei rapporti coniugali, specie nella regolamentazione della crisi. Se, dunque, come unione orizzontale la convivenza more uxorio si rafforza e, pur mantenendo un’ontologica distinzione dal vincolo matrimoniale, condivide con quest’ultimo la logica di una valorizzazione dell’autonomia, qualche profilo d’ombra si registra invece nel rapporto con gli istituti che generano relazioni verticali al di fuori del concepimento naturale. In particolare, si segnala la riforma delle adozioni introdotta con la l. 28 marzo 2001 n. 149 che, pur avendo riconosciuto, ai fini del computo del triennio che garantisce il presupposto della stabilità dell’unione fra gli adottandi, la rilevanza di una stabile e continuativa convivenza (art. 6, 4° co., della l. 4 maggio 1983 n. 184, come modificato dall’art. 6 della suddetta legge del 2001), tuttavia richiede per l’accesso all’istituto che l’unione si sia consolidata nel vincolo matrimoniale. Siffatta previsione tanto più stupisce ove messa a confronto con la l. 19 febbr. 2004 n. 40, di poco successiva rispetto alla riforma delle adozioni, che all’art. 5 consente invece l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita non solo alle coppie coniugate, ma anche ai conviventi di sesso diverso e in età potenzialmente fertile. La materia, d’altro canto, è suscettibile – come si dirà – di evoluzioni a seguito della recente revisione della Convenzione europea sull’adozione dei minori (risalente al 1967), approvata sia dal Consiglio d’Europa sia dal Comitato dei ministri il 7 maggio 2008, che all’art. 7 consente l’adozione anche alle coppie «che vivono insieme in una relazione stabile».
Ben più controversa è la rilevanza giuridica delle unioni civili tra adulti dello stesso sesso, nonostante la notevole apertura che si evince dal contesto europeo. L’avvio del dibattito è segnato dalle affermazioni di principio della risoluzione del Parlamento europeo dell’8 marzo 1994 e della raccomandazione del medesimo organo del 16 marzo 2000 in cui si invitano gli Stati membri a garantire «alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie e alle famiglie tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali». Di seguito, in aperto distacco rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950), che all’art. 12 riconosce il diritto di sposarsi a un uomo e a una donna, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea contempla all’art. 9 il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia senza specificare il requisito dell’eterosessualità, salvo introdurre la precisazione che tali diritti «sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». Traspaiono da tale affermazione la consapevolezza del retroterra culturale che avalla l’esigenza di un accoglimento graduale e condiviso di nuove aggregazioni familiari e contestualmente «il rispetto – da parte dell’Unione Europea – delle diversità delle culture e delle tradizioni dei popoli europei [e] dell’identità nazionale degli Stati membri». Dunque, l’Unione Europea si pone in una posizione anodina che – come si legge nelle note all’art. 9 – «non vieta né impone la concessione di uno status matrimoniale tra persone dello stesso sesso». Dal vivace dibattito che ha accompagnato nel nostro Paese la riflessione sulle unioni civili in occasione della proposta legislativa in materia di DICO (DIritti e doveri delle persone stabilmente COnviventi), l’impressione è che in prospettiva si possa giungere a un modello analogo a quello dei PACS francesi che assicurano, tramite l’autonomia privata, regole per la tutela dei partner dell’unione. D’altro canto, appare invece piuttosto lontana dal contesto culturale del nostro sistema l’ipotesi di una mera estensione del modello matrimoniale, quale si è avuta in Olanda, in Spagna e, di recente, in Belgio.
Se già discussa è la rilevanza in sé delle unioni civili, ulteriormente controverso è il loro accesso alle nuove relazioni verticali che si instaurano con la fecondazione assistita e attraverso l’adozione. Tale possibilità è attualmente esclusa per entrambi gli istituti dalla normativa interna, ma preme sulla riflessione autoctona l’apertura che si legge nella recente proposta di Convenzione europea sull’adozione dei minori, già sopra richiamata. L’art. 7, dopo aver previsto al primo comma l’adozione da parte di un single, contempla al secondo comma: «Gli Stati hanno la facoltà di estendere i benefici di questa convenzione alle coppie dello stesso sesso che sono regolarmente unite in matrimonio o che sono ufficialmente registrate quali coppie. Gli Stati stessi hanno anche la facoltà di estendere i benefici di questa convenzione alle coppie eterosessuali e omosessuali che si trovano in condizione di stabile convivenza». Si riproduce in sostanza l’immagine di un’Europa che vuole dare la massima apertura alle unioni civili, ma nel rispetto delle identità nazionali e rimettendo alla libertà degli Stati la scelta su temi così delicati.
Dinanzi a tale investitura la riflessione risulterà approfondita e complessa, ma non mancano importanti segnali nel sistema che invitano a una certa cautela nell’estensione dell’accesso ai nuovi rapporti verticali. La Carta costituzionale, innanzitutto, riconosce negli artt. 30, 31 e 37 la duplicità e la distinzione di ruoli tra vincolo di paternità e di maternità e al contempo la recente l. 8 febbr. 2006 n. 54 afferma l’interesse primario del minore a preservare il più possibile la doppia figura genitoriale finanche nella crisi della coppia. Al di là, dunque, di possibili considerazioni di ordine psicologico e culturale, le linee guida del nostro sistema non paiono propendere per un’estensione dell’adozione piena alle persone singole e alle coppie omosessuali. Né vale invocare tale soluzione come alternativa preferibile a quella del ricovero in istituto, poiché l’adozione non serve a fornire un sostegno temporaneo al minore, ma è finalizzata a ripristinare l’equilibrio di una nuova famiglia sulla base di una pregressa situazione patologica. E proprio in quanto si devono sanare le ferite del passato è necessario, rispetto al desiderio e all’autodeterminazione dell’adulto, garantire il più possibile quell’interesse prioritario del minore che la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclama all’art. 24 come essenziale e inviolabile.
Recenti tendenze evolutive
In una partizione delle relazioni familiari tra un piano orizzontale e uno verticale – certo rispondente a uno schematismo rigido e semplicistico, ma efficace sul piano descrittivo – le spinte maggiormente problematiche, come è emerso nel precedente paragrafo, si concentrano intorno al primo segmento di questa ideale figura.
I rapporti che si dispongono sulla seconda traiettoria, più pianamente organizzati nel solco della naturalità del legame sottostante, sono tuttavia attraversati da tendenze evolutive nettamente percettibili. Il profilo formale dello status filiationis – apparentemente meno permeabile al cambiamento per lo stringente condizionamento che su di esso esercita la realtà naturalistica – è investito da significativi sviluppi. La disciplina del vincolo sostanziale, giuridicamente stabilito, tra genitori e figli ha subito le trasformazioni più radicali con il passaggio dall’impostazione gerarchica della vita familiare alla valorizzazione della dimensione comunitaria e solidaristica. Le novità legislative che pure caratterizzano questo ambito, specie nel momento della crisi della coppia, assecondano tale processo e lo portano a ulteriore compimento, mutuando istanze di riforma dalla prassi concreta e impartendo alla medesima, al contempo, uno svolgimento conforme alle acquisizioni degli studi antropologici e pedagogici.
Rispetto al primo versante dell’analisi, è da saggiare anzitutto la resistenza della distinzione tradizionale tra le due forme di filiazione, legittima e naturale. Una volta raggiunta un’equiparazione quasi completa a livello di conseguenze giuridiche (con l’eccezione, di non modesto peso, della disciplina della parentela naturale), il mantenimento di una diversa qualificazione del rapporto a seconda che sia insorto all’interno o al di fuori del matrimonio, sembra un anacronismo nella realtà odierna. In alcuni ordinamenti europei – segnatamente in Francia con l’ordonnance n. 2005-759 del 4 luglio 2005 e in Germania con la Kindschaftsrechtsreform del 1998 – sono state promosse riforme che hanno condotto all’unificazione degli status e alla collocazione del rapporto di filiazione in una categoria unitaria. Un’iniziativa simile è stata perseguita nella scorsa legislatura con il disegno di legge delega n. 2514 sullo status giuridico dei figli, senza pervenire a una modifica legislativa, ma offrendo un chiaro segno della volontà politica di abbandonare il sistema che discrimina, sia pure quasi soltanto sul piano della qualificazione, tra classi di figli. Ancora a livello della veste formale del rapporto, espressione della pervasività e, a un tempo, dello stadio incompiuto di attuazione del principio di uguaglianza all’interno delle relazioni familiari, è il dibattito intorno alla disciplina giuridica del cognome. Come già in altri Paesi anche per il sistema italiano, rimasto finora ancorato alla regola consuetudinaria – o desumibile implicitamente dal sistema – che attribuisce al figlio il cognome paterno, si prospetta un’evoluzione attinta direttamente tramite il procedimento interpretativo, secondo una tesi proposta in giurisprudenza (Cass. ord., 22 sett. 2008 n. 23934) o, più probabilmente, in virtù di una riforma legislativa, dopo che si è dissolta più volte l’occasione per intervenire con una pronuncia di illegittimità costituzionale. Spingono in tale direzione, oltre all’aspirazione verso il superamento di regole intrise di concezioni proprie del passato nel segno del riconoscimento della piena parità tra uomo e donna, la diffusa consonanza in ambito europeo su un regime di determinazione del nome familiare alternativamente basato sull’accordo tra i genitori o sulla trasmissione alla discendenza di entrambi i cognomi. La presenza di un panorama giuridico piuttosto omogeneo all’interno dell’ordinamento comunitario ha permesso altresì che la regola sul doppio cognome transitasse in questo contesto, a discapito della disciplina di segno opposto, attraverso la misurata applicazione, in due recenti decisioni della Corte di giustizia, rispettivamente del principio di non discriminazione (2 ott. 2003, C-148/02, Garcia Avello vs Belgio), esteso oltre i margini di competenza del diritto dell’Unione, e del sindacato sulle limitazioni poste alla libertà di circolazione delle persone (14 ott. 2008, C-353/06).
La materia dell’accertamento degli status di figlio legittimo e di figlio naturale, ancorata a presupposti stringenti e presidiata da accorgimenti contro iniziative pretestuose, dopo l’affermarsi di regole decisamente ispirate al favor veritatis con la riforma del diritto di famiglia, ha subito negli ultimi anni sensibili cambiamenti miranti a ricomporre ancora più strettamente la corrispondenza tra realtà biologica del vincolo di filiazione e veste giuridica del rapporto. Rispetto a questi sviluppi un ruolo determinante hanno svolto le acquisizioni scientifiche che consentono di stabilire con certezza l’esistenza di un legame di sangue e la parallela diffusione di indagini volte ad assumere tale conoscenza. La relativa facilità con cui vi si può accedere, al di fuori dei limiti rigidi di ammissione delle prove ematologiche e genetiche in ambito processuale, ha condotto, in un rapido interscambio tra prassi sociale e valutazione giuridica (invero denso di potenziali effetti problematici), ad adeguare le regole di accertamento degli status depurandole da vincoli di carattere formale. È in questa chiave che possono essere lette le pronunce con cui la Corte costituzionale ha dapprima rimosso la fase preliminare di controllo dell’ammissibilità dell’azione diretta alla dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità (corte cost., 10 febbr. 2006 n. 50) ed è poi intervenuta sui presupposti per l’esercizio dell’azione di disconoscimento, consentendo di accedere direttamente alle prove scientifiche (corte cost., 6 luglio 2006 n. 266). Più articolato il senso della decisione con cui si è ammesso l’accertamento della filiazione incestuosa (corte cost., 28 nov. 2002 n. 494), rispetto alla quale sembrano giocare non solamente la tensione verso la corrispondenza tra realtà sostanziale e piano formale, ma, soprattutto, l’urgenza di abolire una delle discriminazioni più pesanti per i suoi effetti e la sua carica simbolica a danno di soggetti incolpevoli.
A una matrice non estranea al principio di verità nella filiazione deve essere ricondotta anche la disciplina, introdotta nel corpo della riforma della legge sull’adozione, che regola l’accesso alle informazioni sulle proprie origini (art. 28, l. 4 maggio 1983 n. 184, come modificato dalla l. 28 marzo 2001 n. 149), benché essa presenti una ratio più complessa: alla tutela dell’identità nelle relazioni familiari si combina infatti il superamento della logica del segreto di cui l’istituto dell’adozione era permeato, nel segno di una finzione giuridica che il legislatore avverte di non dover più assecondare.
Persiste invece, in continuità con l’omologo istituto francese dell’accouchement sous X, la regola che consente alla madre di chiedere di non essere nominata nell’atto di nascita (essa è esplicitata nell’art. 30 del d.p.r. 3 nov. 2000 n. 396 sull’ordinamento di stato civile), cosicché nessun rapporto giuridico può instaurarsi tra la partoriente e il figlio. La norma, pur finendo per contraddire apertamente la tendenza all’attribuzione degli status secondo verità, trova giustificazione nella realtà attuale poiché non è ispirata alla prevalenza della pura libertà della donna sull’interesse del figlio alla conoscenza delle proprie origini, bensì la coniuga con l’obiettivo di proteggere la salute della madre e la vita del nascituro. Nondimeno, letture recenti della disposizione mirano a restituirle un significato espressivo del principio di verità e a renderla, a un tempo, compatibile con il concetto di responsabilità per la procreazione quale altra istanza, non necessariamente contrapposta alla prima, che pervade il diritto della filiazione (Renda 2008).
Al capitolo dell’incidenza dell’innovazione scientifica e tecnologica sulle relazioni familiari deve essere ascritta anche la dinamica della procreazione assistita. Nella sistemazione dei rapporti di filiazione discendenti dall’applicazione delle tecniche artificiali, la relativa disciplina, adottata con la l. 19 febbr. 2004 n. 40, conferma alcune delle linee di tendenza evidenziate: per un verso, ammettendovi le coppie non coniugate (art. 5) e regolando di conseguenza l’attribuzione dello status di figlio (art. 8), si pone in continuità con gli sviluppi normativi che attribuiscono effetti, prevalentemente di ordine personale, ai rapporti di convivenza non basati sul matrimonio. Per un altro verso, con il divieto di fecondazione eterologa (art. 4, 3° co.) esprime l’orientamento incline ad assecondare la formazione di legami familiari soltanto qualora rispondenti alla realtà biologica della generazione. Questa stessa regola, tuttavia, non consente di desumere un atteggiamento di disimpegno dell’ordinamento verso un principio di responsabilità, operante in ambito giusfamiliare a sostanziare il rilievo della volontà accanto a quello della verità nella filiazione. Proprio l’esigenza di contrastare atteggiamenti opportunistici contrari a correttezza permette infatti di giustificare razionalmente le norme che, pur a prezzo di incongruenze di ordine tecnico, saldano in maniera irreversibile lo stato del figlio all’impegno assunto al momento della richiesta di applicazione delle tecniche. Il riferimento, in particolare, è al divieto di disconoscimento della paternità e di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità a opera del padre (art. 9, 1° co.), alla negazione di ogni vincolo giuridico tra il nato e il donatore di gameti (3° co.) e al divieto di anonimato della donna partoriente (2° co.).
La disciplina del rapporto giuridico tra genitori e figli ha conosciuto mutamenti strutturali con la riforma del 1975 e il passaggio dalla concezione autoritaria e verticistica della compagine familiare a quella basata sulla valorizzazione della personalità individuale dei suoi membri e sul riconoscimento della loro posizione di effettiva parità. Gli svolgimenti successivi non disegnano una fisionomia della relazione radicalmente nuova, ma attuano in alcuni ambiti specifici la linea di ispirazione consegnata dalla riforma, perfezionandone il tratto caratterizzante della protezione intensa dei figli anche tramite la diretta ascrizione di diritti nei loro confronti. In quest’ottica ‘puerocentrica’ si pone la novella della legge sull’adozione (l. 28 marzo 2001 n. 149) che si apre con il riconoscimento di una posizione giuridica soggettiva quale il «diritto del minore alla propria famiglia», ulteriormente precisata nel «diritto di crescere ed essere educato» nell’ambito della medesima. Qualora quest’ultima non sia in grado di assolvere adeguatamente ai suoi compiti, subentrano gli istituti, come l’adozione, volti ad assicurare «il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia», anche diversa da quella di origine.
Nel contesto della patologia delle relazioni familiari, la disciplina del rapporto con i figli (introdotta con la l. 8 febbr. 2006 n. 54) recupera in guisa di sintesi alcuni dei connotati, in via di emersione o ormai ben distinguibili, del diritto della famiglia attuale: conferma, per es., l’attitudine a uniformare il trattamento giuridico dei figli nati fuori o dentro il matrimonio, essendo diretta a regolare anche la crisi delle coppie non sposate (art. 4, 2° co.); assegna maggiore pregnanza, quale criterio ordinante della vita del gruppo familiare, alla dimensione dell’accordo tra i suoi membri, ancorché non siano tuttora certi né l’ambito di estensione dell’autonomia privata, in presenza di interessi di tipo pubblicistico, né l’ampiezza del potere del giudice di sindacare ed eventualmente di disattendere l’intesa raggiunta. Soprattutto, a fronte di una maggiore fluidità nella regola delle relazioni familiari di tipo orizzontale, la linea di continuità più marcata si esprime nella stabilità assicurata ai rapporti di tipo verticale, estesa fino a includere quelli con gli ascendenti.
La prima tendenza è attestata, tra l’altro, dai sempre maggiori riconoscimenti ottenuti dalle unioni non formalizzate; dalla propensione giurisprudenziale a interpretare in senso soggettivo il requisito dell’intollerabilità della convivenza quale presupposto della separazione personale (Cass., 9 ott. 2007 n. 21099) e a negare il mutamento del titolo per comportamenti in violazione dei doveri coniugali posti in essere dopo la pronuncia; infine dalle proposte di modifica della disciplina del divorzio tendenti a facilitare la dissoluzione del vincolo coniugale, sulla scorta di riforme realizzate altrove (per es., abbreviando il lasso di tempo che deve intercorrere tra la formalizzazione della crisi e la domanda di scioglimento del matrimonio). Viceversa, il senso della recente normativa sull’affidamento condiviso, al di là di mutamenti puramente formali e di innovazioni nominalistiche – in particolare, l’inversione dell’ordine regola-eccezione rispetto all’ipotesi dell’affidamento esclusivo lascia ferma la collocazione fisica preferenziale del minore presso un solo genitore – è nell’accento posto sull’intensità e sulla sostanza qualitativa del legame con i figli, perdurante nonostante il venir meno della comunione di vita tra i genitori, e nella promozione della diretta partecipazione di entrambi alla gestione e all’attuazione concreta del rapporto.
La famiglia nel quadro europeo delle fonti
In apparenza avulso dal processo di armonizzazione comunitaria e dal dibattito sulla dimensione europea delle diverse branche del diritto privato, in una ricognizione rivolta alle evoluzioni più recenti, anche il diritto della famiglia merita di essere considerato sotto questo angolo visuale.
Il riferimento al diritto dei Paesi europei, per un verso, e al diritto comunitario, per un altro verso, risponde anzitutto a un’esigenza metodologica. La comparazione rappresenta un ausilio conoscitivo e interpretativo allorché la circolazione degli istituti interessa anche la materia familiare, ove sovente si riproducono modelli già esplorati altrove; lo testimonia in maniera emblematica il dibattito italiano sulle proposte di regolazione della convivenza more uxorio che si è incentrato, dapprima, sulla figura dei DICO e poi, con riferimento ancora più esplicito, sin dall’intitolazione del progetto, all’esperienza del PACS francese, su quella del CUS (Contratto di Unione Solidale). Alla stessa attenzione al panorama continentale conduce il movimento rivolto all’armonizzazione del diritto europeo della famiglia: benché tale prospettiva non sia pienamente condivisa per un settore così intriso di scelte di valore e di tradizioni culturali, al fine di saggiarne l’opportunità e, prima ancora, di interrogarsi sui modi della sua realizzazione, si osservano le tendenze in atto nella disciplina attuale e nelle linee di riforma di molteplici istituti familiari – dalle diverse forme di unione, al divorzio, alla filiazione legittima e naturale – per verificare la spontanea convergenza verso una regolazione omogenea e gli spazi potenziali per una disciplina comune.
L’attenzione al sistema europeo delle fonti presenta inoltre un rilievo di carattere sostanziale destinato a intensificarsi: il diritto comunitario interviene incidentalmente, in occasioni sempre più numerose, a definire la nozione di familiare nel contesto delle direttive in materia di libera circolazione delle persone, di immigrazione, di ricongiungimento, imponendo tale lettura agli Stati membri negli ambiti di sua competenza. Il volano per queste incursioni indirette nella materia familiare è ancora una volta l’obiettivo dell’integrazione economica, che potrebbe essere ostacolata, nell’esplicarsi delle libertà di movimento, da limitazioni frapposte al pieno svolgimento della vita familiare all’interno del territorio comunitario. Il principio di non discriminazione, a sua volta, costituisce un perno del diritto europeo grazie al quale la Corte di giustizia ha potuto sindacare la legittimità di trattamenti giuridici non uniformi anche in relazione a diritti e facoltà legati agli status familiari.
La coesistenza di una pluralità di modelli familiari in sistemi giuridici territorialmente contigui, d’altra parte, favorisce la circolazione delle persone alla ricerca di opportunità di realizzazione di attività non consentite nel Paese di origine, secondo quanto si verifica nel campo della procreazione assistita, ovvero di un riconoscimento giuridico, come avviene per le unioni di fatto che aspirano a una sanzione formale.
Guardando a tale ampia realtà sociale, variegata per cultura e tradizioni, nonché segnata in maniera crescente dalla componente multietnica, e al quadro giuridico complesso e stratificato sul piano delle fonti che vi corrisponde, si ottiene della famiglia un’immagine sfuocata e frammentaria. La sintesi richiesta da questo affresco generalissimo porta a sottolineare come dato caratterizzante la contrapposizione tra la pluralità e la natura multiforme delle aggregazioni familiari conosciute e regolate nei diversi Paesi europei e la visione unitaria della famiglia, ancorata al modello tradizionale, per il momento presente nelle fonti comunitarie. Anche questo secondo panorama è destinato tuttavia a scomporsi in due scenari distinti: un primo, offerto dalla legislazione europea derivata, che si connota per una nozione di famiglia basata sul legame di coniugio tra un uomo e una donna, con aperture limitate a vincoli di altro tipo ma pur sempre formalizzati; un secondo, tramandato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che sostiene, sia pure in modo molto misurato, le trasformazioni in atto su questo versante concettuale negli ordinamenti degli Stati membri e trova ora un potenziale avallo sul piano costituzionale.
Nella recente direttiva sulla libertà di movimento (2004/38/CE del 29 apr. 2004), la definizione di famiglia rimane confinata alla coppia coniugata e ai figli minori; al partner di un’unione registrata sono riconosciuti i medesimi diritti del coniuge solamente se lo Stato membro ospitante garantisce a tale forma di legame un regime giuridico equivalente a quello del matrimonio (art. 2, 2° co.), come accade piuttosto raramente. La proposta del Parlamento, emersa nel corso della procedura di approvazione del testo, di attribuire rilievo al trattamento di cui queste unioni godono nel Paese di provenienza è infatti stata respinta, in linea con il prudente atteggiamento rivolto a forme di armonizzazione surrettizia o di condizionamento delle scelte legislative degli Stati membri in ambiti estranei alla competenza comunitaria. Per quanto concerne le unioni di fatto, la direttiva impone allo Stato unicamente di facilitare l’ingresso e la permanenza del partner con cui il cittadino comunitario abbia instaurato una relazione stabile e debitamente provata (art. 3, 2° co.), richiedendo con ciò un’indagine assai penetrante, in assenza di vincoli formali, sulla natura della relazione medesima.
La Corte di giustizia, muovendo direttamente dalle previsioni del Trattato sull’Unione Europea in merito alle libertà di circolazione economiche e al divieto frapposto alle relative restrizioni, nonché attraverso un’interpretazione estesa del principio di non discriminazione e del concetto sempre più pervasivo di cittadinanza europea per gli individui inattivi, ha ampliato il novero dei soggetti protetti in ragione dell’appartenenza al gruppo familiare, rivisitando la nozione di famiglia consegnata dalla tradizione. In risposta a una questione pregiudiziale proposta da una corte tedesca, concernente l’interpretazione della direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, la Corte di giustizia, avvalendosi del divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, ha posto le premesse per l’equiparazione al coniuge del partner omosessuale di un’unione solidale registrata – stipulata ai sensi del Lebenspartnerschaftsgesetz del 16 febbr. 2001 – ai fini del riconoscimento della prestazione economica dovuta ai superstiti (1 aprile 2008, C-267/06). Benché la ricostruzione della disparità di trattamento operata dalla legislazione interna come una forma di discriminazione diretta presupponga la valutazione preliminare, riservata al giudice nazionale, che l’unione solidale pone le persone dello stesso sesso in una posizione analoga a quella dei coniugi, la decisione appare un superamento del precedente in cui, interpretando lo Statuto dei funzionari della Comunità, si era senz’altro rifiutato di equiparare al coniuge il partner di un’unione registrata in Svezia (Corte giust. CE, 31 maggio 2001, D e Svezia vs Consiglio, C-122/99 e C-125/99). Tale esito era stato sostenuto dalla rilevazione di grandi differenze nelle legislazioni nazionali in merito allo statuto giuridico delle unioni tra persone dello stesso sesso, che impediva un’equiparazione al rapporto di coniugio attuata sul piano meramente interpretativo. Sintomatico del rispetto da parte delle istituzioni comunitarie verso le prassi sociali e le corrispondenti forme di regolazione giuridica che non hanno una diffusione maggioritaria presso gli Stati membri, questo atteggiamento evidenzia la soggezione all’obiettivo mutamento di tale assetto e reca dunque una dimensione evolutiva finora soltanto abbozzata.
Lo sfruttamento consapevole della diversità di discipline vigenti in ordinamenti contigui e, soprattutto, le ricadute pratiche dei correnti fenomeni migratori anche intracomunitari portano a interrogarsi sulla possibilità di vedere costantemente riconosciuto nei successivi spostamenti lo status familiare conseguito secondo le regole proprie di un singolo Paese. Dirimere i conflitti originati dai distinti modi di intenderne i relativi presupposti compete altresì al diritto internazionale privato, nelle cui dinamiche svolge un ruolo essenziale il limite dell’ordine pubblico con cui la pretesa alla continuità dello status familiare deve misurarsi. Anche in questo senso si evidenzia il ruolo centrale che può assumere il formante giurisprudenziale nel giudizio sulla compatibilità di forme di famiglia estranee all’ordinamento interno con i principi qualificanti del settore.
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