Famiglia
La famiglia è la comunità
stabilita dalla natura
per i bisogni quotidiani
(Aristotele, Politica)
Tendenze e trasformazioni nei modi di fare famiglia
di Chiara Saraceno
10 febbraio
La Camera dei Deputati approva in via definitiva la legge sulla procreazione assistita, che prevede che possano accedere alle tecniche artificiali, in caso di problemi di sterilità o infertilità non risolvibili con altri metodi terapeutici, le coppie formate da persone maggiorenni di sesso diverso, sposate o conviventi. Al di là degli aspetti prettamente medici, il dibattito parlamentare e le polemiche che fanno seguito alla pubblicazione del testo della legge evidenziano la complessità con cui oggi si pone la questione dell'identità stessa della famiglia, non più unanimemente riconosciuta "società naturale fondata sul matrimonio", come la definisce l'art. 29 della Costituzione.
Premessa
Negli ultimi mesi i rapporti familiari, che cosa sia o debba essere una famiglia, la difficoltà o resistenza a fare famiglia, sono stati più volte al centro del dibattito culturale e politico. L'elevato tasso di mortalità degli anziani (specie di quelli più soli e più poveri) nell'afosa estate 2003 ha fatto riflettere su come stia cambiando la forma della solidarietà tra le generazioni in una società che invecchia. La proposta di ridurre i tempi di attesa tra separazione e possibilità di richiedere il divorzio, bocciata dalla Camera nell'ottobre 2003, ha comunque introdotto nuovamente nell'agenda politica la questione della necessità di rivedere le forme di regolazione dell'instabilità coniugale, inclusi i rapporti tra genitori e figli dopo la divisione dei primi. In modo ancora più radicale, la legge sulla fecondazione assistita e la discussione che ne ha accompagnato l'approvazione hanno messo a confronto definizioni diverse della genitorialità, ma anche della filiazione legittima (oltre che delle donne come soggetti pienamente autonomi). Ancora, la preoccupazione per la ridotta fecondità ha portato a decisioni più o meno efficaci (bonus per il secondo figlio, limitato ai cittadini autoctoni, previsto nella Finanziaria 2004), che segnalano come le 'questioni di famiglia' si intreccino in modo complesso non solo con i modelli di normalità e legittimità comportamentale, ma anche con questioni di riproduzione sociale più ampie, coinvolgendo il modo in cui si guarda all'immigrazione, alla diversità culturale ed etnica, e così via.
In sintesi, la riflessione, il dibattito culturale e politico, la stessa produzione normativa (o il rifiuto di modificarla, come nel caso del mancato riconoscimento giuridico delle mutue obbligazioni assunte dalle coppie eterosessuali di fatto e da quelle omosessuali) si sono incentrati sulla questione di che cosa sia la famiglia e di chi abbia il potere e il diritto di definirla. A livello degli esiti normativi non c'è dubbio che in Italia questo dibattito si sia provvisoriamente concluso con una forte opzione per una definizione 'stretta' di famiglia: fondata sulla eterosessualità e sul matrimonio, tendenzialmente obbligata alla stabilità e alla solidarietà tra le generazioni (in mancanza di politiche efficaci), possibilmente autoctona. Si tratta di un esito normativo che tuttavia corrisponde sempre meno sia al contesto demografico dei rapporti tra le generazioni, sia ai comportamenti delle famiglie e degli individui.
L'invecchiamento delle reti familiari
Nel 2003 nel complesso dei 15 paesi dell'Unione Europea le persone sotto i 15 anni risultavano ancora in lieve vantaggio numerico rispetto a quelle sopra i 65 anni, rappresentando il 17% della popolazione a fronte del 16% delle seconde. In Italia il 'sorpasso' dei più vecchi rispetto ai più giovani è già avvenuto, rendendo evidente uno sbilancio non solo tra le generazioni, ma tra bisogni di cura e possibili fornitori (fornitrici) di cura entro la rete parentale, che è oggetto di riflessione e preoccupazione in tutta Europa. A livello europeo, infatti, si calcola che l'aumento maggiore nella popolazione anziana riguarderà gli ultraottantenni, il cui numero crescerà del 50% circa nei prossimi quindici anni, a fronte di un incremento di solo il 27% della popolazione in età da lavoro, cioè compresa tra i 15 e i 65 anni (Eurostat 2003a, 2003b).
Anche se contestualmente miglioreranno le condizioni di salute, ovvero il numero di anni in cui, pur vecchi, si godrà di salute buona e comunque si sarà autosufficienti, l'aumento del numero dei 'grandi' anziani comporterà statisticamente quello delle persone fisicamente fragili e non totalmente autosufficienti, già oggi tanto più incisivo in quanto si accompagna a una diminuzione dell'ampiezza delle coorti successive. Al momento attuale una generazione di 'giovani' anziani (fra 55 e i 70 anni) numerosa, mediamente in buona salute e spesso ritirata dal lavoro (o, nel caso delle donne, mai entrata nel mercato del lavoro) è di fatto quella che, nell'ambito delle reti familiari, si fa carico delle necessità di cura dei grandi anziani, oltre che, in misura crescente, dei pochi bambini, a fronte dell'incremento nei tassi di occupazione delle madri (Sabbadini 2002). Questa stessa generazione, tuttavia, non troverà un'altrettanto 'ovvia' risorsa di cura quando a sua volta entrerà nella vecchiaia più avanzata, perché avrà meno figli, figlie e nuore su cui contare e questi saranno più a lungo nel mercato del lavoro. In misura crescente, poi, i legami tra le generazioni saranno stati messi in crisi dalle conseguenze dell'instabilità coniugale. Diverse ricerche europee, per esempio, segnalano come gli uomini separati o divorziati in vecchiaia hanno meno rapporti con i figli di coloro che viceversa sono rimasti sposati.
Quest'ultimo rischio sembra ancora contenuto in Italia, rispetto alla media europea, stanti i più bassi tassi di instabilità coniugale. Tuttavia si tratta di un fenomeno in aumento, le cui conseguenze sui legami tra le generazioni nel corso della vita non vanno sottovalutate nel programmare le politiche, specie in un contesto, qual è quello italiano, in cui si fa ancora tanto affidamento sulla solidarietà familiare per far fronte ai bisogni degli anziani fragili. Altri paesi, con altre tradizioni sia di politiche sociali sia di famiglia, forse hanno iniziato prima ad affrontare questi problemi che possono essere sintetizzati nella immagine di un possibile 'deficit di cura', ridefinendo gli equilibri tra responsabilità private-familiari e responsabilità pubbliche. L'innalzamento delle speranze di vita, infatti, comporta una crescente possibilità di passare diversi anni, da vecchi, o in coppia con un coniuge anziano o da soli, più spesso da sole come vedove. L'aumento delle famiglie unipersonali che caratterizza tutti i paesi europei è in effetti dovuto in larga misura, ancorché non esclusivamente, a quest'ultimo caso che è destinato a divenire più frequente (Eurostat 2003a). In Italia, in assenza di politiche pubbliche adeguate, le famiglie, le parentele, si stanno organizzando in modo privato. Da un lato viene intensificato il lavoro familiare, in particolare da parte delle donne anziane e nelle età centrali, che le ricerche mostrano essere le principali fornitrici di cura nei confronti degli anziani fragili (Buratta-Crialesi 2002). Dall'altro lato si ricorre al mercato privato del lavoro di cura, in cui è particolarmente abbondante l'offerta di lavoro da parte di donne migranti. Non a caso proprio questa figura di lavoratrici della cura (le cosiddette 'badanti') è stata al centro dell'ultima regolarizzazione della presenza di immigrati in Italia, approvata nel 2003. La presenza di queste figure, peraltro, ridisegna in modo complesso non solo l'esperienza degli anziani fragili stessi, ma la rete di relazioni entro la famiglia e la parentela, i compiti e le obbligazioni reciproche (Gori 2003).
La formazione di nuove famiglie
Non solo in Europa, ma in tutto l'Occidente negli ultimi dieci-quindici anni si è assistito a un progressivo dilazionamento dell'età al primo matrimonio. Questo fenomeno nella maggior parte dei paesi si è accompagnato a profonde modifiche dei modi di entrata nella vita adulta da parte delle giovani generazioni e dei processi di formazione della famiglia. In particolare, l'uscita dalla famiglia dei genitori è sempre meno legata in prima battuta al matrimonio o alla messa in coppia. Si può uscire da casa per andare a vivere con amici o da soli, oltre che con un compagno/a senza sposarsi. In altri termini, nella maggior parte dei paesi sviluppati si è aperta una fase della vita giovane-adulta in cui non si vive più come figli con i genitori (anche se da questi si può essere ancora sostenuti economicamente, per esempio, mentre si frequenta l'università), ma si fanno 'prove di vita autonoma', da soli o in coppia. Ciò che distingue la situazione italiana e di tutta l'area mediterranea, quindi, non è tanto il ritardo nell'entrata nel matrimonio, quanto il fatto che il matrimonio continui a essere il motivo principale di uscita dalla famiglia dei genitori, oltre che l'ambito in cui si decide di fare figli. Perciò i giovani italiani, in particolare i maschi, arrivano al matrimonio in età relativamente matura, ma senza aver sperimentato periodi di vita autonoma, da soli o in coppia.
Negli altri paesi, viceversa, sia il vivere da soli, sia lo stare in coppia senza essere sposati, sia, in minore ma crescente misura, avere figli senza essere sposati ma in una relazione di convivenza di coppia, sono divenute fasi normali della vita e di formazione della famiglia. In particolare, mentre in Italia (come in Spagna, Portogallo e Grecia) meno del 20% delle donne sotto i 30 anni ha come prima forma di vita di coppia un'esperienza di coabitazione senza matrimonio, ciò vale per la grande maggioranza delle loro coetanee svedesi, finlandesi e danesi e per circa la metà delle francesi, austriache, olandesi e tedesche (Nazio 2003). Alcuni indizi segnalano peraltro anche in Italia una tendenza a una maggiore propensione verso la convivenza, almeno per quanto concerne la sua diffusione come prolusione al matrimonio, una sorta di nuova forma di fidanzamento piuttosto che di matrimonio di prova. Negli ultimi anni sono infatti significativamente aumentati i matrimoni preceduti da un periodo di convivenza e questo periodo si è allungato, segnalando come stia emergendo una nuova modalità di entrata nella vita adulta e in particolare di messa in coppia. La quota di matrimoni preceduti da convivenza, infatti, è passata dal 2% delle coppie che si sono sposate negli anni Settanta al 7,7% di quelle che si sono sposate negli anni Ottanta al 13,7% di quelle che si sono sposate negli anni Novanta. Inoltre, tra la piccola minoranza di donne uscite dalla casa dei genitori prima dei 25 anni, la motivazione 'convivenza di coppia senza matrimonio' è passata dall'1,4% delle nate nel 1945-49 all'8,9% nelle nate nel 1970-73, con una corrispondente diminuzione della motivazione 'matrimonio' dall'89,2% al 71,5% (Rosina 2002). In occasione del censimento che è stato condotto nel 2001 le coppie eterosessuali conviventi senza essere sposate sono risultate più che raddoppiate in termini sia assoluti sia relativi rispetto ai dati di dieci anni prima: erano rispettivamente 216.005 unità e l'1,6% del totale delle coppie nel 1991, 510.251 e il 3,6% di tutte le coppie nel 2001.
Le convivenze hanno un'incidenza particolare nel Nord (5,1% nel Nord-Ovest, 4,9% nel Nord-Est), mentre hanno i valori più bassi nel Mezzogiorno (1,6% nel Sud, 2,1% nelle isole). Inoltre sono più diffuse tra le persone ad alta istruzione e tra le coppie in cui entrambi i partner lavorano. Ciò segnalerebbe che anche in Italia le convivenze - prematrimoniali o sostitutive del matrimonio - costituiscono una sorta di strumento di negoziazione dei ruoli di genere in un contesto in cui le aspettative delle donne sono mutate. In effetti le poche ricerche esistenti sulle convivenze more uxorio segnalano che si tratta di coppie tendenzialmente non solo più giovani, ma più paritarie di quelle sposate per quanto riguarda la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, la partecipazione degli uomini al lavoro familiare e la gestione del denaro (Bonato 1995, 1997; Pocar-Ronfani 1992; Rosina 2002). Sono anche per lo più senza figli. Alcuni studiosi (per es. Barbagli-Castiglioni-Dalla Zuanna 2003) suggeriscono che la maggiore accettazione e la diffusione differenziale per classe sociale e collocazione territoriale delle convivenze giovanili in Italia siano in larga parte dovute alla generazione dei genitori con istruzione medio-alta, oggi cinquantenni, che quando erano giovani hanno partecipato direttamente o indirettamente alle trasformazioni culturali e comportamentali della fine degli anni Sessanta e che oggi appunto accettano comportamenti non tradizionali da parte dei figli.
L'Italia, comunque, rimane tra i pochissimi paesi europei e occidentali in cui le convivenze di fatto, giovanili ma anche quelle tra adulti, le solidarietà e le obbligazioni che si costruiscono al loro interno, non ricevono alcun riconoscimento. Per la legge italiana i conviventi, pur con una lunga storia comune, sono considerati come estranei. In realtà, questa estraneità giuridica progressivamente è stata in parte smentita dal legislatore stesso, sia pure in modo tangenziale: da tempo i rapporti affettivi e di solidarietà sono riconosciuti in alcune norme del diritto penale e assicurativo; più di recente, la riforma della legge sull'adozione del 2001 ha aperto parzialmente la possibilità di adottare alle coppie conviventi, purché al momento dell'adozione - ma non in quello della dichiarazione della loro idoneità a farlo - siano convolate a nozze. La legge sulla fecondazione assistita approvata nel febbraio 2004, che pure definisce in modo rigidissimo che cosa sia una famiglia e una filiazione legittima e 'naturale', imponendo che la fecondazione assistita avvenga solo entro la coppia, ha aperto anche ai "conviventi da tempo" la possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione assistita consentite, riconoscendo loro di fatto lo status di coppia, sebbene non sia chiaro su quali elementi si baserà tale riconoscimento.
La diffusione delle coabitazioni senza matrimonio si accompagna all'aumento della nascite naturali, cioè fuori dal matrimonio, che tutti i 15 paesi dell'Unione Europea hanno conosciuto dagli anni Settanta in poi.
I bambini nati fuori dal matrimonio oggi, a differenza di un tempo, vivono più spesso con entrambi i genitori che non con la sola madre (e i bambini che vivono con la sola madre sono più spesso figli di coppie coniugate che si sono separate o divorziate, o di coppie non sposate conviventi che si sono dissolte). In questa tendenza generale, tuttavia, le differenze intraeuropee sono molto grandi (Eurostat 2003b): a un estremo c'è la Grecia, con il 4,1% di nascite naturali, seguita dall'Italia con il 9,6% e dalla Spagna con il 17%; all'altro ci sono la Francia con il 42%, la Danimarca con il 44% e soprattutto la Svezia con il 55%. In mezzo ci sono Portogallo, Germania, Austria, Irlanda e Olanda con tassi dal 24 al 33%. In altri termini, nei paesi in cui le convivenze, giovanili o anche adulte, sono più diffuse ciò non comporta necessariamente anche un posponimento delle nascite. Si tratta anche degli Stati attualmente a più elevata fecondità in Europa - 1,6-1,7 figli per donna - ancorché al di sotto dei livelli di sostituzione, a più alto tasso di instabilità coniugale e, nel caso soprattutto dei paesi scandinavi, anche con i più alti, e più consolidati, tassi di occupazione femminile, sostenuti sia da una rete di servizi di cura capillari sia da un forte orientamento alle pari opportunità e al riequilibrio delle responsabilità familiari tra uomini e donne.
L'osservatorio europeo sollecita quindi alcune riflessioni circa l'ovvietà dei nessi che siamo abituati a stabilire tra solidità dei legami di coppia e familiari tradizionali, e disponibilità a formare nuove famiglie, un'ovvietà che motiva, tra l'altro, le resistenze a ogni forma di riconoscimento delle famiglie di fatto. Negli ultimi dieci anni almeno, questo nesso sembra essersi allentato, se non ha cambiato segno: sono i paesi in cui il matrimonio costituisce la forma di gran lunga prevalente di coabitazione di coppia, i matrimoni sono più stabili, la divisione del lavoro in base al genere più persistente, i rapporti (e le obbligazioni) tra generazioni più prolungati e dati per scontati, quelli in cui i giovani non solo escono più tardi dalla famiglia, ma hanno meno figli. Al punto che un acuto osservatore come Giampiero Dalla Zuanna (2001) ha parlato, a proposito del caso italiano, dei "pochi figli della famiglia forte". Viceversa, modelli e comportamenti di genere più egualitari, una definizione meno univoca e rigida dei rapporti di coppia dotati di riconoscimento sociale a livello sia valoriale sia di norme sociali e nelle politiche, se comportano maggiori rischi di instabilità per le coppie, incentivano però anche maggiormente i giovani a non dilazionare forme di vita adulta, a uscire dall'esclusivo status di figli non solo per andare a vivere per conto proprio, ma per entrare in convivenze di coppia e anche assumere responsabilità verso uno o più figli. Come se un'idea di famiglia 'più leggera' (che non significa non responsabile), perché meno segnata da forti dipendenze e interdipendenze, fosse meno scoraggiante o più attraente, in un'epoca contraddistinta da molteplici incertezze circa la durata di tutti i rapporti rilevanti: quelli di coppia, ma anche di lavoro e in parte di collocazione territoriale.
Il fenomeno dell'instabilità coniugale
È noto che i tassi di instabilità coniugale in Italia sono relativamente contenuti rispetto alla media dei paesi sviluppati e anche limitatamente a quelli dell'Unione Europea, riguardando meno di un quarto di tutti i matrimoni a fronte del 40-50% di Germania, Francia, Olanda, Austria e paesi scandinavi. Tuttavia si tratta di un fenomeno in costante aumento. A fronte di 7,7 separazioni ogni 100 matrimoni nel 1980, ce ne sono state 19,5 nel 1998 e 22,4 nel 2000 (ISTAT 2003a).
La metà circa (una proporzione costante) di queste separazioni si trasforma in divorzi. La 'pausa di riflessione' imposta per legge e ribadita nel 2003 sembra, da questo punto di vista, una pena inutile inflitta a chi vuole porre fine al matrimonio: chi è intenzionato a divorziare lo fa comunque e spesso, nell'attesa, forma una nuova coppia 'di fatto'. Chi non vuole divorziare non torna comunque con il partner.
L'instabilità coniugale presenta un'incidenza più elevata nelle regioni del Centro-Nord, ma l'aumento percentuale è oggi maggiore nel Mezzogiorno. Infine, sono in via di modificazione le caratteristiche stesse delle coppie separate: non più, almeno nel Centro-Nord, prevalentemente coppie istruite di ceto medio-alto, ove nella maggior parte dei casi la moglie aveva un lavoro relativamente ben remunerato, ma coppie di ceto medio-basso, in cui i coniugi hanno titoli di studio medi o medio-bassi e quindi più difficilmente hanno accesso a un reddito adeguato a fronteggiare i costi della riorganizzazione derivanti dalla separazione (Barbagli-Saraceno 1998). Da questo punto di vista l'Italia sta divenendo più simile agli altri paesi europei, in cui il fenomeno dell'instabilità coniugale è diffuso da più tempo, e da prerogativa d'élite è passato a riguardare tutta la popolazione e perciò a rispecchiarne le caratteristiche sociodemografiche. È ipotizzabile che ne riprodurrà anche i rischi, in termini di vulnerabilità economica delle famiglie monogenitore, specie se l'unico genitore presente è la madre (Lone mothers... 1997; Millar-Rowlingson 2002).
L'aumento dell'instabilità coniugale ha fatto crescere il numero delle famiglie con un solo genitore, passate da 1.840.124 nel 1991 a 2.100.999 nel 2001. In oltre il 90% dei casi l'unico genitore presente è la madre, stante la pratica prevalente di affido dei figli dopo la separazione. Proprio questa pratica è oggi oggetto di dibattiti e anche critiche crescenti e nel 2003 sono state presentate alcune proposte di legge intese a favorire, se non imporre, l'affido condiviso. Questa richiesta tuttavia non deriva dalla constatazione del maggior rischio di impoverimento in cui incorrono le famiglie monogenitore con la sola madre, a causa degli effetti negativi (sulla capacità reddituale delle donne) della divisione del lavoro nel matrimonio e della non sempre adeguata definizione del contributo economico dovuto dal genitore non affidatario (per lo più il padre). Deriva piuttosto dalla consapevolezza della necessità di contrastare l'indebolimento dei rapporti padri-figli dopo la separazione e di superare la gerarchia, tra il genitore più adatto e quello meno adatto, implicita nelle pratiche di affidamento.
L'aumento dell'instabilità coniugale favorisce la costituzione di famiglie cosiddette ricostituite, in cui cioè uno o entrambi i partner provengono da un matrimonio precedente. Non sono più solo o prevalentemente i vedovi o le vedove a formare una nuova coppia, ma i/le separate e i/le divorziate. Al censimento del 2001 le famiglie ricostituite sono risultate il 5,1% di tutte le famiglie di coppia. Si tratta di famiglie, ma anche di parentele, particolarmente complesse quando sono presenti figli del matrimonio precedente.
La partecipazione delle donne alla vita lavorativa
In tutto l'Occidente le maggiori modifiche nel mercato del lavoro riguardano l'aumento dell'offerta e della partecipazione delle donne, in particolare di quelle coniugate con figli, ciò che segnala modifiche sia nei modelli di genere sia nell'organizzazione della famiglia. Tuttavia, salvo che nei paesi scandinavi, ovunque le donne con figli, specie se minori, hanno tassi di attività più bassi e talvolta molto più bassi, delle donne senza figli. Le differenze tra paese e paese sono molto sensibili: si passa dall'80% delle madri lavoratrici con tre figli in Danimarca al 35,7% in Italia e al 30,3% in Irlanda (OECD 2001). L'Italia e i paesi mediterranei in generale (con l'esclusione del Portogallo) sono rimasti gli unici, tra quelli sviluppati, in cui il tasso di attività femminile diminuisce già con il matrimonio. Nel 2002 in Italia era occupato l'83,7% delle donne in età 30-39 anni non coniugate e senza figli, il 71,4% delle coniugate, il 50,3% delle coniugate con figli.
Le differenze nei tassi di partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne con responsabilità familiari non riguardano solo i confronti tra paesi, ma anche le diversità a livello intranazionale e di titoli di studio. In particolare, l'effetto negativo della presenza di responsabilità familiari è più alto per le donne a bassa qualificazione e che vivono nel Mezzogiorno rispetto a quelle con titolo di studio medio-alto e che vivono nel Centro-Nord (ISTAT 2003b). L'istruzione per le donne appare ancora più importante che per gli uomini a fini occupazionali e come fattore di differenziazione sociale: incide infatti non solo sul tipo di lavoro cui si può aspirare ma anche sulla possibilità stessa di rimanere nel mercato del lavoro, a parità di ogni altra condizione. Le donne con titolo di istruzione più alto che vivono nel Centro-Nord sono maggiormente in grado di rimanere nel mercato del lavoro lungo il ciclo di vita familiare perché hanno più risorse per acquistare servizi di cura (anche perché sono per lo più sposate a uomini che guadagnano come e più di loro) e perché sono oggetto di un investimento più elevato da parte dei datori di lavoro.
La rilevanza di responsabilità familiari per l'offerta di lavoro femminile, quindi anche per la possibilità che una famiglia abbia uno o due redditi da lavoro e per la protezione dalla povertà che comporta il lavoro remunerato della moglie-madre, non dipende solo dalla domanda di lavoro e dall'offerta di servizi (che pure in Italia è largamente insufficiente sia per la primissima infanzia sia per gli anziani fragili). Dipende anche dalla divisione del lavoro familiare in base al genere. Diverse ricerche, anche comparate, hanno segnalato come nelle famiglie italiane i mariti/padri aiutano molto poco le donne nel lavoro domestico e nella cura dei figli (Saraceno 2003a), e anche nella cura delle persone parzialmente o totalmente non autosufficienti (anziani fragili, invalidi). Ciò si riflette sulle differenze nel carico di lavoro complessivo sostenuto da madri e padri, mogli e mariti, anche, se non soprattutto, quando le donne sono occupate. In particolar modo, gli studi sull'uso del tempo che sono stati effettuati a partire dagli anni Novanta dall'ISTAT e recentemente anche dalla Banca d'Italia, indicano che le donne occupate con carichi familiari lavorano complessivamente - nel lavoro remunerato e in quello familiare - dalle 9 alle 11 ore in più alla settimana degli uomini, nonostante abbiano in media orari di lavoro remunerato più corti e tempi di trasporto più brevi. Le differenze di impegno nel lavoro remunerato tra mariti di donna occupata e mariti di donna casalinga sono inferiori all'ora giornaliera (Saraceno 2003b).
Famiglie 'miste' e famiglie 'straniere'
I flussi migratori che hanno interessato l'Italia negli ultimi anni hanno fatto aumentare due tipi di famiglia, prima del tutto marginali nel nostro paese: quelle costituite da coniugi entrambi stranieri e quelle costituite da un coniuge italiano e uno straniero. In entrambi i casi l'incremento è dovuto alla presenza di migranti provenienti da paesi in via di sviluppo. Questi fenomeni sono l'indicatore di complessi processi di integrazione dei migranti nella società italiana, un segnale insieme di stabilizzazione e di apertura di nuove problematiche (Balsamo 2003).
Le famiglie straniere presenti in Italia sono per lo più esito di ricongiungimenti di famiglie già formate prima altrove. Si tratta in genere di coniugi che si riuniscono, ma a volte anche di genitori e figli e di altri membri della parentela. In alcuni casi i legami generazionali non riguardano genitori e figli, ma zii e nipoti (analogamente a quanto avveniva nelle migrazioni interne degli anni Cinquanta e Sessanta). In altri il ricongiungimento riguarda i figli, ma non il coniuge, o viceversa. Naturalmente anche le culture di provenienza, i modelli di famiglia, di genere e di rapporti tra le generazioni, sono molto diversi non solo da quelli prevalenti in Italia, ma anche tra loro, ponendo distinti problemi di reciproco adattamento.
Ancora più del fenomeno dei ricongiungimenti familiari, può essere considerato un indicatore di integrazione del fenomeno migratorio nella società italiana l'aumento dei matrimoni misti (Legami familiari… 2001).
Sono più gli uomini che non le donne a sposare una persona straniera (le nozze con marito italiano sono oltre il 77% di tutti i matrimoni misti; Zanatta 2003), per lo più proveniente dall'Europa dell'Est o dall'America Latina. Provengono invece in prevalenza dall'Africa settentrionale gli stranieri sposati a donne italiane.
I matrimoni misti, ma anche le famiglie straniere, sono più diffusi nelle regioni settentrionali del paese, meta privilegiata dei flussi migratori. È in particolare nelle grandi città del Nord che un numero crescente di figli di queste famiglie è presente nelle scuole e nei servizi per l'infanzia, sollecitando riflessioni sulle pratiche di integrazione, negoziazione delle differenze, interculturalità.
Oltre la coppia eterosessuale?
Storicamente e antropologicamente la famiglia, come ambito di alleanza e di riproduzione delle generazioni, è stata fondata sull'eterosessualità. Diversi fenomeni tuttavia hanno contribuito a indebolire l'ovvietà e l'ineluttabilità di questo fondamento. Tra questi si può segnalare da un lato la crescente accettazione sociale dell'omosessualità come pratica sessuale, ma anche come rapporto affettivo, legittimo, non patologico, unitamente a una modifica delle stesse pratiche e culture omosessuali, che negli ultimi anni sono andate verso una crescente valorizzazione dei rapporti di coppia tendenzialmente stabili (Barbagli-Colombo 2002; Diversi da chi? 2003). Dall'altro lato vi sono state le modifiche che hanno coinvolto la stessa coppia e famiglia eterosessuale, che abbiamo prima brevemente richiamato: l'indebolimento del matrimonio come unico ambito di sessualità legittima; la crescente instabilità della coppia e di conseguenza delle relazioni intergenerazionali; la dissociazione tra sessualità e riproduzione e forte riduzione della fecondità e la diffusione, ancorché limitata, di matrimoni non fecondi per scelta e non solo per necessità. A queste si possono aggiungere la crescente accentuazione delle dimensioni di intenzionalità, di scelta, e non solo biologiche che strutturano le relazioni anche genitoriali (l'esplicitazione più chiara è rappresentata dall'adozione) e contemporaneamente lo sviluppo di tecniche che consentono la riproduzione al di fuori dell'atto sessuale. Tutti questi fenomeni indeboliscono l'ovvietà del mandato eterosessuale come univoca garanzia di stabilità, di riproduzione, di certezza dei rapporti intergenerazionali.
In molti paesi le coppie omosessuali hanno un riconoscimento anche di tipo giuridico: nei Paesi Bassi e in Germania possono accedere al matrimonio - appunto l'istituzione storica dell'eterosessualità - esplicitando in modo radicale come esso abbia cambiato significato anche per gli stessi eterosessuali, non essendo più considerato principalmente strumento di attribuzione della paternità o di trasmissione dei patrimoni, ma istituzione dell'affettività e della solidarietà. È una trasformazione che costituisce, e forse costituirà, nel prossimo futuro, una delle fratture culturali e valoriali che attraversano le società contemporanee e con la quale devono e dovranno fare i conti anche i paesi, come l'Italia, che ancora non riconoscono alle relazioni tra persone omosessuali alcuna rilevanza sociale, quando non le condannano esplicitamente.
bibliografia
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repertorio
La famiglia nei secoli
Etimologia del termine
L'etimologia della parola 'famiglia' va ricercata nel latino familia che, come famulus, "servitore", da cui deriva, è voce italica, forse prestito osco, e indicava dapprima l'insieme degli schiavi e dei servi viventi nella casa del dominus, il padrone; successivamente il significato si ampliò a comprendere, più in generale, liberi e servi e dunque anche la moglie, i figli, i liberti, i clienti. Ancora in epoca tardomedievale con familia ci si riferiva alle persone di servizio di una dimora o a un gruppo di non liberi sottoposti a un signore di cui occupavano le terre. La nozione moderna di famiglia, come complesso di soggetti legati fra loro da un rapporto di parentela, di affinità, di matrimonio, o come nucleo più ristretto composto dai coniugi, dai figli ed eventualmente da ascendenti o collaterali che condividano lo stesso spazio domestico, si impone e normativizza con il Codice napoleonico, prima espressione di una regolamentazione ampia e pervasiva della vita degli individui da parte dello Stato.
La famiglia nell'antichità
Caratteristiche della famiglia nell'antico Egitto erano la posizione importante della madre e la libertà e indefinitezza nei rapporti fra i sessi, assai lontane dalle concezioni dei greci e dei semiti: di qui lo scarso senso della genealogia, complicata anche dall'uso di imporre lo stesso nome a più figli, tutti viventi. Una più salda e ordinata compagine familiare si trova nella civiltà mesopotamica antica, a base nettamente patriarcale: accanto al capofamiglia e alle sue mogli (in generale non più di due per le classi elevate, tanto che il matrimonio presso babilonesi e assiri può dirsi quasi monogamico), vivevano i figli, compresi quelli adottivi; la patria potestà era assai estesa, ma in parte minore ne era partecipe anche la madre; in generale il diritto babilonese assicurava alla donna una posizione abbastanza elevata nella vita sociale.
È con la famiglia ebraica, pur non mancando indizi di un antichissimo stadio matriarcale, che troviamo saldamente stabilito il patriarcato, che improntava di sé tutte le relazioni familiari. La moglie era giuridicamente e socialmente in tutto soggetta al marito, che era il suo signore e da cui per mezzo della dote veniva acquistata alla famiglia paterna: la poligamia e il divorzio unilaterale ne suggellavano l'inferiorità, che il mondo ebraico avrebbe trasmesso a quello musulmano. La monogamia non si impose mai giuridicamente, benché incoraggiata dal profetismo; dal punto di vista legale non esisteva differenza tra i figli delle mogli legittime e quelli delle concubine, giacché tutti dividevano con pari diritti l'eredità paterna. Della famiglia ebraica facevano parte anche gli schiavi, che erano trattati in genere con benevolenza.
La famiglia greca, che noi conosciamo soprattutto negli aspetti che questo istituto presentava in Atene, era essenzialmente unita da un vincolo sacrale (culto comune, doveri reciproci d'indole sacra tra membri): il padre ne era capo assoluto, la rappresentava e ne rispondeva dinanzi alla città. La trasmissione del patrimonio avveniva dal padre al figlio maschio; nel caso non vi fossero figli maschi, si faceva ricorso all'istituto dell'epiclerato, per il quale la figlia che succedeva al padre senza avere fratelli maschi era tenuta, in limiti diversi, a sposare il parente più prossimo in linea maschile, o eventualmente in linea femminile, a cominciare dai fratelli del padre stesso. La donna, pur esercitando il governo della casa e dei bambini, conduceva vita molto appartata e solo in età ellenistica cominciò a godere di una maggiore libertà. Al contrario l'uomo fruiva in genere di un'assoluta libertà anche nei riguardi della legittima sposa, potendo intrattenere relazioni fuori della casa, con qualsiasi altra donna. I figli maschi divenivano cittadini solo quando, fattisi adulti, erano iscritti dal padre nei registri del demo: ma continuavano, sino al matrimonio, a essere soggetti in casa all'autorità del padre che poteva anche bandirli dalla sua presenza o diseredarli. La figlia era soggetta sino alle nozze al padre, che ne decideva del matrimonio stesso e la prometteva solennemente allo sposo.
La natura e la storia della famiglia romana si possono comprendere solo distinguendo da un lato gli istituti familiari che si riferiscono alla familia iure proprio, che è la famiglia schiettamente romana, dall'altro quelli che riguardano invece i rapporti di sangue e cioè la famiglia domestica (per la quale il linguaggio giuridico romano non ha un termine preciso). L'evoluzione storica si compie, per grandi linee, nel senso di un lento, progressivo dissolversi dei primi in favore dei secondi: ma non è possibile segnarne con esattezza le tappe, come è estremamente difficile risalire alle origini. La struttura primitiva della familia ha costituito per storici e giuristi un problema: una delle teorie maggiormente accreditate ha visto nella familia romana un gruppo preesistente alla civitas, nato per ragioni di ordine e di difesa come vero e proprio organismo politico con i caratteri essenziali e le funzioni dello Stato. Il rafforzarsi dei poteri della civitas portò allo sfaldamento degli organismi sottostanti: resistette la familia, ma anch'essa gradualmente perdendo l'antica connotazione di gruppo politico. Entro la familia organismo politico vivevano le società domestiche intese a mantenere l'ordine etico nelle relazioni fra i due sessi e aventi per scopo la procreazione e l'educazione dei figli: esse erano sottoposte al paterfamilias, titolare unico della sovranità sulle persone che facevano parte del gruppo e sulle cose che a questo appartenevano. Tale sovranità si distingueva secondo le persone su cui era esercitata, e cioè sui filiifamilias e sulle donne entrate nel gruppo (potestas, manus), sugli schiavi (dominica potestas), sui filiifamilias altrui, venduti o ceduti in espiazione di delitti commessi, e sulle cose (mancipium). Via via che la civitas allargò i propri poteri a scapito della familia politica, si attenuò progressivamente la sovranità del paterfamilias: per es. il consenso del padre, essenziale per gli sponsali e il matrimonio della figlia, si trasformò in consenso passivo e in casi eccezionali non era richiesto. Sotto gli imperatori cristiani la patria potestas precipitò, finché nel diritto giustinianeo fu ridotta a un potere puramente domestico. Completamente diverso era il quadro della famiglia naturale vivente all'interno della familia romana. I rapporti giuridici non dipendenti dalla patria potestas fra genitori e figli erano basati sul vincolo di sangue: i figli non potevano agire in giudizio contro i genitori senza autorizzazione del magistrato, né potevano intentare azioni infamanti contro di loro; i genitori godevano di fronte ai figli del beneficium competentiae e gli uni e gli altri erano esenti dall'obbligo della testimonianza. I genitori erano obbligati a educare la prole e avevano il diritto di tenerla presso di sé. Sotto l'Impero sorse il diritto reciproco agli alimenti. Il fulcro di questo ordinamento domestico era il matrimonio, basato sulla volontà continua ed effettiva di essere marito e moglie e sulla convivenza, intesa non soltanto in senso materiale, ma anche come esistenza di quel complesso di relazioni che i romani designavano con il nome generale di honor matrimoni.
Alle origini la famiglia germanica, più che come società domestica fondata sul vincolo del sangue, si presentava come organismo politico che non abbracciava tutte le persone discendenti dal medesimo ceppo, ma si restringeva a coloro che ne discendevano per via maschile. La famiglia, unità fondamentale dell'esercito, era anche un consorzio diretto a mantenere l'ordine nell'interno, assicurando la pace di tutti i suoi membri, e a far rispettare al di fuori i diritti di coloro che vi appartenevano, punendo l'uccisione o anche la semplice offesa di qualsiasi membro della comunità da parte di un estraneo. L'autorità paterna, a carattere sacrale (il padre era anche il sacerdote domestico), era amplissima in origine, ma fu progressivamente limitata dallo Stato; essa cessava inoltre con la maggiore età del figlio, che coincideva con il momento in cui questi entrava a far parte dell'esercito. Anche la potestà sulla donna non corrispondeva esattamente alla manus del paterfamilias romano: entrando a far parte della nuova famiglia, la donna non spezzava del tutto i legami con la famiglia nativa. Nei rapporti patrimoniali il padre non aveva la disponibilità dei beni della famiglia, ma li deteneva e amministrava a vantaggio di questa; i membri della famiglia a loro volta avevano un diritto d'aspettativa sul patrimonio familiare.
Diritto canonico e diritto laico
Solo a partire dal 4°-5° secolo, con il crollo del potere imperiale e l'affermarsi della Chiesa come autorità costituita e riconosciuta, si delineò la grande frattura con la concezione del mondo antico, in quanto la nuova fede privilegiava l'individuo, il credente contro i legami familiari. Già nel 321 Costantino aveva autorizzato un proprietario a dare i beni alla Chiesa, cioè a preferire Dio ai suoi parenti. La condanna dell'endogamia familiare si fece man mano sempre più precisa (si vedano, per es., gli scritti di sant'Agostino) e, a poco a poco, il vecchio edificio legislativo romano, che doveva assicurare la continuità della famiglia, fu smantellato. Nel 393 si vietò il matrimonio con un fratello o una sorella del primo congiunto deceduto (impedimento di affinità); nel 6° secolo, il divieto di matrimonio tra consanguinei fu allargato al terzo grado canonico (secondi cugini) per passare poi al quarto grado, al settimo nell'11° secolo e tornare definitivamente al quarto grado con il IV Concilio Lateranense nel 1215. A tali divieti si aggiunsero gli impedimenti riguardanti la parentela 'spirituale' (padrini e figliocci). Questo dispositivo fu completato da una normativa che mirava a ridurre al minimo le possibilità a disposizione della famiglia per conservare nel suo seno la proprietà: furono così vietati il divorzio (che permetteva di sposarsi di nuovo nel caso in cui la prima moglie si fosse rivelata sterile) e il concubinato (che attraverso la legittimazione dei bastardi costituiva un mezzo per assicurare la continuità della famiglia), mentre l'adozione (cioè la creazione di una discendenza 'sociale' in caso di mancata discendenza diretta) fu considerata negativamente. Nello stesso tempo si accentuò il ruolo della famiglia coniugale (contro la famiglia 'larga') e si affermò la natura consensuale del matrimonio (elemento ereditato dal diritto romano). Tra i diritti riconosciuti alla donna c'era, in particolare, quello di ereditare e di disporre dei propri beni.
Un ulteriore livello di complicazione derivò storicamente dalla dialettica complessa tra l'applicazione di questo insieme di regole e le realtà economiche, sociali e anche culturali spesso fortemente differenziate da paese a paese o da regione a regione, una dialettica che non consisteva solo in processi di adattamento ma anche di manipolazione delle norme stesse. Spesso ne derivarono violente lotte di potere che opposero la Chiesa all'alta aristocrazia preoccupata di regolare gli scambi matrimoniali in un quadro politico preciso e, spesso, in una cerchia ristretta di parenti. Le vicende matrimoniali di Enrico VIII che portarono alla sua scomunica e allo scisma anglicano non sono, da questo punto di vista, che l'aspetto più spettacolare e appariscente di un conflitto plurisecolare. Su questo piano, una frattura profonda e definitiva finì con separare gran parte dell'Europa del Nord protestante da quella meridionale cattolica. La Riforma, infatti, modificò il diritto familiare e ristabilì in parte il controllo della 'corporazione dei parenti'; in particolare, valorizzò la necessità del consenso dei genitori per i matrimoni e smantellò il sistema degli impedimenti, riducendo notevolmente quelli di consanguineità e di affinità e abolendo quelli di parentela spirituale. Il matrimonio cessò pertanto di essere un sacramento per tornare ad assumere un carattere mondano. In casi specifici, il divorzio fu nuovamente possibile. Successivamente il Concilio di Trento, invece, riaffermò con forza la validità delle norme canoniche in materia di matrimonio e di famiglia e diede avvio a un'azione concreta e capillare tendente a una loro applicazione rigorosa (tenuta regolare di registri parrocchiali, ricerca preventiva degli eventuali impedimenti al futuro matrimonio, denuncia dei concubini, dei bigami ecc.).
Va sottolineato tuttavia che al di là dei conflitti tra la Chiesa e le classi dirigenti si riscontrò, per tutto il periodo medievale, una sostanziale concordanza tra gli indirizzi promossi dal diritto canonico e quelli del diritto laico statale, tendente anch'esso a controllare la famiglia e i suoi beni. Così, già le Costituzioni di Melfi di Federico II nel 1231 limitavano la successione nei feudi alla linea diretta discendente e, soltanto se il feudo era antico (cioè posseduto già almeno dal nonno), al fratello o al nipote del feudatario defunto. In nessun caso i collaterali, zii o cugini, potevano ereditare. Lo scopo di questi decreti era, come nella legislazione canonica, quello di privilegiare la linea a scapito del lignaggio e di permettere, in assenza di eredi, devoluzioni regolari di patrimonio in favore del fisco. Tuttavia, con l'affermarsi dello Stato moderno anche il potere laico impose riforme, il cui scopo era stabilizzare la proprietà dei beni e premiare gli interessi e l'iniziativa familiare. La via seguita fu quella dell'estensione della fascia degli eredi possibili: già nel 1419, in Castiglia, il potere regio consentì la trasmissione dei feudi in linea trasversale; nel 1532, Carlo V autorizzò, per il regno di Napoli, il passaggio dei feudi allo zio paterno, poi nel 1548 ai cugini fino al terzo grado. Dappertutto i risultati furono gli stessi: i feudi cessarono di cambiare possessore e si trasformarono in proprietà di fatto delle famiglie che ne erano investite. Si manifestò chiaramente la tendenza a riproporre la famiglia come un centro di meccanismi di accumulazione della ricchezza. Iniziò la storia della famiglia borghese, anche se nei paesi cattolici bisognerà aspettare la Rivoluzione francese e le misure di secolarizzazione e laicizzazione dell'Ottocento (tra cui il Codice napoleonico) per vedere il processo di trasformazione pienamente realizzato.
Lo stereotipo della famiglia preindustriale
La visione tradizionale della famiglia ai tempi dell'Europa preindustriale si basa su uno stereotipo, dominante fino agli anni Sessanta del 20° secolo, in base al quale si riteneva che la popolazione europea dei secoli 16° e 17° si sposasse tutta in età precoce e trascorresse la propria vita in grandi famiglie patriarcali, composte da molte unità coniugali. Secondo questa concezione, i matrimoni (esclusivamente monogamici) erano straordinariamente stabili e prolifici, le coppie si scioglievano solo per la morte di uno dei coniugi e i rapporti tra i membri erano regolati da una rigida gerarchia di posizioni e di ruoli, definiti sulla base di caratteristiche ascritte quali età, sesso, ordine di nascita. Tuttavia, come molti studiosi hanno ampiamente dimostrato, si tratta di una visione che, oltre ad accentuare ed esagerare alcuni tratti caratteristici delle famiglie preindustriali, non tiene conto delle profonde differenze in termini regionali e sociali esistenti riguardo ai sistemi di formazione e alla struttura della famiglia. Le ricerche del demografo inglese John Hajnal (1965) hanno rivelato che per molti secoli nei paesi dell'Europa occidentale le persone di entrambi i sessi si sposavano a un'età avanzata (26-27 anni per gli uomini e 23-24 per le donne) e che invece in quelli dell'Europa orientale, come in altri continenti del mondo, prevaleva il modello del matrimonio precoce; studi successivi hanno poi precisato che vi erano aree dell'Europa occidentale (la zona meridionale della penisola iberica, l'Irlanda, la Sicilia e la Puglia) che facevano eccezione e nelle quali il matrimonio era precoce. Inoltre, nell'Europa nordoccidentale le persone, quando si sposavano, seguivano la regola della residenza neolocale; nell'Europa orientale, invece, le nuove coppie seguivano in genere la regola della residenza patrilocale e andavano a far parte di una famiglia multipla, in cui vi era un'altra coppia più anziana (di solito i genitori del marito).
A lungo ha imperato la tesi che l'industrializzazione, promuovendo la mobilità geografica e quella sociale, abbia fatto perdere completamente d'importanza ai rapporti di parentela e reso la famiglia nucleare sempre più indipendente e isolata. I risultati delle ricerche storiche e sociologiche condotte a partire dagli anni Settanta-Ottanta del 20° secolo hanno tuttavia messo radicalmente in discussione l'idea che il periodo dell'industrializzazione costituisca il grande spartiacque fra la famiglia 'tradizionale' e la famiglia 'moderna'. Per es. dall'analisi di liste nominative di 100 comunità inglesi per il periodo 1574-1821 è emerso che il numero medio di persone per famiglia è rimasto costante. Invariata è restata anche la struttura familiare di questa comunità, visto che in tutto il periodo considerato la quota delle famiglie complesse (cioè estese e multiple) si è sempre aggirata intorno al 10%. Ciò dimostrerebbe che in Inghilterra la famiglia nucleare borghese ha preceduto di secoli l'industrializzazione. Inoltre, ricerche sociologiche condotte negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia e in Italia indicano che anche nelle società più avanzate la famiglia nucleare opera nell'ambito di una rete fitta e solida di rapporti e di scambi fra parenti, mostrando dunque che la rete parentale conserva un ruolo centrale anche nelle società sviluppate e che essa, ben lungi dallo scoraggiare o dall'impedire i processi di mobilità sociale orizzontale e verticale, li facilita o per lo meno li rende meno dolorosi.
La matrice dello stereotipo della famiglia 'tradizionale' va ricercata nello schema elaborato dagli evoluzionisti nella seconda metà del 19° secolo, quando la storia dell'uomo veniva incasellata in stadi evolutivi corrispondenti a tipi diversi di organizzazione familiare. In questa visione acritica, la realtà contemporanea, cioè la famiglia nucleare di stampo borghese (sia europea sia nordamericana) composta da un uomo e una donna sposati e dalla loro prole, fu considerata espressione massima di sviluppo e civiltà, base della società moderna e servì come modello di riferimento primario e universale rispetto al quale tutte le società in 'ritardo' avrebbero prima o poi dovuto adeguarsi. Teorie successive sostennero che il modello della famiglia nucleare fosse un'unità sociale universale, radicata nella biologia umana. Sia nel primo sia nel secondo caso, l'esperienza dell'organizzazione del proprio mondo sociale era diventata un pericoloso metro di giudizio, un progetto ideologico.
Dal Codice napoleonico al 20° secolo
Del processo che condusse all'elaborazione dello stereotipo evoluzionista fu tipica espressione il Codice napoleonico che gettò le basi di un'organizzazione familiare intesa come nucleo elementare ed essenziale della struttura dello Stato. Abbandonando l'idea sacramentale e religiosa del matrimonio e le prerogative ecclesiastiche connesse, il Codice ribadì i caratteri del matrimonio quale atto contrattuale con finalità sociale retto dalle sole leggi dello Stato; ammise, per cause specifiche, il divorzio contro il principio dell'indissolubilità; pose limiti alla potestà maritale senza peraltro abolirla; conferì solo al padre, salvo in caso di scioglimento del matrimonio, l'esercizio della patria potestà e la limitò nel tempo ai soli figli in età minore; con riferimento ai rapporti patrimoniali cercò di favorire il sistema della comunione dei beni, pur senza sopprimere il regime dotale.
Insieme ai mutamenti legislativi incisero ovviamente sulla struttura della famiglia europea i grandi cambiamenti economici e sociali: rivoluzione agricola, rivoluzione industriale, rivoluzione demografica, emigrazione massiccia verso i paesi extraeuropei e dalle campagne verso le città. Ma non si trattò di un processo semplice e lineare: gli effetti si manifestarono in modo differenziato da paese a paese producendo esiti spesso opposti. Il movimento di urbanizzazione, rafforzato da un rapido sviluppo industriale, contribuì solo inizialmente a stemperare l'immagine della famiglia rurale tradizionale. La comunità del villaggio rendeva obbligatoria una comunicazione costante tra i membri di un gruppo coniugale e i parenti, i vicini, i compagni di lavoro; lo stesso gruppo, nei grandi agglomerati, sembrò rinchiudersi in sé stesso. Tuttavia, le famiglie giovani, non riuscendo a superare da sole le difficoltà, spesso cercavano solidarietà presso parenti e amici, intessendo una rete di rapporti, in parte per necessità, in parte sulla base di modelli tradizionali persistenti. Per questo, oltre alla tanto studiata 'nuclearizzazione' della famiglia, in tutta Europa, in momenti e con intensità differenti, l'Ottocento fece registrare una vera esplosione di matrimoni fra consanguinei.
Nella prima metà del 20° secolo si fecero ancora più evidenti, rispetto al passato, le diversità fra famiglie di classi sociali differenti. Nei ceti sottoproletari e nei gruppi più svantaggiati delle bidonvilles di tutti i paesi divennero abituali la libera unione e una grande mobilità familiare. La classe operaia, a sua volta, sembrò orientata verso un tipo di famiglia più stabile, mentre la grande borghesia conservò il suo attaccamento per la famiglia-stirpe. Le immagini e i modelli di famiglia si modificarono in funzione della riscoperta delle vecchie forme di parentela e i modelli della famiglia monogamica e della patria potestà conservarono il loro ascendente.
La famiglia italiana tra Ottocento e Novecento
Tre momenti emblematici hanno caratterizzato il mutamento familiare in Italia: il periodo della prima industrializzazione tra fine Ottocento e inizio Novecento, il ventennio fascista e il secondo decollo industriale.
Per quanto riguarda il primo periodo, alcuni studiosi (Piselli 1981; Ramella 1984) hanno mostrato come la fase di protoindustrializzazione nell'Italia del Nord e l'emigrazione massiccia nell'Italia meridionale attivarono una larga ed efficace rete di solidarietà familiari. Nell'Italia del Nord, lo sviluppo del lavoro in fabbrica non comportò, almeno in un primo momento, una tendenza alla disgregazione della famiglia ma al contrario ne rafforzò la coesione. Il reclutamento operaio si impose infatti da subito su basi familiari con vantaggi ovvi per i lavoranti, ma anche per i datori di lavoro che ritrovarono nella famiglia l'elemento più funzionale alla trasmissione di abitudini al lavoro industriale in termini di conoscenze professionali e organizzative. Ciò valse non solo per il mondo operaio, ma anche per quello contadino e quello padronale. In quest'ultimo, le reti di relazioni economiche o politiche continuarono a presentare spesso un carattere familiare accentuato, raggiungendo l'apice nel caso delle grandi dinastie industriali che cominciarono allora ad affermarsi fondandosi anche su uno stretto controllo degli scambi matrimoniali e su una rigida endogamia familiare.
L'industrializzazione mise anche in moto processi di specializzazione e modificò in profondità i meccanismi della dinamica sociale: ai gruppi familiari polivalenti sul piano lavorativo delle campagne tradizionali si sostituirono, secondo le circostanze, nuclei sempre più specializzati nel lavoro industriale, nel solo allevamento, nella sola agricoltura ecc., con divaricazioni sempre più nette delle strategie di conservazione e di trasmissione dei patrimoni. A poco a poco, ogni nucleo divenne indipendente, autosufficiente. Al suo interno vennero ridefiniti i ruoli tra i diversi membri e in particolare tra maschi e femmine: la donna impiegata in fabbrica per un periodo di tempo limitato, fino al matrimonio, si vide precludere ogni possibilità di carriera con la progressiva scomparsa del lavoro artigianale a domicilio e dell'attività agricola, e limitò il suo compito alle mansioni di madre, di educatrice dei figli, di signora del focolare domestico. La maggiore attenzione verso i figli non si tradusse soltanto in un importante cambiamento di mentalità; fu anche tra le cause fondamentali della diminuzione della mortalità infantile che si affermò in Italia a partire dalla seconda metà dell'Ottocento e mise fine al tragico fenomeno degli abbandoni massicci di neonati che aveva caratterizzato, tra metà Settecento e metà Ottocento, la fase di transizione protoindustriale.
Nel ventennio fascista, allo scopo di arginare il calo delle nascite conseguente alle trasformazioni della famiglia postindustriale, furono emanate diverse norme legislative: la tassa sul celibato, i premi di nuzialità e natalità, i privilegi per i coniugati con prole e i vari sussidi alle famiglie numerose. La Chiesa da parte sua tentò di riportare l'ordine nei comportamenti devianti che apparivano fonte di preoccupazione: nell'enciclica Casti connubii (1930), Pio XI esaltò il matrimonio come amore coniugale e non soltanto come rimedio alla concupiscenza.
Dopo la Seconda guerra mondiale, la famiglia fu uno dei soggetti attivi della grande trasformazione dell'Italia da paese agricolo a paese industriale. L'impatto della nascente società dei consumi sulla comunità domestica si caratterizzò anzitutto per un'accentuata spinta alla 'soluzione privata' dei problemi. Tuttavia, ciò che determinò la completa rottura con il modello precedente fu il passaggio dalla società industriale connotata, ancora negli anni Sessanta, da forti tratti tradizionali a quella molto più liberale degli anni Settanta, che determinò nuovi assetti comportamentali affermatisi soprattutto nelle famiglie della classe media, in particolare a lavoro dipendente, inserite in modo più centrale nei processi di modernizzazione. Con la nascita dello Stato assistenziale, che sviluppò ed estese i propri interventi ad aspetti sempre più numerosi della vita quotidiana, l'istituto familiare ha subito ulteriori trasformazioni, recepite anche dal punto di vista legislativo: nel 1969 fu abolito il reato di adulterio che puniva la donna e non l'uomo, nel 1970 fu introdotto il divorzio, nel 1978 il diritto all'aborto e nel 1996 fu approvata la legge sulla violenza sessuale.
bibliografia
J. Hajal, European marriage patterns in perspective, in Population in history, ed. D.V. Glass, D.E.C. Eversley, London, Arnold, 1965 (trad. it. in Famiglia e mutamento sociale, a cura di M. Barbagli, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 267-312); F. Héritier, L'exercice de la parenté, Paris, Gallimard, 1981 (trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1984); F. Piselli, Parentela ed emigrazione. Mutamenti e continuità in una comunità calabrese, Torino, Einaudi, 1981; F. Ramella, Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel biellese dell'Ottocento, Torino, Einaudi, 1984; C. Saraceno, Sociologia della famiglia, Bologna, il Mulino, 1996.