FAMIGLIA
di Marzio Barbagli
Nel linguaggio comune italiano, come del resto in quello inglese, famiglia è un sostantivo polisemico usato per indicare una coppia di coniugi e i loro figli, oppure tutti coloro che hanno rapporti di parentela con questi pur non stando insieme a loro, o anche un gruppo patronimico (ad esempio, la famiglia Agnelli). Anche fra gli studiosi di scienze sociali non vi è un pieno accordo nella definizione di famiglia. Quella proposta, quarant'anni fa, da Georges Murdock viene considerata da molti come la più soddisfacente. Secondo questo studioso "la famiglia è un gruppo sociale caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione economica e dalla riproduzione. Essa comprende adulti di tutti e due i sessi, almeno due dei quali mantengono una relazione sessuale socialmente approvata, e uno o più figli, propri o adottati, degli adulti che coabitano sessualmente". Si tratta di una definizione abbastanza ampia e generale, capace di comprendere casi e situazioni molto diversi, e può essere considerata un buon punto di partenza per parlare della famiglia, a condizione però di dare un'interpretazione non troppo rigida del requisito della residenza comune.
Le famiglie si distinguono innanzitutto a seconda del tipo di matrimonio con cui si formano. Viene definita monogamica la famiglia in cui una persona può avere solo un coniuge per volta. È invece chiamata poligamica la famiglia in cui una persona può essere sposata nello stesso momento con due o più altre. Le unioni di cui è formata la famiglia poligamica sono dei matrimoni veri e propri, contemporanei, e implicano di solito la convivenza e la cooperazione economica. Esse non hanno nulla a che fare con le varie forme di concubinaggio e di cicisbeismo esistenti nelle società che ammettono solo la monogamia.In linea di principio vi sono tre diversi tipi di famiglia poligamica: poliginica, quando un uomo è sposato con più donne; poliandrica, quando una donna è coniugata con più uomini; basata sul matrimonio di gruppo, quando alcuni uomini sono sposati con varie donne, senza peraltro formare delle coppie. Nella realtà, tuttavia, di questo terzo tipo si conoscono solo alcuni casi eccezionali esistiti in poche tribù, mentre, per quel che se ne sa, non vi è mai stata alcuna società che abbia considerato il matrimonio di gruppo come l'unione coniugale preferita. I dati raccolti pazientemente dagli antropologi, negli ultimi decenni, su quasi 900 società umane (tab. I) mostrano che un'esigua parte di queste (circa il 16%) permette solo la famiglia monogamica, che la stragrande maggioranza (l'82%) incoraggia gli uomini a tenere più mogli, e infine che meno dell'1% di esse ha come ideale la poliandria.
La famiglia poliginica può assumere forme assai diverse, anzitutto per il diverso modo con cui si cerca di superare le tensioni e i conflitti potenziali fra le varie mogli. Un uomo può vivere nella stessa abitazione con le sue mogli oppure queste possono stare ciascuna in un'abitazione diversa. Il primo sistema è seguito, ad esempio, da alcune tribù delle foreste della Bolivia orientale, dove ciascuna moglie ha un'amaca all'interno della stessa dimora. La posizione delle amache rispecchia, tuttavia, la gerarchia esistente fra le donne: così, l'amaca della prima moglie è alla destra dell'uomo, quella della seconda alla sua sinistra, quella della terza dietro la sua testa, ecc. Il secondo sistema è diffuso in molte tribù africane. Qui, all'interno di un recinto, vi è una capanna per ciascuna moglie, dove essa tiene il necessario per cucinare e alleva i propri figli. Vi sono vari modi per ridurre le gelosie e i conflitti fra le mogli, ma uno dei più usati è il sistema dei turni, la cui periodicità varia a seconda delle zone e delle famiglie. Le donne si alternano nel dormire con il marito e nel preparargli il cibo. L'aspettativa da tutti condivisa è che i turni siano rigorosamente rispettati, tanto che se un uomo ha dei rapporti sessuali con una moglie che non è di turno lui è considerato come un adultero, lei è chiamata 'ladra di notti' e, se ne nasce un figlio, questi viene definito 'bastardo' (v. Fainzang e Journet, 1989).
Un tipo particolare di famiglia poliginica che riduce le tensioni esistenti è quella sororale, che si ha quando tutte le mogli di un uomo sono sorelle. Queste infatti apprendono in genere a convivere nell'infanzia, nella casa dei genitori, e portano con loro l'abitudine ad andare relativamente d'accordo anche nella casa del marito. Secondo i dati raccolti dagli antropologi su molte centinaia di società umane (v. White, 1988) la poliginia sororale è molto diffusa. Questi dati mettono anche in luce che le mogli tendono a vivere nella stessa abitazione se sono sorelle, e a occupare invece delle abitazioni separate se non sono parenti.
La natura e le funzioni della famiglia poliginica variano anche a seconda della maggiore o minore diffusione che essa ha avuto, e ha ancora oggi, nelle varie parti del mondo e nei vari gruppi sociali. Per quanto ne sappiamo, in passato famiglie di questo tipo sono esistite un po' dovunque: nell'America settentrionale e in quella meridionale, in Africa e in Asia. Tuttavia, dal punto di vista quantitativo, la loro importanza è stata molto diversa a seconda delle zone. Sappiamo ad esempio che l'Islam autorizza l'uomo ad avere quattro mogli legittime, ma nei paesi arabi, negli anni cinquanta del nostro secolo, solo il 4 o 5% degli uomini sposati avevano più di una moglie (v. Goody, 1973; v. Goode, 1963). In Egitto, in Tunisia o in Marocco, ad avere più mogli erano gli uomini più ricchi. Quelli più poveri, che lo desiderassero o meno, seguivano invece il sistema monogamico. Anche in passato, per quanto ne sappiamo, la famiglia poliginica non è mai stata molto diffusa nei paesi arabi (v. Fargues, 1986).
Completamente diversa è la situazione dei paesi dell'Africa Nera o a sud del Sahara. Qui la famiglia poliginica è ancor oggi straordinariamente diffusa. Dati attendibili ci dicono che, a seconda dei vari paesi, la quota degli uomini sposati che ha più di una moglie va dal 12 al 38% del totale (v. Goldman e Pebley, 1989). La percentuale di persone che vivono in una famiglia poliginica varia tuttavia a seconda della fase del ciclo di vita. Nella Sierra Leone, ad esempio, la quota di uomini che hanno più mogli è di circa il 25% al di sotto dei 30 anni, sale al 35% fra i 30 e i 39 anni e si avvicina al 50% una volta superati i 40 anni (v. Dorjahn, 1988). Tenuto conto di questo, si calcola che, in molti di questi paesi, la grande maggioranza della popolazione passi almeno alcuni anni della propria esistenza in famiglie di questo tipo.
Osservatori e studiosi hanno fornito due diverse spiegazioni del perché una quota così alta di mariti abbia più mogli nonostante che, al momento della nascita, il numero dei maschi e quello delle femmine sia all'incirca lo stesso. La prima è che una parte delle donne verrebbe presa dalle popolazioni vicine. La seconda è che una parte degli uomini non si sposerebbe, il che permetterebbe agli altri di avere più di una moglie. Ma nessuna di queste spiegazioni si è dimostrata soddisfacente. La prima non può servirci a capire cosa avviene quando la poliginia è diffusa su una vasta area geografica (come accade appunto nell'Africa Nera). Quanto alla seconda, si è osservato che il celibato è molto più diffuso nelle società monogamiche che in quelle poliginiche.
Una spiegazione più soddisfacente è emersa da alcune recenti ricerche demografiche (v. Pison, 1986; v. Goldman e Pebley, 1989). Queste hanno messo in luce che nelle popolazioni nelle quali la poliginia è molto diffusa vi è un numero di donne coniugate molto maggiore di quello degli uomini nella stessa condizione. Ciò non dipende però dall'alto celibato definitivo dei maschi, perché anzi la quota degli uomini che a 50 anni non sono ancora coniugati è di solito molto esigua. Dipende invece dalla forte differenza di età al matrimonio (dieci anni o più) esistente fra uomini e donne. Queste ultime si sposano di solito giovanissime (in media verso i 15 anni), mentre i primi lo fanno molto più tardi (in media a 25). Ciò fa sì, ad esempio, che nella classe di età da 20 a 29 anni tutte le donne siano coniugate, mentre gli uomini in questa condizione sono solo la metà. Un'altra importante caratteristica di questa popolazione, che permette la diffusione della poliginia, è che tutte le donne che restano vedove o che divorziano si risposano e lo fanno entro brevissimo tempo dalla rottura del matrimonio.
Queste regole di formazione della famiglia poliginica influiscono anche sul livello di fecondità. Poiché le donne si sposano in giovanissima età e poiché in caso di rottura del matrimonio passano rapidamente a nuove nozze, è evidente che esse restano coniugate per un lungo periodo di tempo (molto più a lungo delle donne delle società monogamiche) e che questo favorisce la fecondità.
Più difficile è individuare le condizioni che favoriscono la diffusione della famiglia poliginica. Ma anche a questo proposito vi sono delle ipotesi esplicative convincenti che hanno trovato conferma nei risultati delle ricerche finora svolte (v. Boserup, 1970; v. Goody, 1976; v. Lesthaeghe, 1989). Secondo queste ipotesi la prevalenza della poliginia invece della monogamia dipende dal tipo di sistema agricolo esistente e dalla sua produttività, dalle forme di divisione del lavoro e in particolar modo dalla quantità di lavoro agricolo svolto dalle donne e dagli uomini, dalla proprietà collettiva o privata della terra, dal modo in cui questa proprietà viene trasmessa da una generazione all'altra.
La monogamia prevale in Europa e in Asia, dove domina l'agricoltura dell'aratro, il lavoro agricolo è svolto in misura prevalente dagli uomini, la terra è un bene tendenzialmente scarso e di proprietà privata e si ha il cosiddetto regime di 'devoluzione divergente': la proprietà viene trasmessa non solo ai figli maschi, ma anche alle figlie. Queste ultime possono riceverla, oltre che alla morte del padre, anche al momento del loro matrimonio, sotto forma di dote. La dote può essere diretta, quando viene data alla figlia, o invece indiretta, quando viene donata dal marito alla sposa o dal padre del marito al padre della sposa, a favore di questa. In ogni caso la funzione della dote è di proteggere la posizione sociale della sposa, di far sì che il matrimonio non provochi il peggioramento della sua condizione sociale ed economica. Per questo nelle società di questo tipo si ha anche una tendenza all'endogamia (il matrimonio fra parenti), all'omogamia (il matrimonio fra persone appartenenti alla stessa classe o casta) e si preferisce l'ipergamia (il matrimonio con una persona di classe sociale più elevata). Le relazioni sessuali prematrimoniali sono di conseguenza proibite.
La poligamia prevale invece in Africa, dove domina la coltura itinerante e l'agricoltura della zappa, il lavoro agricolo è svolto prevalentemente dalle donne, la terra è di solito abbondante ed è di proprietà non dei singoli ma della collettività (la tribù), e si ha il regime di 'eredità omogenea', secondo il quale la proprietà maschile passa agli uomini dello stesso clan e quella femminile alle donne. Non si fa uso della dote, ma il momento del matrimonio è segnato dal trasferimento di oggetti materiali (che gli antropologi chiamano 'ricchezza della sposa') dai parenti del marito a quelli della moglie (e non a quest'ultima). Mancando un sistema di stratificazione sociale basato sulla proprietà privata della terra, il matrimonio non è dominato dalla paura di mésalliances e, di conseguenza, le relazioni sessuali e i concepimenti prima delle nozze sono molto più frequenti. In questa situazione gli uomini hanno prima di tutto un interesse economico a formare una famiglia poliginica, perché quante più mogli essi hanno tanto maggiore è la terra di cui possono disporre. In un sistema itinerante, dove la coltivazione delle piante alimentari spetta alle donne, mentre l'abbattimento degli alberi per preparare nuovi appezzamenti di terra è compito dei giovani, l'uomo di una famiglia poliginica riesce a produrre molto di più di quello che ha una sola moglie. D'altra parte, dovendo le mogli dedicarsi sia alla coltivazione che ai lavori domestici, possono vedere di buon occhio l'arrivo di un'altra moglie, perché sperano di poter ridurre il proprio carico di lavoro.
Anche la famiglia poliandrica può assumere forme assai diverse: stando agli studi finora condotti (v. Levine e Sangree, 1980; v. Levine, 1988), le più importanti sembrano tre. Vi è innanzitutto la famiglia poliandrica fraterna o adelfica, esistente nel Tibet e fra i Toda dell'India, che si forma quando una donna sposa nello stesso momento due o più fratelli e va a vivere con loro. Dopo il matrimonio questi fratelli vivono in condizioni di parità, senza provare sentimenti di gelosia sessuale.
Vi è in secondo luogo la famiglia poliandrica associata, esistente a Ceylon, che si forma quando una donna sposa due (e raramente più di due) uomini che non sono necessariamente fratelli. Il matrimonio con questi uomini inoltre non avviene nello stesso momento. Di solito la donna sposa dapprima un uomo, come se seguisse il sistema monogamico, e solo dopo un po' di tempo si unisce anche al secondo. Il modo in cui tale famiglia si forma ha delle conseguenze anche sulle relazioni interne fra la moglie e i suoi mariti: questi non vivono in condizione di parità, ma di solito il primo gode di una maggiore autorità.
Vi è in terzo luogo la famiglia poliandrica che nasce da matrimoni secondari, esistente nella Nigeria e nel Camerun settentrionali. In questo caso una donna, dopo aver sposato un uomo e aver vissuto con lui, ne sposa un secondo e va ad abitare con questo senza che il precedente vincolo coniugale venga meno. Così, nonostante che la donna non viva contemporaneamente con tutti i suoi mariti, essa è sposata con loro e questi matrimoni durano per tutta la vita.A differenza di quanto pensano molti osservatori occidentali, la famiglia poliandrica non fa sorgere alcun problema nello stabilire la paternità dei figli di una donna sposata con più uomini. Vale, in questo caso, la distinzione fra il padre sociale (pater) e quello biologico (genitor). E quello che conta nello stabilire a quale gruppo di parentela appartengono i figli è il primo, il padre sociale, che è di solito il primo marito o il marito più anziano della madre.
Scarse sono invece ancora le nostre conoscenze sulle condizioni che favoriscono la poliandria. Gli studi finora condotti (v. Levine e Sangree, 1980; v. Levine, 1988; v. Cassidy e Lee, 1989) fanno tuttavia pensare che la famiglia poliandrica sia resa possibile da ambienti che consentono solo una bassa produttività, in cui la densità della popolazione è scarsissima e il ruolo delle donne nell'attività produttiva è molto limitato. La famiglia poliandrica è la più adatta a questi ambienti perché è composta da una pluralità di uomini che svolgono un'attività produttiva e al contempo è in grado di ridurre la fecondità e dunque lo sviluppo demografico, perché il numero dei figli che una donna può avere non dipende dal numero dei suoi mariti.
Nella letteratura scientifica vi è una notevole imprecisione terminologica e una certa confusione concettuale riguardo ai tipi di famiglia monogamica esistiti nelle varie società umane. Per cercare di far chiarezza conviene partire dalla definizione delle regole di residenza dopo le nozze.
Quando due persone si sposano, almeno una di loro deve lasciare la famiglia d'origine, ma le diverse società (e talvolta i diversi gruppi o strati in cui queste si articolano) hanno norme diverse riguardo alle persone con le quali gli sposi devono andare a vivere. Si ha la regola della residenza matrilocale quando il marito va ad abitare con i genitori della moglie, mentre si ha quella patrilocale quando è la seconda che si trasferisce nella famiglia del primo. La regola di residenza è bilocale quando i due coniugi possono scegliere se andare ad abitare con i genitori di lui o con quelli di lei e duolocale se essi vivono separati. Se ci si attende che i due coniugi risiedano con la famiglia dello zio materno del marito si ha la situazione avunculocale. Se infine si preferisce che marito e moglie mettano su casa per proprio conto, allora si ha la regola della residenza neolocale.
I dati di cui disponiamo mostrano (tab. II) che al momento del censimento quasi il 70% delle società umane conosciute preferiva la regola patrilocale, il 13% quella matrilocale e solo il 5% quella regola neolocale che domina oggi nei paesi occidentali.
La regola neolocale dà origine alla formazione della famiglia nucleare, costituita dai due coniugi e dai loro figli. Invece quelle patri- e matrilocale alle famiglie multiple, fatte di almeno due unità coniugali (un tempo chiamate, da molti studiosi, 'estese', un termine che si preferisce ora riservare a un altro tipo di famiglia di cui parleremo).
Si possono tuttavia distinguere diversi tipi di famiglia multipla a seconda del legame esistente fra le unità coniugali che la compongono. Vi è anzitutto la famiglia multipla verticale, che è quella nella quale le persone delle due unità coniugali appartengono a due diverse generazioni. Si tratta, a ben vedere, di quella che nel secolo scorso Frédéric Le Play chiamava famille souche, famiglia ceppo, e che si forma quando, dopo le nozze, solo uno dei figli maschi porta la moglie in casa, mentre tutti gli altri, e le figlie, escono di casa (o, se vi restano, devono rinunciare al matrimonio). È un tipo di famiglia che secondo le ricerche più recenti di demografia storica non è mai esistita in Inghilterra o in altre zone dell'Europa settentrionale, ma che era abbastanza diffusa fra i contadini proprietari della Francia o della Germania meridionale, dell'Italia settentrionale o del Giappone (v. Laslett, 1972; v. Barbagli, 1987; v. Cornell, 1987).
Vi è in secondo luogo la famiglia multipla orizzontale, che è quella nella quale le persone delle unità coniugali (che in questo caso possono essere più di due) appartengono alla stessa generazione. È la famiglia che si forma quando più fratelli convivono sotto lo stesso tetto con le loro mogli e i loro figli (e che è chiamata anche frérèche).
Ma in genere la famiglia multipla orizzontale nasce, dopo la morte dei genitori, da quella che è al contempo orizzontale e verticale o - come viene anche chiamata - congiunta, cioè quella che si forma quando tutte le figlie che si sposano lasciano la casa, mentre tutti i figli vi portano la moglie. Questa famiglia congiunta era un tempo molto frequente fra i mezzadri e gli altri strati agricoli appoderati dell'Italia centrosettentrionale, della ex Iugoslavia, della Russia o della Cina (v. Barbagli, 1984; v. Czap, 1982; v. Wolf, 1984).
Tutte queste famiglie multiple erano di solito, sia in Europa che in Asia, molto più spesso patrilocali che matrilocali. Tuttavia recenti ricerche hanno messo in luce che in certe società nelle quali veniva culturalmente preferita la regola di residenza patrilocale si seguiva, in determinati casi, quella matrilocale. Questo avveniva ad esempio in Cina, dove talvolta lo sposo andava a vivere dopo le nozze a casa della sposa, rinunciando in certi casi persino al suo cognome. Ciò poteva verificarsi quando lo sposo era molto povero e i genitori della sposa, non avendo figli maschi, volevano continuare tramite il genero la linea di discendenza della loro famiglia, oppure quando essi avevano particolarmente bisogno di forza lavoro aggiuntiva (v. Wolf e Huang, 1980).
Del tutto diversa da quella multipla è la famiglia estesa, costituita dal nucleo dei due coniugi, con o senza i loro figli, e da uno o due parenti aggiunti, quando questi non costituiscono un'unità coniugale.
A seconda del rapporto esistente fra il capofamiglia e il parente aggiunto, si parla di estensione verticale (quando ad esempio è la madre) o orizzontale (quando invece è il fratello). Ma è evidente che questo tipo di famiglia si forma spesso quando si segue la regola di residenza neolocale. Per semplicità molti studiosi parlano di famiglie complesse quando considerano insieme quelle estese e quelle multiple.
Sia che ci si riferisca al presente o al passato, ai paesi industrializzati o a quelli in via di sviluppo, non si può adeguatamente analizzare la famiglia se non considerandola come un processo e utilizzando il concetto di ciclo di vita. Ogni famiglia passa infatti attraverso diverse fasi di un ciclo e in questo itinerario cambia sotto molti punti di vista: si modificano la sua dimensione e la sua struttura, il rapporto fra 'bocche' e 'braccia' e più in generale la quantità di risorse economiche che ha a disposizione, i suoi bisogni, le sue possibilità di offrire e di domandare lavoro all'esterno. Ma queste fasi presentano una certa regolarità.
Nei paesi occidentali la prima fase del ciclo va dal matrimonio alla nascita del primo figlio, e in questa fase la famiglia è costituita solo dalla coppia. La seconda fase, dell'allevamento e dell'educazione, va dalla nascita del primo a quella dell'ultimo figlio ed è caratterizzata dall'espansione numerica. Nella terza fase, in cui i figli a poco a poco lasciano la casa, si ha una contrazione delle dimensioni della famiglia. Nella quarta fase, detta del 'nido vuoto', la famiglia si riduce di nuovo alla coppia di origine. Questa fase ha termine con l'estinzione della famiglia, che ha luogo con la morte di entrambi i coniugi.
Numerose ricerche hanno messo in luce che il benessere economico di una famiglia varia considerevolmente a seconda della fase del ciclo di vita. Esso raggiunge il punto più basso nella seconda fase, quando con la nascita dei figli crescono i bisogni. Aumenta di nuovo nella terza fase, man mano che questi iniziano a lavorare e lasciano la casa. Diminuisce ancora verso la fine di questa fase, quando il marito va in pensione.
Il ciclo di vita della famiglia è tuttavia assai diverso a seconda delle società e dei periodi storici. Negli ultimi venticinque anni, nei paesi occidentali, vi sono stati dei cambiamenti nel momento d'inizio e nella durata delle fasi ricordate. In primo luogo, la crescente tendenza a convivere per alcuni anni more uxorio con un partner ha portato a un differimento del matrimonio. In secondo luogo, la forte diminuzione della fecondità, avvicinando le date della nascita del primo e dell'ultimo figlio, ha considerevolmente ridotto la durata della seconda fase. In terzo luogo, l'allungamento della vita media ha fatto aumentare il numero di anni che la famiglia passa nella fase del 'nido vuoto'.
Molto diverso era il ciclo di vita della famiglia nel Settecento e nell'Ottocento, in quelle zone dell'Austria, della Francia meridionale e dell'Italia settentrionale dove era diffusa la piccola proprietà contadina (v. Berkner, 1972). Qui il matrimonio del figlio maschio che ereditava il podere non segnava l'inizio di una nuova famiglia, ma - modificandone la struttura - prolungava la vita di quella dei genitori, che da nucleare diventava a ceppo (o multipla verticale) perché il figlio portava la moglie in casa. Nella seconda fase, quando il padre decedeva, la famiglia diventava estesa. Nella terza, dopo la scomparsa della madre, restava la famiglia nucleare formata dai due sposi più giovani e dai loro figli. All'interno di questa fase si possono ulteriormente distinguere due sottofasi. Una si aveva quando i figli erano piccoli ed era caratterizzata dalla presenza in casa di servi, che costituivano la manodopera sostitutiva dei figli. L'altra si aveva quando questi ultimi crescevano, erano in grado di lavorare e se ne andavano. Il ciclo ricominciava quando le figlie e i figli cadetti uscivano di casa, mentre il primogenito che ereditava il podere si sposava e portava la moglie a stare con i genitori, dando così di nuovo luogo al formarsi di una famiglia ceppo.
Per quanto sia stato finora impiegato solo per la famiglia monogamica, il concetto di ciclo di vita può essere molto utile anche per analizzare le regole di formazione e di trasformazione della famiglia poliginica. Anche questa infatti passa attraverso varie fasi, nel corso delle quali cambiano la sua dimensione e la sua struttura. Spesso anzi essa ha inizio con una fase monogamica (perché un uomo può prendere dapprima una sola moglie), alla quale fanno seguito delle fasi poliginiche.
I risultati di vari ricerche di demografia storica fanno pensare che fra regola di residenza dopo le nozze ed età al matrimonio vi sia una relazione. Basandosi su questi risultati, John Hajnal (v., 1965) ha sostenuto che di solito il matrimonio precoce si aveva nelle società nelle quali vi erano famiglie grandi e complesse, e dunque la giovane coppia poteva essere "incorporata in una unità economica più larga come la famiglia congiunta". Il matrimonio tardivo si aveva invece nelle società nelle quali vigeva la regola di residenza neolocale dopo le nozze e dominava la famiglia nucleare. In questi casi "un uomo doveva rimandare il matrimonio finché non riusciva a procurarsi i mezzi di sostentamento sufficienti a mantenere una famiglia". Se dunque gli uomini si sposavano tardi era perché non potevano permettersi di farlo prima: "dovevano aspettare finché non avevano mezzi di sostentamento, un contadino finché non aveva la terra, un apprendista finché non finiva l'apprendistato". Ma il matrimonio tardivo si aveva anche nelle zone caratterizzate dalla famiglia multipla verticale, o a ceppo, nelle quali la terra passava a un solo erede, che seguiva la regola di residenza neolocale dopo le nozze.
I dati delle ricerche condotte negli ultimi venti anni in vari paesi occidentali ed asiatici hanno portato John Hajnal (v., 1983) a sostenere che nelle società preindustriali vi erano due diversi modi di formazione della famiglia. Il primo, tipico di molti paesi dell'Europa nordoccidentale (i Paesi Scandinavi, le isole britanniche, i Paesi Bassi, la Francia settentrionale, i paesi di lingua tedesca), si basava su tre regole. In primo luogo, sia gli uomini che le donne si sposavano abbastanza tardi - i primi dopo i 26 anni, le seconde dopo i 23 -e inoltre dal 10 al 15% di loro non si sposava mai. In secondo luogo gli sposi mettevano su casa da soli creando una famiglia nucleare. Oppure essi potevano anche andare ad abitare nella casa dei genitori del marito (in una famiglia a ceppo), ma solo se questi si ritiravano dall'attività. In ogni caso, dunque, il marito, appena sposato, diventava capo della nuova famiglia. In terzo luogo, prima delle nozze, un'alta quota di giovani passava alcuni anni fuori casa, a servizio in un'altra famiglia.Il secondo sistema di formazione della famiglia, tipico di tutti gli altri paesi, si basava su regole del tutto diverse. Innanzitutto gli uomini, ma soprattutto le donne, si sposavano abbastanza presto (i primi sotto i 26 anni, le seconde sotto i 21). In secondo luogo la nuova coppia andava a far parte di una famiglia in cui vi era una coppia più anziana. Infine non vi era l'uso del servizio domestico.
Molti dei dati disponibili sembrano dar ragione a Hajnal. È certo, ad esempio, che in India e in Cina si è seguito per un lungo periodo di tempo il secondo sistema di formazione della famiglia. Le persone si sposavano giovanissime, senza andare a servizio, e andavano ad abitare in una famiglia congiunta, molto spesso quella del marito (v. Madan, 1989; v. Lardinois, i contributi del 1986; v. Goody, 1990). Non vi è dubbio che in Inghilterra e in altri paesi dell'Europa nordoccidentale la grande maggioranza della popolazione ha sempre seguito (almeno dal Cinquecento in poi) la regola di residenza neolocale dopo le nozze e si è sempre sposata assai tardi. È altrettanto certo che in questi paesi un'alta quota della popolazione (almeno il 40%) trascorreva una fase della propria vita (dai 14 ai 24 anni) a servizio in altre famiglie (v. Laslett, 1977). E questa 'circolazione delle persone di servizio' fra le famiglie rendeva possibile il matrimonio tardivo, fornendo una funzione ai giovani adulti non sposati e consentendo loro di trovare le risorse necessarie a metter su casa per proprio conto. D'altra parte, l'uso di persone di servizio (garzoni) permetteva alle famiglie agricole nucleari di restare tali e di essere flessibili adattando la quantità di braccia alle esigenze del fondo senza doversi unire ad altri parenti (v. Kussmaul, 1981).
Fuori discussione è anche l'importanza del sistema di formazione della famiglia. Esso influisce anzitutto sulle relazioni interne al mondo domestico, fra coniugi, genitori e figli, suoceri e nuore. A parità di altre condizioni, nelle società nelle quali si segue il secondo sistema le donne sono più svantaggiate. Esse infatti, quando si sposano, entrano molto giovani nella famiglia del marito, dove all'inizio si sentono, e vengono considerate, come delle estranee, e devono adattarsi alla struttura dei ruoli e alla gerarchia che trovano. Quando invece le famiglie si formano con il primo sistema, uomini e donne acquistano molto prima l'indipendenza dalle persone della precedente generazione. In questo caso, nel momento in cui si sposano gli uomini diventano capifamiglia e le loro mogli le prime donne della casa. Invece, nelle famiglie che si formano con il secondo sistema, questo avviene solo molto tempo dopo il matrimonio, quando muoiono i genitori del marito.
Ancora più importanti sono le conseguenze che il sistema di formazione della famiglia ha sulla fecondità e sul controllo dello sviluppo della popolazione. Recenti studi di storia della popolazione (v. Wrigley e Schofield, 1981) hanno mostrato la validità della teoria di Thomas Malthus, secondo la quale, quando la popolazione tende a crescere più rapidamente delle risorse, l'equilibrio fra la prima e le seconde può essere ristabilito con freni o repressivi o preventivi. I primi - la fame, le epidemie, la guerra - provocano un aumento della mortalità e riducono in tal modo la densità della popolazione. Di natura del tutto diversa sono i secondi, che agiscono attraverso variazioni della nuzialità e della fecondità, portando cioè a ritardare o a evitare il matrimonio e a rallentare così la capacità riproduttiva delle persone.
La strada dei freni preventivi viene seguita solo dalle società nelle quali domina il primo sistema di formazione della famiglia. È solo in queste che la nuzialità diventa la variabile cruciale che permette alle condizioni economiche di influire sullo sviluppo demografico. Poiché in queste società ci si aspetta che chi si sposa segua la regola di residenza neolocale, e dunque si procuri i mezzi necessari per metter su casa, è chiaro che quando la situazione economica peggiora e le risorse scarseggiano si tende a rimandare il matrimonio e di conseguenza ad avere meno figli. Quando invece la situazione migliora, i matrimoni avvengono prima e sono più prolifici. Questo meccanismo regolatore manca invece nelle società in cui domina il secondo sistema di formazione della famiglia. È per questo che esse hanno sempre seguito solo la strada dei freni repressivi. Ed è per questo che in queste società, anche in passato, si sono messi al mondo molti più figli che nei paesi dell'Europa nordoccidentale.
Le informazioni di cui disponiamo mostrano tuttavia che lo schema di Hajnal, per quanto efficace e convincente, non basta da solo a descrivere e spiegare i principali sistemi di formazione della famiglia delle società preindustriali e la loro distribuzione geografica. Una vistosa eccezione è costituita dal Giappone, dove, a differenza che in altri paesi asiatici, non si seguiva il secondo sistema di formazione della famiglia. Per la verità, anche in Giappone, come in India o in Cina, si sposavano quasi tutti, però lo facevano più tardi, a un'età media non molto diversa da quella che troviamo in molte zone d'Europa. Così, nel Settecento e nell'Ottocento, mentre in Cina l'età media delle donne al matrimonio non raggiungeva i 17 anni, in Giappone superava di solito i 23 anni (v. Hanley e Wolf, 1985).Diversa era anche la struttura della famiglia. Mentre in Cina e in India dominava la famiglia congiunta, perché vi era il costume che tutti i figli maschi portassero la moglie nella casa dei genitori, in Giappone era molto diffusa la famiglia ceppo, perché l'uso prevalente era che solo uno dei figli restasse in famiglia con la moglie (v. Smith, 1978; v. Long, 1987; v. Cornell, 1987). E poiché gli altri figli se ne dovevano andare, seguendo la regola della residenza neolocale, sull'età in cui si sposavano finivano per influire la situazione economica e la disponibilità di risorse, non diversamente da quanto si verificava in alcuni paesi europei. Pertanto, stando alle ricerche finora condotte (v. Hanley e Yamamura, 1977), anche in Giappone l'età del matrimonio variava a seconda dell'andamento dell'economia, abbassandosi quando questa era favorevole, alzandosi di nuovo quando diventava sfavorevole.
Anche in Giappone, inoltre, il controllo dello sviluppo demografico è avvenuto spesso, oltre che attraverso il freno preventivo della nuzialità, ricorrendo all'aborto e all'infanticidio (v. Hanley e Wolf, 1985).
Nei paesi dell'Europa meridionale troviamo altri importanti casi che non rientrano nella descrizione e nella spiegazione proposte dallo schema di Hajnal. Anzitutto nella penisola iberica, dove in passato, nelle zone meridionali, la popolazione femminile si sposava precocemente ma seguiva la regola della residenza neolocale e formava delle famiglie nucleari, mentre in quelle settentrionali si sposava più tardi e andava più spesso a vivere in famiglie multiple (v. Rowland, 1987). Ma questo avveniva anche in Italia. Per la verità, nel nostro paese si sono avuti anche i due modi di formazione della famiglia descritti da Hajnal. Il primo, ad esempio, era seguito nei centri urbani, ma soprattutto in Sardegna. In quest'isola, nel Settecento e nella prima metà dell'Ottocento, uomini e donne si sposavano assai tardi, spesso dopo aver trascorso alcuni anni a servizio in altre famiglie, e dopo il matrimonio seguivano la regola della residenza neolocale, andando ad abitare in famiglie nucleari (v. Barbagli, 1987).
Il secondo metodo di formazione della famiglia era assai diffuso nelle campagne fiorentine del Quattrocento. Qui, nel 1427 (v. Herlihy e Klapish-Zuber, 1978), la popolazione si sposava piuttosto presto: le donne in media a 17 o 18 anni, gli uomini a 24 (mentre a Firenze l'età media delle prime al matrimonio era di 18 anni, quella dei secondi di 30 anni). Prima di sposarsi poche persone andavano a servizio in un'altra casa. E molte, dopo le nozze, seguivano la regola della residenza patrilocale e andavano a far parte di una famiglia congiunta.Ma insieme a questi, nell'Italia preindustriale, vi sono stati altri due sistemi di formazione della famiglia altrettanto importanti. Il primo ha dominato per secoli in Puglia (v. Delille, 1985; v. Da Molin, 1990), in Sicilia e un po' in tutte le regioni meridionali. Qui l'uso dei garzoni nelle famiglie agricole era sconosciuto, la popolazione femminile si sposava in giovanissima età, molto spesso prima di aver raggiunto i 20 anni, e tuttavia, al momento delle nozze, i due sposi seguivano la regola della residenza neolocale e mettevano su casa per proprio conto.Il secondo sistema di formazione della famiglia era seguito, nel corso del Sette e dell'Ottocento, nelle regioni classiche della mezzadria: in Toscana e in Emilia, nelle Marche e in Umbria. Nelle campagne di queste zone l'uso dei garzoni nelle famiglie agricole era abbastanza diffuso. Dopo le nozze la popolazione appoderata andava di solito a vivere in grandi famiglie congiunte, formate spesso da molte unità coniugali. E tuttavia, a differenza di quanto avveniva nella campagna fiorentina nel Quattrocento, la popolazione femminile si sposava in età avanzata, a 24-25 anni.
Oltre a variare nello spazio, i sistemi di formazione della famiglia e le relazioni interne fra i suoi componenti erano - e sono in parte ancora - molto diversi a seconda della casta, del ceto e della classe sociale. Ce lo dicono, in primo luogo, tutte le informazioni che abbiamo sull'Asia.
In Giappone la famiglia ceppo era molto più diffusa fra i contadini proprietari che fra quelli affittuari (v. Smith, 1985). In India le caste più elevate passavano la loro vita più frequentemente di quelle inferiori in famiglie congiunte. Facevano tuttavia eccezione i brahmani, che, pur essendo al vertice della scala sociale, vivevano spesso in famiglie nucleari (v. Mandelbaum, 1970 e 1974; v. Goody, 1990). In Cina i ceti più elevati (proprietari terrieri e mercanti) vivevano molto frequentemente in famiglie congiunte formate da numerose unità coniugali; i ceti intermedi in famiglie ceppo; infine quelli inferiori in famiglie nucleari (v. Freedman, 1966; v. Sa, 1985). Era inoltre in questi ceti più poveri che, almeno in certe regioni della Cina, i giovani maschi seguivano talvolta la regola della residenza matrilocale dopo le nozze e andavano a stare nella famiglia della sposa (v. Wolf e Huang, 1980; v. Pasternak, 1985). In questi stessi ceti poveri era più diffusa che in quelli ricchi una forma 'minore' di matrimonio, preceduta da una sorta di adozione della futura moglie da parte della famiglia del marito. I genitori di quest'ultimo prendevano in casa loro, quando era ancora molto piccola (aveva cioè da un anno a un anno e mezzo) una bambina di un'altra famiglia e la allevavano come fosse una figlia, finché, a sedici o a diciassette anni, essa veniva data in sposa al loro figlio, con il quale aveva fino allora vissuto come una sorella (v. Wolf e Huang, 1980).
Sia in India che in Cina vi erano altre differenze, fra le varie caste o i vari ceti sociali, nelle regole di formazione e di rottura della famiglia. Nei gruppi sociali più elevati ci si sposava un po' prima; si concedeva minore autonomia alla donna; non si consentivano né il divorzio né le seconde nozze delle donne rimaste vedove (che invece si verificavano, anche se non molto spesso, nei gruppi sociali inferiori: v. Goody, 1990).
Grandi differenze fra ceti e classi sociali vi erano anche nei paesi occidentali. Anzitutto rispetto alla frequenza con cui ci si sposava. Nel Seicento e nel Settecento il celibato e il nubilato definitivi erano in genere molto più frequenti fra i nobili che nel resto della popolazione. Nella Ritterschaft dell'Assia la quota delle persone che non si sposavano in tutta la vita raggiungeva il 30%, ma nelle famiglie nobili francesi, così come nel patriziato fiorentino o milanese, il celibato o il nubilato definitivi raggiungevano proporzioni anche maggiori (v. Pedlow, 1982; v. Zanetti, 1972; v. Litchfield, 1969).
In secondo luogo, per quanto riguarda l'età al matrimonio. Fino all'inizio dell'Ottocento nelle aristocrazie e nelle borghesie dei paesi europei gli uomini si sposavano a un'età più avanzata (verso i 30-31 anni) del resto della popolazione. Essi inoltre prendevano in moglie delle donne più giovani di quanto facessero gli appartenenti agli altri strati sociali. Così, la differenza di età fra marito e moglie nelle aristocrazie e nelle borghesie era in media di 8 o 10 anni (v. Pedlow, 1982; v. Zanetti, 1972).
In terzo luogo, per quanto riguarda la scelta del coniuge. Quanto più elevato era il ceto di appartenenza e più grande il patrimonio in gioco, tanto più facile era che la scelta fosse effettuata esclusivamente dai genitori e dai parenti, senza il parere o il consenso degli sposi o, al massimo, dando ai figli il diritto di veto dopo che si erano incontrati un paio di volte (v. Stone, 1977).
In quarto luogo, rispetto alla regola di residenza seguita dopo le nozze e al tipo di famiglia in cui si viveva. In Italia, ad esempio, gli artigiani delle città si rifacevano già nel Trecento alla regola della residenza neolocale e vivevano in famiglie nucleari. Le persone che appartenevano agli strati più poveri della popolazione urbana vivevano invece più spesso sole o in famiglie senza struttura coniugale. I nobili e i mercanti hanno seguito invece per lungo tempo, fino all'inizio dell'Ottocento, la regola della residenza patrilocale, trascorrendo molte fasi della loro vita in famiglie multiple. Tuttavia, fino alla metà del XVI secolo, finché ha dominato il modello successorio patrilineare divisibile (tutti i figli maschi avevano gli stessi diritti a partecipare alla spartizione dell'eredità paterna) i nobili vivevano spesso in famiglie congiunte. Quando invece, nel periodo successivo, si è affermato il modello successorio patrilineare indivisibile (tutta l'eredità andava solo a uno dei figli maschi) un numero crescente di figli cadetti e di figlie non si sposava mentre i primogeniti, al momento delle nozze, formavano una famiglia a ceppo.
Nell'Italia centrosettentrionale, in Spagna e nella Francia meridionale vi erano grandi differenze anche fra gli strati sociali presenti nel settore dell'agricoltura. Esse erano dovute in parte alla proprietà o meno delle terre e alla natura dei contratti agrari. Per questo avevano di solito famiglie più complesse i contadini proprietari che i braccianti. Ma erano di solito i mezzadri che, proprio a causa dei contratti agrari, vivevano più frequentemente in famiglie multiple, molte volte congiunte. Le differenze fra gli strati sociali erano dovute anche alla dimensione dei fondi, perché quanto più questi erano grandi, tanto più ampie e complesse erano le famiglie che vi vivevano sopra.
In quinto luogo, fra i vari ceti sociali vi sono state per molto tempo delle differenze anche riguardo al comportamento riproduttivo. Fino agli ultimi decenni del Settecento vi era una relazione diretta fra condizione economica e sociale e fecondità, cioè le coppie dei ceti più elevati mettevano al mondo più figli delle altre. Nel corso dell'Ottocento, tuttavia, questa relazione è cambiata radicalmente, tanto da presentarsi rovesciata. Così, all'inizio di questo secolo, le famiglie più prolifiche erano quelle meno agiate (v. Livi Bacci, 1980).
I mutamenti avvenuti nel corso del tempo (che esamineremo nel prossimo capitolo) hanno a poco a poco ridotto, nei paesi occidentali, le differenze fra i ceti sociali rispetto ai vari aspetti del matrimonio e della famiglia che abbiamo ricordato. Oggi, in tutti i ceti di questi paesi, la differenza di età fra marito e moglie è molto contenuta ed essi, dopo le nozze, seguono la regola della residenza neolocale.
Fra i ceti restano tuttavia ancor oggi delle differenze significative. Basterà ricordarne due. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Svezia e in molti altri paesi occidentali vi è una relazione diretta fra ceto sociale e stabilità coniugale. Ciò significa che quanto più elevato è il ceto di appartenenza, tanto più facile è che i coniugi non divorzino e restino insieme per tutta la vita (v. Goode, 1956 e 1962; v. Chester, 1977). In Italia, invece, questa relazione è ancora inversa (v. Barbagli, 1990).
La seconda differenza riguarda le relazioni fra genitori e figli, e i metodi di socializzazione e gli stili educativi usati dai primi. Varie ricerche hanno infatti messo in luce che nelle famiglie operaie si fa più ricorso alle punizioni fisiche e si tende a insegnare ai figli l'obbedienza e la solidarietà, mentre in quelle di ceto medio ci si serve più spesso del ragionamento e della persuasione e si dà più importanza all'autonomia e all'individualismo (v. Kohn, 1969).
Fino a quindici o vent'anni fa i manuali di sociologia contenevano l'affermazione che, nel passaggio dalla società tradizionale a quella moderna, la famiglia aveva subito un processo di semplificazione, e da complessa, costituita da tre generazioni e più unità coniugali, era diventata nucleare. Questo cambiamento veniva in generale ricondotto ad altre e più vaste trasformazioni: al passaggio dallo status al contratto, dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft, dalla solidarietà meccanica a quella organica.
L'idea di una progressiva semplificazione degli aggregati domestici deriva dalla concezione evoluzionistica e unilineare dello sviluppo della famiglia condivisa da tutti i più importanti sociologi del secolo scorso. Uno di questi, Émile Durkheim, aveva enunciato la 'legge' di contrazione progressiva della famiglia. Prima di lui, Frédéric Le Play aveva sostenuto che la famiglia 'patriarcale' (da noi chiamata congiunta) e quella a ceppo stavano lasciando il posto alla 'famiglia instabile' (da noi chiamata nucleare). Secondo Le Play questo mutamento era dovuto sia all'industrializzazione e all'urbanizzazione che alle trasformazioni avvenute nel regime successorio. La famiglia patriarcale dominava infatti là dove la proprietà era collettiva e indivisa, quella a ceppo dove la proprietà era individuale, ma il padre lasciava tutto il patrimonio familiare a un unico figlio. La famiglia instabile si affermava quando il padre aveva l'obbligo di dividere il patrimonio in parti uguali fra tutti gli eredi.
Condivisa fino a vent'anni fa da tutti i sociologi, la tesi che l'industrializzazione e l'urbanizzazione abbiano provocato la nuclearizzazione della famiglia è stata argomentata in vari modi. Secondo alcuni (v. Ogburn, 1938) questo è avvenuto perché vi è stato un trasferimento di funzioni dalla famiglia ad altre istituzioni. Per questi studiosi, se la famiglia della società 'tradizionale' era grande e solida, se i suoi componenti continuavano a stare insieme quanto più a lungo possibile, era perché essa svolgeva numerosissime funzioni: economiche, di conferimento di status, educative, assistenziali, religiose, ricreative e affettive. Nella società 'moderna', prodotta dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione, la famiglia ha invece perso tali funzioni (eccetto quella affettiva), cedendole ad altre istituzioni: ai luoghi di lavoro, alle scuole, alle organizzazioni religiose, a quelle statali di difesa, protezione e assistenza. Questo processo ha avuto la conseguenza di ridurre e indebolire i legami fra i membri della famiglia, di renderla più piccola e instabile, di farle perdere parte dell'importanza che aveva avuto in passato.
Altri studiosi (v. Parsons, 1949) hanno invece ricondotto l'affermazione della famiglia 'moderna' soprattutto alle esigenze del sistema economico e professionale della società industriale. Essi hanno messo in rilievo che questo sistema funziona reclutando persone sulla base non delle loro caratteristiche ascritte (come ad esempio la provenienza familiare), ma acquisite (le competenze professionali e il titolo di studio). Tale sistema, che richiede una grande mobilità della forza lavoro e frequenti spostamenti di questa da una località all'altra, provoca una forte mobilità sociale verticale della popolazione: sia il reclutamento sulla base delle caratteristiche acquisite, sia la mobilità geografica, sia quella sociale verticale hanno messo in crisi la struttura e l'organizzazione della famiglia 'tradizionale'.
Le ricerche condotte dalla metà degli anni sessanta hanno però rimesso radicalmente in discussione l'idea che il periodo dell'industrializzazione costituisca il grande spartiacque fra la famiglia 'tradizionale' e quella 'moderna'. Dall'analisi condotta sulle liste nominative di cento comunità inglesi per il periodo 1574-1821 è emerso che il numero medio di persone per famiglia è rimasto costante. Invariata è restata anche la struttura familiare di questa comunità, visto che in tutto il periodo considerato la quota delle famiglie complesse (cioè estese e multiple) si è sempre aggirata intorno al 10% (v. Laslett, 1972). Dalla metà dell'Ottocento, e per un breve periodo di tempo, la struttura familiare è mutata, ma in modo opposto a quello previsto dalle teorie classiche, nel senso cioè che è aumentata la proporzione delle famiglie estese (v. Anderson, 1972).
In Inghilterra, dunque, la famiglia nucleare ha preceduto di secoli l'industrializzazione. Almeno dalla metà del Cinquecento in poi la popolazione inglese ha sempre seguito la regola della residenza neolocale dopo le nozze. Vi è stato perciò chi ha avanzato l'ipotesi che non solo l'industrializzazione non abbia provocato la nuclearizzazione della famiglia, ma che sia stata anzi la famiglia nucleare a favorire in questo paese l'industrializzazione. I dati inglesi della seconda metà dell'Ottocento fanno d'altra parte pensare che l'industrializzazione, spostando vaste masse di popolazione in città e privandole del sostegno che in campagna avevano avuto dalla parrocchia, le abbia rese più dipendenti dall'aiuto dei parenti, e abbia avuto quindi, almeno all'inizio, l'effetto di aumentare la percentuale di famiglie estese.
Per quanto riguarda l'Italia, i dati disponibili sembrano a prima vista dar ragione ai sostenitori della teoria sociologica classica, perché provano che nel nostro paese il processo di industrializzazione che ha avuto luogo negli anni cinquanta e sessanta del nostro secolo ha trasformato profondamente la struttura della famiglia, dando una forte spinta all'affermazione della regola della residenza neolocale. Ma altri dati mettono in luce che nemmeno nella società italiana preindustriale prevaleva ovunque la famiglia multipla a tre generazioni e numerose unità coniugali. In primo luogo, già nel Seicento e nel Settecento, in Puglia, in Sicilia e in altre regioni meridionali la grande maggioranza della popolazione seguiva la regola della residenza neolocale dopo le nozze e passava lunghi periodi della propria vita in famiglie nucleari. In secondo luogo, almeno dagli inizi del Trecento in poi, la grande maggioranza della popolazione delle città italiane viveva in famiglie nucleari, e una parte significativa stava in famiglie nucleari incomplete (formate da figli con un solo genitore) o in famiglie unipersonali (o di solitari).
Inoltre molti altri dati relativi all'Italia contraddicono l'idea (propria della concezione del mutamento come sviluppo lineare continuo) che il grado di complessità della struttura familiare della popolazione sia tanto maggiore quanto più si risale indietro nel tempo. A partire infatti grosso modo dal XV secolo, nelle campagne dell'Italia centrosettentrionale ebbe inizio una tendenza, durata per secoli, all'affermazione e alla diffusione della famiglia multipla. Tale processo fu provocato da un insieme di profonde trasformazioni economiche e sociali, ma soprattutto dall'estendersi dell'organizzazione produttiva poderale e dal passaggio della popolazione agricola da un tipo di insediamento accentrato a uno sparso. Fu probabilmente per questo, e anche perché dalla metà del Cinquecento fino alla fine del Settecento si ebbe una lenta diminuzione del tasso di urbanizzazione, che nell'Italia centrosettentrionale la frequenza delle famiglie complesse raggiunse il punto più alto fra la seconda metà del XVIII e la prima del XIX secolo (v. Barbagli, 1984).
Con l'industrializzazione non si possono d'altra parte spiegare neppure i mutamenti che hanno avuto luogo, nei paesi occidentali, all'interno della famiglia, nelle relazioni fra mariti e mogli, genitori e figli. Stando alle migliori ricerche (v. Stone, 1977; v. Trumbach, 1978), in Inghilterra la famiglia 'moderna' è nata da alcune trasformazioni avvenute nelle relazioni di autorità e di affetto esterne all'unità coniugale elementare. In primo luogo questa si è liberata a poco a poco dai controlli della comunità e della parentela. Vi è stato in secondo luogo il passaggio da un sistema di matrimonio combinato dai genitori, mossi esclusivamente da interessi di tipo economico e sociale, a uno basato sulla libera scelta dei coniugi, sull'attrazione fisica, sull'amore. È mutato in terzo luogo il rapporto fra i coniugi. La tradizionale asimmetria di potere fra marito e moglie si è attenuata, la freddezza e il distacco hanno lasciato il posto al calore affettivo e all'intimità. Infine sono cambiate le relazioni fra genitori e figli. Mentre prima padri e madri avevano un atteggiamento d'indifferenza verso i figli (soprattutto finché questi erano molto piccoli) ora essi rivolgono verso di loro tutte le loro cure e il loro affetto.
Secondo Stone questi mutamenti sono iniziati nei primi decenni del Seicento e sono continuati nel secolo successivo. Essi hanno preso l'avvio al vertice della scala sociale, fra l'alta borghesia e la squirarchy (la piccola nobiltà terriera), due ceti che formavano in Inghilterra una élite con una forte omogeneità culturale. Questi due ceti si sono posti alla testa del mutamento delle relazioni familiari e i loro modelli di comportamento sono stati ripresi dagli altri ceti, prima di tutto da quelli intermedi e dall'alta aristocrazia. Ma questo processo di diffusione è avvenuto molto lentamente.
Anche in Italia ha per molto tempo dominato un modello di autorità patriarcale, una rigida gerarchia di posizioni e di ruoli definiti sulla base di caratteristiche ascritte quali l'età, il sesso e l'ordine di nascita. Il potere di decisione era concentrato nelle mani del maschio capofamiglia. Fra marito e moglie vi era una relazione di autorità fortemente asimmetrica e una netta separazione dei ruoli, che faceva sì che essi trascorressero la maggior parte del tempo non insieme, ma con parenti, vicini o amici dello stesso sesso. I genitori tenevano i figli a distanza, perché imparassero a sentirsi inferiori, e dunque, per quanto li amassero, evitavano di esprimere i loro sentimenti, di baciarli o di coccolarli.
Questo modello patriarcale entrò in crisi nel nostro paese negli ultimi decenni del Settecento e nei primi dell'Ottocento, cioè molto tempo prima che iniziasse il processo di industrializzazione. Anche se il padre e marito ha continuato a essere la figura preminente, la distanza sociale fra lui e la moglie e fra i genitori e i figli si è ridotta fortemente. La separazione dei ruoli fra il marito e la moglie è divenuta meno netta. È mutato il comportamento riproduttivo della coppia e diminuito il numero dei figli. Sono cambiati i metodi di allevamento di questi figli ed è aumentata la quantità di tempo che i genitori dedicano loro. Questi cambiamenti sono iniziati in Italia nella borghesia intellettuale delle città, ma si sono diffusi ben presto agli strati più aperti e cosmopoliti dell'aristocrazia, estendendosi poi, a distanza di tempo, ad altri ceti, agli impiegati, ai commercianti, agli artigiani e agli operai (v. Barbagli, 1984).
Fino all'inizio degli anni sessanta nei manuali di sociologia si poteva trovare la tesi, sostenuta da Talcott Parsons, che l'industrializzazione, promuovendo la mobilità geografica e quella sociale, faccia perdere completamente d'importanza ai rapporti di parentela e renda la famiglia nucleare sempre più indipendente e isolata. I risultati delle ricerche storiche e sociologiche condotte negli anni seguenti hanno tuttavia messo in crisi questa tesi, mostrando che i rapporti di parentela conservano un ruolo centrale anche nelle società sviluppate e che essi, ben lungi dallo scoraggiare o dall'impedire i processi di mobilità sociale orizzontale e verticale, li facilitano o per lo meno li rendono meno dolorosi.
Le ricerche storiche (v. Hareven, 1978 e 1982) hanno messo in luce che i processi migratori non solo non indeboliscono le relazioni di parentela, ma sono possibili proprio grazie a queste. Le catene dei parenti servono per richiamare nuove persone, per organizzare gli itinerari di emigrazione, per reclutarle al loro arrivo e farle entrare nelle nascenti imprese industriali, per aiutarle ad adattarsi alle nuove condizioni di vita e di lavoro, per assisterle nei periodi più duri di crisi e di disoccupazione.
Le ricerche sociologiche condotte negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia e in Italia (v. Sussman, 1965; v. Young e Willmott, 1957; v. Gokalp, 1978; v. Pitrou, 1977; v. ISTAT, 1985; v. Sgritta, 1986; v. Di Nicola, 1988) indicano d'altra parte che anche nelle società più avanzate la famiglia nucleare opera nell'ambito di una rete fitta e solida di rapporti e di scambi fra parenti. Come è stato osservato (v. Saraceno, 1988), il termine 'rete' rende molto bene l'idea della situazione, perché indica "una pluralità di direzioni, un intrecciarsi di rapporti e scambi non sempre diretti e lineari; ma indica anche un'attività di sostegno, o almeno di protezione. Segnala inoltre un dinamismo dettato non esclusivamente da regole ascritte e rigide, ma dal gioco dei bisogni e delle scelte".
Anche nelle società avanzate vi sono relazioni molto strette fra la giovane coppia e le due famiglie di origine. Questo è evidente già dalla relativa vicinanza geografica dei due sposi ai rispettivi genitori. In Francia, ad esempio, circa il 75% delle persone di oltre 45 anni che hanno i genitori in vita abitano a meno di 20 chilometri da loro (v. Gokalp, 1978). Ma questo è provato anche dalla notevole frequenza con cui i nuovi sposi vedono i genitori e dal flusso degli aiuti. Si tratta di aiuti dei più vari tipi: le conoscenze e le raccomandazioni per trovare un lavoro; gli aiuti finanziari per acquistare una casa, i mobili o la macchina; i regali di oggetti utili; i servizi.In queste relazioni vi sono tuttavia delle differenze per sesso. A interessarsi dei parenti sono più le donne degli uomini. Sono soprattutto loro che si occupano degli aiuti dati sotto forma di servizi (compagnia, accudimento, accompagnamento, ospitalità). Così come sono loro che stabiliscono e mantengono i contatti con genitori e suoceri, fratelli e cognati, facendo doni nei momenti opportuni, organizzando le grandi riunioni e i riti di famiglia, mobilitando gli altri quando qualche parente si trova in difficoltà.
I flussi di scambi di queste relazioni di parentela sono inoltre assai diversi a seconda della classe sociale di appartenenza. Nella classe media e in quelle più elevate sono prevalentemente i genitori dei due sposi che aiutano i figli quando questi si sposano e mettono su casa nei primi anni di matrimonio. Nella classe operaia è più facile invece che siano i figli ad aiutare i genitori. Inoltre nelle classi medio-alte sono più frequenti gli aiuti di carattere finanziario o quelli forniti per trovare lavoro o fare carriera; nella classe operaia è più comune lo scambio di servizi.
Nei paesi occidentali il matrimonio ha conosciuto il periodo di maggiore stabilità nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale. Negli Stati Uniti, ad esempio, nel 1955 i matrimoni duravano in media trentun anni prima di dissolversi per la morte di uno dei due coniugi o per il divorzio. Nei secoli precedenti la stabilità coniugale era stata molto minore, a causa soprattutto dall'alto tasso di mortalità. In Francia e in Inghilterra, nel corso del Settecento, la durata media del matrimonio andava dai diciassette ai vent'anni (v. Stone, 1977).
D'altra parte, dal 1965 in poi vi è stato in tutti i paesi occidentali un fortissimo aumento del numero delle separazioni e dei divorzi, che ha ridotto in modo considerevole la durata media del vincolo coniugale. In un decennio questo numero è raddoppiato in Francia, in Belgio e nella Repubblica Federale Tedesca e si è triplicato in Svezia e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, alla metà degli anni settanta, i matrimoni terminati con un divorzio hanno superato, per la prima volta nella storia dei paesi occidentali, quelli sciolti per la morte di un coniuge. Negli ultimi anni questa tendenza si è arrestata in alcuni paesi, ma è continuata in altri.L'aumento dell'instabilità coniugale è stato attribuito a tre diversi fattori. In primo luogo, al fatto che la coppia non è più tenuta insieme da vincoli economici e patrimoniali, ma solo da legami affettivi e questi finiscono più facilmente per incrinarsi. In secondo luogo, al processo di secolarizzazione. Come è stato scritto, "la storia del divorzio è la storia del progressivo rifiuto della dottrina cattolica del matrimonio" (v. Phillips, 1988). In terzo luogo, all'aumento del tasso di attività della popolazione femminile, che si è verificato negli anni settanta e ottanta in tutti i paesi occidentali.
L'instabilità coniugale non è tuttavia solo una caratteristica dei paesi occidentali avanzati. In Europa il divorzio esisteva prima che nella popolazione si affermasse la dottrina cristiana del matrimonio. Negli altri continenti esso vi è sempre stato, raggiungendo in certe zone e in certi periodi dei livelli anche molto alti. Tuttavia esso ha avuto in Asia e in Africa delle caratteristiche molto diverse da quelle assunte nei paesi occidentali negli ultimi venticinque anni.
Si pensi, ad esempio, al Giappone. Questo paese aveva alla metà del secolo scorso il tasso più alto di divorzio del mondo. In genere, tuttavia, la rottura del matrimonio non nasceva dai conflitti fra i coniugi, ma piuttosto da quelli fra suocera e nuora. Nel Giappone infatti, in quel periodo, i matrimoni venivano ancora combinati dai genitori e il primogenito seguiva dopo le nozze la regola della residenza patrilocale formando una famiglia ceppo.Oppure si pensi alla situazione dei paesi arabi, dove tradizionalmente il divorzio assumeva la forma del ripudio e il marito poteva rompere il matrimonio semplicemente dicendo tre volte alla moglie "io divorzio da te" davanti a due testimoni. Nonostante i cambiamenti verificatisi in questi paesi negli ultimi vent'anni, il divorzio continua a essere una prerogativa prevalentemente maschile. Esso avviene molto più precocemente che nei paesi occidentali: in Egitto e in Giordania, in Siria e in Tunisia tre quarti dei divorzi si verificano prima del quinto anniversario di matrimonio (mentre in Europa meno di un quarto). Inoltre quasi tre quarti dei divorzi che avvengono nei paesi arabi riguardano coppie senza figli.Il motivo di tutto ciò è che nei paesi arabi il divorzio "è un meccanismo ancestrale di massimizzazione del potenziale riproduttivo della società, ereditato dalle società beduine per le quali era una delle risposte alla situazione di isolamento. Disegualitario [...] il ripudio autorizza una circolazione matrimoniale che permette, tramite reiterate soluzioni, di eliminare le coppie sterili" (v. Fargues, 1986).
L'aumento del numero dei divorzi verificatosi dopo il 1965 in tutti i paesi occidentali ha prodotto un forte sviluppo delle famiglie ricostituite, di quelle cioè nelle quali almeno uno dei coniugi è al secondo matrimonio. Per rendersi conto dell'importanza quantitativa che esse hanno assunto nel corso degli anni ottanta si pensi che le seconde nozze costituiscono oggi quasi la metà dei matrimoni celebrati negli Stati Uniti e più di un terzo di quelli che avvengono ogni anno in Danimarca, in Svezia e in Gran Bretagna.Famiglie simili a queste sono naturalmente esistite anche in passato, perché una parte rilevante delle persone vedove si risposava; tuttavia le famiglie ricostituite in seguito a divorzio sono assai diverse da quelle di un tempo. In primo luogo perché il divorzio produce una popolazione di persone disposte a risposarsi che è il doppio rispetto a quella creata dalla morte di un coniuge. In secondo luogo perché, se a porre fine al matrimonio è la morte, questa popolazione è costituita soprattutto da donne, mentre, se è il divorzio, la componente maschile e quella femminile si equivalgono. In terzo luogo perché la ricostituzione delle famiglie significava un tempo la sostituzione del genitore scomparso, mentre oggi vuol dire l'aggiunta di uno o due nuovi genitori ai due già esistenti.
Le ricerche finora svolte hanno mostrato che il secondo matrimonio è ancor più fragile del primo e che le persone divorziate che si risposano divorziano più frequentemente di quelle che si sposano per la prima volta. Questo dipende forse dal fatto che le persone che divorziano e si risposano hanno dei valori diversi da quelle che si sposano per la prima volta e considerano più frequentemente il divorzio come un'alternativa possibile a un matrimonio fallito. Ma probabilmente la fragilità delle seconde nozze dipende anche dalle caratteristiche delle famiglie ricostituite e dalla loro ancora scarsa istituzionalizzazione (v. Cherlin, 1978).
Le famiglie ricostituite sono di solito strutturalmente più complesse di quelle nucleari di prime nozze, anche se il loro grado di complessità varia a seconda della storia coniugale dei due adulti che hanno creato la nuova coppia, dei figli avuti da ciascuno di loro sia prima che dopo l'ultimo matrimonio e dalla residenza di questi. Le famiglie ricostituite hanno inoltre dei confini (in termini spaziali, biologici e giuridici) più incerti e ambigui delle famiglie nucleari di prime nozze. Nelle famiglie ricostituite, infatti, non tutti i membri vivono nella stessa casa o portano lo stesso cognome, né tutti i figli sono consanguinei.Se le seconde nozze sono ancora più fragili delle prime è perché le famiglie ricostituite non sono ancora istituzionalizzate, cioè perché coloro che ne fanno parte non hanno a disposizione dei modi socialmente accettati e condivisi di risolvere i complessi e delicati problemi di fronte ai quali si trovano quotidianamente. È questa mancanza di modelli da imitare, di regole di condotta da seguire, che rende più difficile il compito dei nuovi coniugi e provoca tensioni e conflitti. E questo si verifica tanto più frequentemente quanto più complesse sono queste famiglie, cioè quanto più i due coniugi vengono da un precedente matrimonio, hanno avuto già dei figli e ne mettono al mondo di nuovi.
Le tendenze in corso nei paesi occidentali sono dunque chiare. La famiglia coniugale sta perdendo poco a poco di importanza e la popolazione passa un numero di anni maggiore di prima in altri tipi di famiglia: in unioni di fatto, in famiglie formate da una sola persona, da un solo genitore e dai figli, oppure in famiglie ricostituite. La diffusione di queste ultime, in una situazione di forte calo della fecondità, tende a creare un sistema di parentela del tutto nuovo, in cui i rapporti di affinità prodotti dal matrimonio sono sempre più importanti, mentre quelli di consanguineità lo sono sempre meno.
Più difficile è dire quali siano le tendenze di fondo al di fuori dei paesi occidentali. Trent'anni fa William Goode (v., 1963), in un libro che resta ancor oggi il più importante studio di carattere comparativo sulla famiglia, prevedeva che anche nei paesi non occidentali si sarebbe affermata la famiglia coniugale, se non altro perché l'ideologia di questo tipo di famiglia, "promettendo libertà [...] contro le rigidità e i controlli dei sistemi tradizionali", esercitava una grande attrazione su molti strati della popolazione.
A distanza di trent'anni dalla previsione di Goode si può dire che questa si è verificata solo in parte. Certo, le trasformazioni avvenute in molti paesi asiatici vanno verso un'affermazione della famiglia coniugale. In questi paesi, infatti, i matrimoni combinati dai genitori sono oggi molto meno frequenti di un tempo. La parte della popolazione che, dopo le nozze, segue la regola della residenza neolocale è costantemente cresciuta. La quota delle famiglie estese e multiple è diminuita in Cina, dal 1930 al 1982, dal 48 al 19% (v. Zeng Yi, 1986) e in Giappone dal 39 al 21% (v. Long, 1987). Fortissima è stata inoltre, in molti di questi paesi, la caduta della fecondità. E tuttavia la forza della tradizione si fa ancor oggi sentire. Pur essendo il loro peso notevolmente diminuito, le famiglie estese e multiple conservano una certa importanza, perché riescono a soddisfare certi bisogni della società moderna (v. Morgan e Hirosima, 1983).Ma è soprattutto riguardo all'Africa a sud del Sahara che la previsione fatta trent'anni fa da William Goode si è rivelata errata. Se si esclude la piccola élite che si è formata culturalmente nei paesi occidentali, si può dire che nella gran massa della popolazione dell'Africa Nera l'importanza della famiglia coniugale non è assolutamente aumentata. Il numero di figli per donna, nei paesi africani, è ancora di 6,2, un livello molto superiore a quello che si aveva in Europa nel secolo scorso, prima dell'inizio del declino della fecondità. In molti paesi africani la dimensione media della famiglia non solo non è diminuita nell'ultimo trentennio, ma è addirittura aumentata (v. Locoh, 1988). La poliginia resiste, dando prova di avere radici profonde nella popolazione (v. Pison, 1986; v. Lesthaeghe, 1989). Ciò non significa che nulla cambi. La famiglia sta mutando anche in Africa, ma non si sta occidentalizzando (v. Locoh, 1989).
(V. anche Matrimonio; Parentela).
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di C. Massimo Bianca
1. La nozione giuridica di famiglia
La nozione giuridica di famiglia attinge alla realtà sociale di questa e come nella realtà sociale possono cogliersi più tipi di famiglia, così nel diritto possono distinguersi diverse fattispecie astratte di famiglia.Il termine famiglia può indicare, precisamente, il gruppo di persone appartenenti a una comune discendenza, ossia la grande famiglia. Esso può indicare ancora la famiglia convivente, ossia la comunità dei familiari che coabitano nella medesima residenza, e la famiglia lavorativa, ossia la comunità dei familiari che collaborano unitariamente per un'attività economica produttiva.
Rilevanza giuridica fondamentale assume per altro la famiglia cosiddetta nucleare, cioè la comunità di coloro che si uniscono stabilmente e della loro prole. La famiglia nucleare si caratterizza per l'intenso vincolo di solidarietà che lega reciprocamente i suoi componenti e si traduce in diritti e obblighi di assistenza, di collaborazione, di mantenimento.
Nel linguaggio delle leggi e dei giuristi la famiglia è ormai intesa come famiglia nucleare. A essa si riferisce anche la Costituzione quando sancisce i diritti della famiglia quale "società naturale" (art. 29). La tutela costituzionale riguarda appunto il vincolo solidale del primo nucleo della famiglia, e non il complesso dei rapporti di parentela. Più in generale può dirsi che il diritto di famiglia è divenuto essenzialmente diritto della famiglia nucleare. Al di fuori di tale famiglia la parentela ha infatti conservato una rilevanza ridotta, limitata principalmente ai fini successori.Il nostro codice riconosce ancora il diritto di successione legittima ai parenti fino al sesto grado, ma un'estensione così ampia della rilevanza della parentela è solo il portato di una tradizione storica non più rispondente all'attuale significato sociale dei rapporti familiari. Ai soli parenti stretti (figli e discendenti, genitori e ascendenti, fratelli e sorelle) è invece imposto quell'obbligo degli alimenti, in cui si esprime l'esigenza di solidarietà familiare (art. 433 del Codice civile). L'obbligo degli alimenti è sancito anche a carico di generi, nuore, suocero e suocera. Il codice riconosce in tal modo al rapporto di affinità, ossia al rapporto intercorrente tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge, una natura di tipo familiare, confermata dagli impedimenti matrimoniali sanciti tra gli affini in linea retta e tra gli affini in linea collaterale in secondo grado, ossia tra cognati (in quest'ultimo caso il matrimonio può essere autorizzato dal tribunale). I rapporti di affinità integrano quindi la nozione di 'grande famiglia'.
Un suo ruolo svolge ancora la famiglia lavorativa, la quale trae dal lavoro comune motivi di solidarietà che qualificano più intensi rapporti interfamiliari anche sul piano giuridico. Tale ruolo - un tempo attuato nell'ambito della consuetudinaria figura della comunione tacita familiare - è stato rivalutato dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 (v. cap. 12), che ha introdotto nell'ordinamento giuridico l'istituto dell'impresa familiare, quale gruppo di familiari che svolgono un'attività produttiva unitaria mediante un apporto continuativo di lavoro (art. 230 bis). Mediante questo istituto si è voluto valorizzare e tutelare il lavoro familiare, conferendo ai compartecipi il diritto di mantenimento, il diritto di partecipazione agli utili e agli incrementi e determinati poteri di cogestione.
2. Tendenze evolutive del diritto di famiglia
La progressiva perdita di rilevanza della grande famiglia segna una delle direttrici che caratterizzano il profondo mutamento della realtà sociale e giuridica della famiglia. Altra direttrice di questo mutamento è la tendenza del nucleo familiare ad abbandonare il modello gerarchico di un tempo: la donna afferma infatti sempre più la sua parità rispetto all'uomo, reclamando eguali diritti ed eguali poteri e al tempo stesso si va allentando l'autorità dei genitori sui figli minori. Tale autorità appare limitata dal riconoscimento che essa è un ufficio spettante al genitore in funzione esclusiva dell'interesse dei figli; essa è andata poi diminuendo in ragione della crescente autonomia personale che i minori hanno via via acquisito, affermando il diritto alle proprie scelte di condotta e di vita. Un'altra direttrice è poi quella della diminuzione della stabilità della famiglia. L'impegno matrimoniale è rispettato dai coniugi nella misura in cui esso non compromette il loro benessere fisico e psichico. D'altra parte, in mancanza di interessi economici comuni e di esigenze di mantenimento, i figli tendono a lasciare appena possibile la famiglia di origine.
La famiglia si stacca pertanto dal modello di una rigida organizzazione autoritaria per divenire una forma di convivenza solidale nella quale si svolge, in modo libero, la personalità umana. La famiglia, in definitiva, si pone in funzione della persona.
3. Diritto e famiglia
La giuridificazione dei rapporti familiari.Il diritto è andato recependo la mutata realtà sociale dei rapporti familiari. Nel nostro, come in altri ordinamenti, la regola della parità dei coniugi ha sostituito la regola dell'autorità maritale; la regola della potestà genitoria, spettante a entrambi i genitori, ha sostituito la regola della patria potestà; la regola del rispetto dei diritti di libertà del minore, compatibilmente con le esigenze educative, ha sostituito la regola dell'assoggettamento all'assoluto potere autoritario del genitore.
Il mutamento del diritto in relazione al mutare del fenomeno 'famiglia' conferma che la famiglia è una "società naturale", la cui realtà si determina secondo matrici umane e sociali largamente estranee al diritto. Così, con espressione pregnante, la famiglia è stata paragonata a un'isola che il mare del diritto può solo lambire ma non penetrare (v. Jemolo, 1948-1949). Altri ha rilevato l'inidoneità della regola giuridica a comprimere il dato sociale, e in particolare a imporre vincoli formali al di là della realtà dei rapporti vissuti (con riguardo al matrimonio: v. Glendon, 1977, pp. 189 s.).
Occorre tuttavia evitare una visione unilaterale volta a spiegare la realtà sociale della famiglia al di fuori del diritto. Anche la regola giuridica è infatti parte della realtà della famiglia. Anzitutto, la stessa giuridificazione dei rapporti familiari è un fenomeno sociale in quanto, secondo la nozione propria della regola giuridica, questa è volta a dare una garanzia sociale ai contenuti dei rapporti intersoggettivi. Con riguardo ai rapporti familiari la garanzia del diritto può essere più o meno efficiente, ma in ogni caso essa sta a significare che certi interessi del singolo nella famiglia sono rilevanti per l'ordinamento, il quale, per quanto possibile, appresta rimedi per i casi in cui lo spontaneo svolgimento dei rapporti familiari travolga tali interessi.
Normalmente, ad esempio, i genitori provvedono al mantenimento dei figli secondo una scelta spontanea, e non perché ciò sia previsto dalla legge. Ma la previsione normativa dell'obbligo vuol dire che la sorte dell'interesse del figlio al mantenimento non è rimessa alla legge interna della famiglia, e che il suo mancato soddisfacimento richiede piuttosto adeguati rimedi a tutela del minore.
4. Influenza della norma sulla realtà sociale della famiglia
La regola giuridica non si limita a garantire la realtà sociale della famiglia, perché essa va anche a incidere su tale realtà. La tutela giuridica dei rapporti familiari, secondo certi modelli normativi, è essa stessa un dato sociale che concorre a formare la realtà della famiglia. Così, ad esempio, le regole di diritto sulla stabilità e sullo scioglimento del rapporto di coniugio hanno una sicura influenza sull'effettivo conformarsi di tale rapporto nell'ambiente sociale. Occorre allora riconoscere al diritto una funzione promozionale anche della realtà familiare.
La regola giuridica, infatti, oltre che garantire certi interessi della persona nell'ambito della famiglia, offre un modello che 'agisce' sul concreto atteggiarsi dei comportamenti familiari. Anche con riguardo ai rapporti familiari, l'esperienza attesta una diffusa tendenza dei soggetti a prendere consapevolezza dei propri 'diritti' e a contestare più facilmente ciò che è giuridicamente abusivo, nonché a esercitare più facilmente le proprie scelte di vita se queste sono garantite o rese possibili dal diritto.
La riforma italiana del diritto di famiglia (v. sotto, cap. 12), in particolare, è stata anticipata da un profondo mutamento del costume sociale, ma non può negarsi che essa esercita un impatto su tale contesto, promovendo l'attuazione della regola paritaria anche là dove il costume sociale appare ancora legato ai tradizionali schemi autoritari. In molti casi, ad esempio, la gestione patrimoniale familiare può accentrarsi di fatto in capo al marito, ma è certo che queste situazioni autoritarie si indeboliscono di fronte a una regola di comunione legale che attribuisce ai coniugi pari poteri. Anche un radicato costume autoritario incontra crescenti difficoltà nella misura in cui si diffonde la coscienza della sua abusività e della possibilità di contestarlo quanto meno nei momenti critici della vita della famiglia.Il diritto di famiglia non può quindi essere inteso come una semplice traduzione del dato sociale in termini giuridici: esso si prospetta piuttosto come uno dei fattori di sollecitazione della realtà della famiglia.
5. La famiglia come ente giuridico e come comunità
La famiglia non è un ente giuridico, e cioè un autonomo centro di imputazione di diritti e doveri. Nessuna posizione giuridica è, infatti, attribuita alla famiglia come tale, né vi sono competenze riservate alla decisione e alla gestione del gruppo familiare. La mancanza di posizioni giuridiche della famiglia risponde alla mancanza di interessi familiari collettivi. La famiglia non è portatrice di propri interessi, perché gli interessi realizzati nella famiglia sono fondamentali esigenze della persona. Anzi, i tipici interessi individuali sono proprio quelli che si esprimono nei rapporti familiari. L'interesse alla convivenza, alla libertà matrimoniale, all'assistenza coniugale, alla cura da parte dei genitori sono insopprimibili esigenze di vita dell'individuo in quanto tale e non di una collettività. I riferimenti normativi alle esigenze della famiglia devono semplicemente intendersi come riferimenti alle esigenze dei componenti della famiglia nella loro globale valutazione. Le esigenze dell'unità e della vita della famiglia sono, precisamente, gli interessi che i singoli compartecipi attuano nel rapporto comunitario.L'idea di un superiore interesse della famiglia, affermata in relazione al tramontato modello autoritario, risulta estranea alla nuova concezione della famiglia quale comunità nella quale ciascuno dei compartecipi realizza le prime esigenze di convivenza e di solidarietà umana.
6. Il diritto di famiglia come diritto privato
Il diritto di famiglia è diritto privato, in quanto diritto che regola comuni rapporti dei consociati. L'opinione intesa ad accostare il diritto di famiglia al diritto pubblico non ha riscontro nell'attuale dottrina. Isolata è rimasta anche la prospettiva del diritto di famiglia quale diritto sociale. Occorre piuttosto ribadire che gli interessi familiari sono pur sempre interessi della persona. Le norme del diritto di famiglia hanno carattere di preminenza e di inderogabilità in ragione del valore centrale della persona umana.
7. I diritti di famiglia in senso soggettivo. Gli stati
I diritti di famiglia sono in generale i diritti che tutelano gli interessi familiari, cioè gli interessi della persona quale parte della comunità familiare.Interesse tutelato è anzitutto quello della persona al riconoscimento e al godimento della sua posizione nell'ambito della famiglia nucleare, ossia del suo stato familiare. Lo stato familiare designa le posizioni fondamentali della persona di coniuge, genitore, figlio.
Lo stato familiare è presupposto e titolo di una pluralità di specifici diritti, poteri e doveri: esso è tuttavia oggetto di un diritto assoluto della persona, che tutela l'interesse al godimento e al riconoscimento della sua posizione nella famiglia nucleare. L'importanza che assume lo stato familiare per la persona e per gli altri membri della famiglia ne spiega la più rigorosa disciplina giuridica. La certificazione e la pubblicità degli stati familiari sono infatti rimesse al servizio pubblico dello stato civile. Per reclamare, contestare, accertare uno stato familiare al di fuori delle risultanze dei registri dello stato civile occorre proporre un'apposita azione di stato.
Come è stato rilevato, la nozione di stato ha esercitato un ruolo negativo nella nostra cultura giuridica, risolvendosi in un freno alle istanze di parificazione da tempo avvertite riguardo alla famiglia (cfr. Rescigno, in AA. VV., 1972, pp. 185 ss.). In effetti, la nozione di stato ha contribuito a cristallizzare talune posizioni privilegiate (ci riferiamo, in particolare, alla nozione di stato di figlio legittimo) rispetto ad altre pure ugualmente meritevoli di tutela, e ad accentuare il momento formale del rapporto familiare rispetto alla sua sostanziale realtà.
Le riforme del diritto di famiglia hanno largamente attuato l'istanza di eguaglianza nell'ambito della famiglia, pur non abbandonando l'idea di una classificazione e di un condizionamento sociale dell'individuo in base al suo stato familiare. Si avverte comunque la tendenza a favorire maggiormente gli accertamenti volti a far corrispondere lo stato familiare formale della persona alla sua reale posizione familiare (si pensi all'azione di disconoscimento della paternità concessa ora dal Codice civile alla madre e al figlio con l'art. 235, comma 2).
Da queste indicazioni emerge una preminente considerazione dello stato familiare, prima che come posizione giuridica nei rapporti di famiglia, come diritto essenziale della persona a essere riconosciuta quale parte della sua famiglia e tutelata nel godimento della sua posizione familiare.
Al di fuori degli stati, le posizioni di parente o affine non sono esse stesse posizioni giuridicamente tutelate, e cioè diritti, ma solo presupposti di quei diritti e obblighi in cui si esprime la rilevanza della grande famiglia. Esse possono essere eventualmente oggetto di prova e di accertamento giudiziario alla stregua di qualsiasi altro presupposto costitutivo di un diritto che si vuole far valere.
8. Diritti di libertà e solidarietà familiari. Le potestà
Il diritto allo stato, come si è visto, è un diritto del soggetto al riconoscimento e al godimento della sua posizione familiare.Accanto allo stato possono distinguersi i diritti di libertà familiare, e cioè i diritti di contrarre liberamente matrimonio e di esplicare liberamente la propria personalità nell'ambito della famiglia. I diritti familiari comprendono ulteriormente i diritti di solidarietà familiare, e cioè le pretese a prestazioni di assistenza, fedeltà e collaborazione da parte dei familiari. Queste pretese si traducono in diritti di credito, quando hanno a oggetto singole prestazioni economicamente valutabili.Distinguiamo ancora le potestà familiari, e cioè il complesso dei poteri conferiti ai genitori, o a chi li sostituisce, per l'educazione e istruzione del minore e per la cura dei suoi beni. Trattandosi di poteri che devono essere esercitati nell'esclusivo interesse del minore, essi costituiscono un ufficio privato.
9. Caratteri dei diritti di famiglia
I diritti di famiglia hanno natura non patrimoniale. Ciò significa che, alla stregua della coscienza sociale, i diritti di famiglia non sono negoziabili per compensi economici. La non patrimonialità di tali diritti si spiega con la preminenza ed essenzialità degli interessi familiari. Il pagamento di un corrispettivo per l'assenso all'adozione, ad esempio, è sicuramente contrario alla morale sociale, ed è quindi illecito.I diritti familiari possono anche avere contenuto economico nel senso che possono avere a oggetto beni o prestazioni economicamente valutabili. Ciò tuttavia non tocca la loro natura non patrimoniale, trattandosi pur sempre di posizioni costituite in funzione di interessi preminenti della persona e pertanto non commerciabili. Il diritto agli alimenti legali, ad esempio, è un diritto a prestazioni economiche, che ha tuttavia natura non patrimoniale in quanto costituito in funzione di un fondamentale bisogno di assistenza della persona. Anche i diritti spettanti al coniuge, in base al regime patrimoniale, sono non patrimoniali, in quanto posti a tutela della persona quale partecipe del rapporto coniugale; essi sono altresì suscettibili di essere negoziati per un compenso economico (una convenzione matrimoniale, ad esempio, non tollera corrispettivi). I diritti di famiglia sono inoltre strettamente personali, in quanto volti a una diretta tutela della persona nei suoi interessi morali e materiali.
Il carattere strettamente personale dei diritti di famiglia si traduce nella loro incedibilità e nella loro intrasmissibilità. Solo eccezionalmente la legge prevede che, a seguito della morte della persona, i congiunti si rendano portatori di taluni interessi familiari già spettanti al defunto e siano legittimati a esercitare le azioni relative (cfr., ad esempio, l'art. 249 del Codice civile).
10. I diritti di famiglia come diritti fondamentali dell'uomo
La definizione costituzionale della famiglia quale società naturale (art. 29, comma 1) sta a significare il riconoscimento dei diritti di coloro che ne fanno parte come diritti fondamentali dell'uomo.La formula costituzionale è stata criticata perché richiamerebbe una nozione giusnaturalistica della famiglia, la quale è invece un fenomeno mutevole e storicamente condizionato. Il condizionamento storico della famiglia e la sua evoluzione nel mutare dei costumi sociali sono innegabili. L'evolversi del fenomeno familiare non tocca, tuttavia, la realtà di un'esigenza fondamentale dell'uomo, e cioè quella di realizzarsi nella comunità familiare. L'uomo non ha semplicemente istinti sessuali, ma anche e soprattutto il bisogno essenziale di realizzarsi nella famiglia, quale prima forma di convivenza umana.Il bisogno della famiglia come interesse essenziale della persona si esprime specificamente nella libertà e nella solidarietà del nucleo familiare. La libertà del nucleo familiare deve intendersi come libertà del soggetto di costituire la famiglia secondo le proprie scelte e come libertà di svolgere in essa la propria personalità. Si noti come la Convenzione di Roma per la protezione dei diritti dell'uomo del 4 novembre 1950 sancisca espressamente il diritto dell'uomo di contrarre matrimonio e di "fondare una famiglia" (art. 12), nonché il diritto al rispetto della sua vita privata e familiare (art. 8, comma 1).
La solidarietà del nucleo familiare deve intendersi anzitutto come solidarietà reciproca dei coniugi, tenuti ad assistersi moralmente ed economicamente. Essa deve poi intendersi come solidarietà verso i figli: questa solidarietà risponde all'esigenza della persona di essere curata fino al raggiungimento dell'età adulta, e cioè di essere mantenuta, istruita ed educata per la sua piena formazione sociale.Il riconoscimento che gli interessi realizzati nella famiglia quale società naturale sono interessi essenziali della persona segna il limite di interferenza dello Stato, il quale non può, in nome di presunti interessi pubblici, alterare o impedire la libera esplicazione della personalità umana nell'ambito della famiglia. È alla persona che spetta di realizzare i valori dei suoi rapporti familiari, mentre allo Stato spetta il compito di assicurare le condizioni per lo svolgimento di tali rapporti. Risponde a questa esigenza il principio costituzionale che impone allo Stato di agevolare, con misure economiche e altre provvidenze, la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose (art. 31, comma 1).
D'altra parte lo Stato non può affidare l'assistenza e la cura della persona esclusivamente al gruppo familiare. L'idea suggestiva della famiglia quale gruppo intermedio, in cui si attua un ordine pluralistico della nostra società, deve tener conto anzitutto di una realtà che vede allentarsi l'intensità dei vincoli familiari e scomparire la sicurezza economica (e politica) derivante dall'appartenenza alla famiglia. La solidarietà del nucleo familiare è rimasta, ma la garanzia dei bisogni fondamentali dell'uomo non può trovare la sua soluzione ultima nei doveri di assistenza familiari: soluzione che deve piuttosto essere ricondotta a un sistema di sicurezza sociale rispondente all'istanza solidale della società.
L'ordinamento deve inoltre garantire, per quanto possibile, le pretese della persona nei confronti della famiglia, quando questa venga meno ai suoi doveri di solidarietà o abusi dei suoi poteri. La tradizionale istanza di non ingerenza dell'ordinamento giuridico nella vita della famiglia e di insindacabilità delle autorità interne, al di fuori delle ipotesi di reato, sembra ormai lasciare il posto al riconoscimento che i genitori non hanno un diritto di 'proprietà' o di 'signoria' sulla prole e che la loro potestà deve essere esercitata nell'esclusivo interesse dei figli. Di qui l'ammissibilità di un più ampio intervento giudiziale per il controllo dell'esercizio della potestà dei genitori. Anche se circoscritto alle ipotesi di particolare gravità, tale intervento sta appunto a riaffermare l'idea della tutela della persona nella famiglia.
11. La famiglia di fatto
Pur nella diversità delle tradizioni e dei contesti sociali, gli ordinamenti giuridici offrono un dato comune nella persistente distinzione tra la famiglia di diritto e la famiglia di fatto, cioè quella fondata su un rapporto di convivenza personale, e nella tendenza a ridurre progressivamente la portata discriminatrice di tale distinzione.Nel nostro ordinamento la distinzione è segnata dal riconoscimento costituzionale dei diritti della famiglia quale società naturale "fondata sul matrimonio" (art. 29). Questo riconoscimento non può tuttavia essere inteso in termini di totale irrilevanza giuridica della convivenza non formalizzata nel matrimonio. La totale irrilevanza giuridica della famiglia di fatto non trova più rispondenza nella coscienza sociale, che ha radicalmente mutato il suo atteggiamento improntato un tempo alla riprovazione morale della convivenza more uxorio.
Sul piano giuridico questo mutamento della coscienza sociale non ha portato all'equiparazione della famiglia di fatto alla famiglia di diritto, ma a una crescente tutela della persona nell'ambito della prima. La tesi che invoca la tutela giuridica della famiglia di fatto si richiama alla norma costituzionale che garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nelle formazioni sociali dove esso svolge la sua personalità (art. 2). Questa norma non depone, tuttavia, per l'equiparazione giuridica delle due famiglie; essa conferma piuttosto l'esigenza di abbandonare l'impostazione del problema incentrata sulla tutela della famiglia e di guardare alla persona che vive il rapporto familiare. In questa prospettiva un rilievo preminente va riconosciuto ai figli nati fuori del matrimonio.L'esigenza di salvaguardare la posizione dei figli a prescindere dallo stato coniugale dei genitori è andata sempre più affermandosi. Non si è tuttavia ancora giunti ad abolire la distinzione tra figli 'naturali' e figli 'legittimi' (v. sotto, § 12f). Non si è giunti, poi, a riconoscere al convivente gli stessi diritti del coniuge: dalla convivenza more uxorio non scaturiscono, in particolare, i diritti che formano il regime personale del matrimonio.
Il convivente non ha quindi una pretesa giuridica alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione e coabitazione. La convivenza stabile che si uniforma al modello coniugale vede, tuttavia, l'attuazione spontanea di tali prestazioni. Abbandonata l'antica riprovazione morale, queste prestazioni vengono ormai intese come adempimenti di obbligazioni naturali. La scelta dei conviventi di non legalizzare la loro unione non consente poi alcuna garanzia di continuità del loro rapporto, che può liberamente sciogliersi. Alla cessazione della convivenza non fa seguito alcun diritto alimentare.
La nostra giurisprudenza ha negato al convivente anche il diritto alla remunerazione del lavoro prestato a favore dell'altro. In tal senso si è ribadito che, quando il rapporto di convivenza si adegua al modello di comunanza spirituale e materiale del matrimonio, deve presumersi la gratuità della collaborazione. Questa posizione negativa tende a mostrare segni di cedimento con riguardo al lavoro prestato nell'ambito della famiglia lavorativa. Sebbene la legge indichi il coniuge come avente titolo a partecipare all'impresa familiare (art. 230 bis, comma 3, del Codice civile), non sono mancate sentenze che hanno riconosciuto eguale titolo al convivente. La soluzione si giustifica col rilievo che la prestazione continuativa e gratuita di lavoro da parte del convivente nell'organizzazione comunitaria trova anch'essa causa nella solidarietà familiare.
La collaborazione prestata dal convivente può poi essere rilevante in quanto abbia concorso alla produzione del reddito impiegato per l'acquisto di beni. In tal caso, se non sono riscontrabili gli estremi della società di fatto, deve quanto meno ammettersi a favore del convivente un'azione di ingiustificato arricchimento nei limiti di quanto la sua collaborazione abbia incrementato il patrimonio dell'altro.
L'esigenza di una soluzione positiva si avverte con riguardo al diritto di risarcimento nei confronti del terzo che abbia causato illecitamente la morte del coniuge. La possibilità di riconoscere analoga pretesa risarcitoria per l'uccisione del convivente può ammettersi nella misura in cui la coscienza sociale ravvisi nella famiglia di fatto lo stesso fondamento di solidarietà familiare e, nel caso concreto, la relazione abbia caratteri di serietà e stabilità tali da fare ragionevolmente presumere che il convivente sopravvissuto avrebbe continuato anche in futuro a percepire le prestazioni alimentari. Alla soluzione positiva è pervenuta la giurisprudenza francese, mentre la giurisprudenza italiana è ferma in un atteggiamento negativo, che appare incoerente col riconoscimento che la tutela del congiunto sopravvissuto non è basata sulla lesione di un diritto alimentare, bensì sulla particolare rilevanza sociale del rapporto di solidarietà familiare.
Interessi del convivente meritevoli di tutela, alla pari del coniuge, sono stati riconosciuti dalla Corte costituzionale con riguardo alla successione nel rapporto di locazione della casa coabitata col convivente defunto (sentenza n. 404 del 7 aprile 1988, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, della legge del 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevede il convivente more uxorio nella successione nella titolarità del contratto di locazione) e dal legislatore con riguardo alla successione nel diritto all'assegnazione dell'alloggio spettante al socio defunto di cooperativa edilizia (art. 17, comma 2, della legge del 17 febbraio 1992, n. 179).
Il nostro diritto di famiglia è stato oggetto di una radicale riforma nel 1975 (legge n. 151 del 19 maggio). Questa riforma non è un evento isolato. Riforme importanti si sono infatti avute in tutti gli ordinamenti dell'area occidentale e hanno seguito linee parallele, dando luogo a discipline del diritto di famiglia che presentano significativi tratti comuni.Un sintetico esame di questi tratti comuni porta anzitutto a considerare il matrimonio e i rapporti tra i coniugi.
Gli ordinamenti dell'area occidentale e le legislazioni socialiste hanno mantenuto e rafforzato l'idea laica del matrimonio, disciplinato in via esclusiva dalla legge statale.
Carattere eccezionale presenta la soluzione italiana, che lascia agli sposi l'opzione tra il matrimonio civile e il matrimonio canonico, al quale sono riconosciuti effetti civili quando sia trascritto, a richiesta degli sposi, nei registri dello stato civile. Si tratta della soluzione adottata a seguito del Concordato dell'11 febbraio 1929.
La crescente spinta verso un restringimento delle prerogative della Chiesa cattolica ha portato a una revisione del Concordato (Accordo di revisione del 18 febbraio 1984). Tale revisione ha sancito la subordinazione degli effetti civili del matrimonio canonico ai principî dell'ordine pubblico. La Chiesa cattolica conserva la giurisdizione sui matrimoni canonici, ma le sentenze dell'autorità ecclesiastica acquistano efficacia nell'ordinamento statale solo a seguito di un giudizio di delibazione dell'autorità giudiziaria italiana intesa a controllare il rispetto dei principî di ordine pubblico. Le sezioni unite della Cassazione sono poi giunte a negare alla giurisdizione ecclesiastica carattere di esclusività e ad ammettere che le cause sull'invalidità del matrimonio canonico avente effetti civili possano essere giudicate dai tribunali dello Stato, ferma restando l'applicazione del diritto canonico (sentenza n. 1824 del 13 febbraio 1993).
I rapporti personali sono ormai ovunque improntati ai principî di solidarietà e di eguaglianza. È scomparso il dovere del marito di mantenere la moglie e a esso sono subentrati i reciproci obblighi di assistenza materiale e di collaborazione.L'affermazione del principio di parità uomo-donna si va svolgendo fino alle ultime conseguenze, al punto che è stato dichiarato incostituzionale (Corte costituzionale, sentenza del 26 febbraio 1987, n. 71) il criterio di diritto internazionale privato che collega alla nazionalità del marito la legge applicabile ai rapporti personali tra coniugi (art. 18 disp. sulla legge in generale). Un residuo dell'antica posizione preminente del marito è rimasto nel principio che sancisce l'assunzione del cognome paterno da parte dei figli. La moglie, poi, ha il diritto di aggiungere al proprio il nome del marito (art. 143 bis del Codice civile). In Germania si è giunti a riconoscere eguale diritto al marito (par. 1355 del Codice civile, BGB).Con riguardo ai regimi patrimoniali va segnalata la scelta fatta dal riformatore italiano per il regime legale della comunione. Anteriormente alla riforma il regime patrimoniale era quello della separazione dei beni: regime che garantiva una parità formale dei coniugi, ma sacrificava generalmente la moglie che collabora nel lavoro domestico e familiare senza remunerazione. All'esigenza di favorire la parità sostanziale dei coniugi si è ispirata la riforma italiana che ha introdotto il regime legale della comunione (art. 159 s. del Codice civile, nuovo testo). Il regime legale della comunione era già previsto dai Codici francese e tedesco, ma le discipline di tali codici sono state mutate a fondo dalle riforme nel senso della cogestione paritaria dei beni comuni. All'esigenza di destinare beni ai bisogni della famiglia risponde specificamente l'istituto del fondo patrimoniale, introdotto dalla riforma italiana del 1975 in sostituzione della dote e del patrimonio familiare (art. 167 s. del Codice civile, nuovo testo).
Il principio della indissolubilità del matrimonio, mantenuto dal Codice civile del 1942, è caduto nel 1970 (legge n. 898 del 1° dicembre). Con l'introduzione dell'istituto del divorzio l'ordinamento italiano si è adeguato a una scelta ormai universale, che in ordinamenti come quelli inglese, francese e tedesco affonda le sue radici nella tradizione. Pur se riconosciuto in un tempo relativamente recente, l'istituto italiano del divorzio è stato oggetto di una riforma (legge del 6 marzo 1987, n. 74) che ha seguito la tendenza, manifestatasi con segni costanti negli ordinamenti del nostro tempo, verso un crescente allentamento del vincolo coniugale.Né l'ordinamento italiano, né gli altri ordinamenti dell'area occidentale, né le legislazioni socialiste sono giunte ad ammettere il principio della diretta risolubilità del matrimonio per mutuo dissenso. Il divorzio richiede pur sempre una pronunzia dell'autorità giudiziaria, ma l'accesso al divorzio si è ampiamente liberalizzato fino ad ammettersi la possibilità dello scioglimento del vincolo matrimoniale dopo tre anni di separazione personale o, altrove, anche di un solo anno (par. 1566, comma 1, del BGB). In Francia il divorzio può essere pronunziato "par consentement mutual" dei coniugi, trascorsi tre mesi dalla prima domanda giudiziale (art. 230 del Code civil, nuovo testo). In Italia la domanda congiunta dà avvio a un procedimento abbreviato, che mantiene comunque il carattere di procedimento contenzioso (art. 4 della legge sul divorzio del 1987).
Altra tendenza generalmente avvertita in tutte le legislazioni divorziste è quella che risponde all'esigenza di salvaguardia del coniuge debole. Su una corrente di pensiero che sollecita l'affrancamento dei coniugi divorziati da ogni residuo del vecchio vincolo è prevalsa l'esigenza sociale che il divorzio non lasci abbandonato alla sua sorte il coniuge che sull'impegno assunto col matrimonio ha fondato la propria famiglia e la propria vita.
A seguito del divorzio il coniuge che non gode di un reddito sufficiente, né ha la capacità di procurarselo, ha diritto di ricevere dall'altro coniuge un assegno che gli consenta di mantenere il livello di vita matrimoniale. Vari criteri incidono sull'ammontare dell'assegno, dovendosi tener conto delle condizioni economiche di entrambi i coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi durante il matrimonio (art. 5 della legge sul divorzio del 1987). Questi criteri lasciano ferma la natura assistenziale dell'assegno, quale contribuzione legalmente dovuta sul fondamento della solidarietà postconiugale. A questa solidarietà si riconducono altre previsioni normative in tema di assegnazione della casa familiare, di assegno successorio, di benefici 'previdenziali'.
Analogo orientamento si riscontra nelle leggi di riforma tedesca e inglese. La prima, del 1987, ha confermato, tra l'altro, il diritto del coniuge debole a ottenere un assegno di mantenimento determinato secondo il rapporto di vita matrimoniale (par. 1578, comma 1, del BGB, nuovo testo). In Gran Bretagna, poi, il Matrimonial and family proceedings act del 1984 ha tenuto fermo il principio, già sancito dal Matrimonial causes act del 1973, che prevede il diritto all'assegno di divorzio e indica nel tenore di vita familiare un indice di cui deve tenersi particolarmente conto ai fini della determinazione dell'assegno medesimo. Il Matrimonial homes act del 1983 ha poi previsto il diritto del coniuge debole all'abitazione familiare. Può ancora ricordarsi la riforma francese del 1975, la quale ha solennemente riaffermato che chi prende l'iniziativa del divorzio resta interamente tenuto "au devoir de secours" (art. 281 del Code civil, nuovo testo).
Le riforme del diritto di famiglia hanno lasciato i figli assoggettati alla potestà dei genitori. Di tale potestà è per altro mutata la concezione, in quanto si è passati dall'antica idea autoritaria, espressione della supremazia del padre su persone e cose della famiglia, all'idea di un ufficio conferito nell'esclusivo interesse del minore, per sopperire alle carenze connesse alla sua naturale immaturità. Coerentemente con tale idea il legislatore tedesco ha mutato il termine potestà in quello di diritto di cura (Sorgerecht). La potestà è quindi esercitata da entrambi i genitori, e il contrasto sulle decisioni di maggiore importanza legittima il ricorso al giudice. L'intervento del giudice è stato previsto dal nostro legislatore anche per i casi di disaccordo sulle decisioni riguardanti la vita familiare (art. 145 del Codice civile).
L'intervento del giudice ha scarsi riscontri pratici al di fuori delle situazioni patologiche di separazione e di divorzio, ma la previsione di tale intervento assume un'importanza di fondo nel nuovo diritto di famiglia, in quanto conferma un generale orientamento verso una più ampia ingerenza dello Stato in funzione di tutela del familiare debole. La gelosa affermazione della competenza esclusiva della famiglia a risolvere i propri problemi cede di fronte alla crescente esigenza di salvaguardia del singolo.
All'attuazione del principio di eguaglianza dei genitori non ha corrisposto la piena attuazione del principio di eguaglianza degli stati giuridici dei figli. Le legislazioni conservano infatti la differenza formale tra figli legittimi e figli naturali, e questa distinzione si riflette in una discriminazione sociale a danno dei figli nati da genitori non sposati.
Alla differenza formale si accompagna poi generalmente una posizione sostanziale deteriore dei figli naturali. A seguito della riforma del 1975, il nostro codice ha parificato il genitore naturale al genitore legittimo nei diritti e doveri verso i figli (art. 261), ma neppure nel nostro ordinamento può dirsi tuttavia raggiunta la piena eguaglianza sostanziale tra figli legittimi e non legittimi. A questi ultimi, tra l'altro, la Corte costituzionale ha riconosciuto il diritto di succedere ai parenti del genitore solo in mancanza di parenti legittimi aventi titolo alla successione ex lege (sentenza n. 184 del 4 aprile 1990).
Ma la più grave discriminazione è ancora rappresentata dalla negazione dello stato di figlio a chi sia nato da una relazione incestuosa. In tal caso il nostro codice sancisce il divieto di riconoscimento (art. 251), consentendo al figlio solamente l'azione per ottenere il mantenimento, l'istruzione e l'educazione (art. 279). Grava qui ancora il retaggio dell'idea che i figli debbano scontare la riprovazione morale della condotta dei genitori.
Un deciso movimento unitario ha caratterizzato il passaggio dalla concezione dell'adozione come strumento di continuità del nome e del patrimonio familiare a quella di strumento volto a dare al minore abbandonato una famiglia idonea ad assicurargli la piena tutela morale e materiale. La nuova funzione dell'adozione era stata già proclamata in sede internazionale dalla Convenzione di Strasburgo del 24 aprile 1967. A tale Convenzione hanno fatto seguito legislazioni nazionali che hanno portato generalmente all'estinzione della vecchia adozione civile.
Nell'ordinamento italiano l'adozione civile è stata conservata, ma con un ruolo secondario e limitato ai maggiori di età, mentre ha assunto importanza centrale l'istituto dell'adozione piena. Con tale istituto è stato affermato uno dei principî basilari del nuovo diritto di famiglia: che il minore abbandonato deve divenire figlio a pieno titolo degli adottanti e trovare in essi la sua famiglia con esclusione di ogni ulteriore legame con la famiglia di origine.
Nel nostro ordinamento è stata, però, di recente riconosciuta anche l'esigenza di soluzioni più flessibili, nei casi di carenze meno gravi della famiglia di origine o di difficoltà di adozione. A tale esigenza risponde l'istituto dell'adozione in casi particolari, che non richiede i rigorosi presupposti oggettivi e soggettivi dell'adozione piena e non recide il legame dell'adottato con la famiglia di sangue (artt. 44 ss. della legge sull'adozione del 1983).Altro istituto nuovo è quello dell'affidamento familiare, quale rimedio provvisorio per i casi in cui il minore sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo (artt. 42 ss. della legge del 1983).
Il tema della responsabilità extracontrattuale ha visto, da una parte, il tramonto delle immunità che, in fatto o in diritto, avevano reso inoperante la tutela aquiliana all'interno del gruppo familiare (v. Patti, 1984, pp. 45 ss.) e, dall'altra, l'emergere di un rilevante interesse all'integrità del vincolo familiare, tutelato mediante il diritto di risarcimento del danno derivante dalla morte o invalidazione del familiare. Sempre in tema di responsabilità extracontrattuale va segnalata la recente tendenza giurisprudenziale ad allentare la responsabilità dei genitori per l'illecito compiuto dal grand enfant, ossia dal minore prossimo alla maggiore età e già autonomamente inserito in relazioni sociali e in attività di lavoro (ibid., pp. 232 ss.).
Va infine rilevato come un titolo del Codice penale (l'XI del libro secondo) sia dedicato ai delitti "contro la famiglia". Il capitolo sui delitti contro il matrimonio prevede il reato di bigamia (artt. 556 ss.), evidenziando quel risvolto pubblicistico che l'istituto del matrimonio conserva per quanto attiene alla costituzione, all'accertamento e al riconoscimento del rapporto coniugale.Sono invece cadute le figure penali dell'adulterio e del concubinato (artt. 559 ss.), cancellate dall'intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 147 del 27 novembre 1969) e, ancor prima, dal costume sociale. Altre norme sanzionano l'incesto (artt. 564 ss.) e gli atti volti a falsificare, sopprimere o alterare lo stato di figlio (artt. 566 ss.).
Il Codice penale sanziona poi la violazione degli obblighi di assistenza familiare, i maltrattamenti in famiglia, la sottrazione di minori (artt. 570 ss.). La norma sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare è stata di recente estesa all'ipotesi di mancata corresponsione dell'assegno di divorzio, confermandone il carattere assistenziale.
Con la caduta dell'"autorità maritale" (art. 143 del Codice civile, vecchio testo), è venuta meno anche la configurabilità della perdita di tale potestà quale pena accessoria (art. 34 del Codice penale). Ma ancora una volta va rilevato come l'autorità maritale fosse già scomparsa nel costume sociale e avesse perduto rilevanza per il diritto effettivo, avendo da tempo la giurisprudenza disattesa la spettanza al marito dello ius corrigendi nei confronti della moglie (v. Conso, 1982).
(V. anche Divorzio; Matrimonio).
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