Famiglia
Famiglia viene dal latino familia, che, come famulus, "servitore", da cui deriva, è voce italica, forse prestito osco, e indicò dapprima l'insieme degli schiavi e dei servi viventi nella casa del dominus, il padrone; successivamente il significato si è ampliato a comprendere, più in generale, liberi e servi e dunque anche la moglie, i figli, i liberti, i clienti. Ancora in epoca tardomedievale con familia ci si riferiva alle persone di servizio di una dimora o a un gruppo di non liberi sottoposti a un signore di cui occupavano le terre. La nozione moderna di famiglia come complesso di soggetti legati fra loro da un rapporto di parentela, di affinità, di matrimonio, o come nucleo più ristretto composto dai coniugi, dai figli ed eventualmente da ascendenti o collaterali che condividano lo stesso spazio domestico, si impone e normatizza con il codice napoleonico, prima espressione di una regolamentazione ampia e pervasiva della vita degli individui da parte dello Stato.
1.
La famiglia è un invariante universale nella storia dell'umanità, anzi l'unico invariante 'psichico' della cultura, come afferma uno dei massimi antropologi del 20° secolo, A.L. Kroeber (1952). È dunque possibile una definizione di famiglia a patto che non si confondano le caratteristiche strutturali (che sono dell'ordine dello psichico, cioè del simbolico) con la forma sociologica, cioè storicamente data, della famiglia stessa. Dagli studi di L.H. Morgan (1871) centrati sulle forme di parentela degli indiani d'America a quelli di C. Lévi-Strauss (1949), fino a quelli degli antropologi attuali, risulta infatti evidente come sia impossibile dare una definizione di famiglia in base alla sua organizzazione nelle varie culture. È per questo che l'organizzazione della famiglia nel mondo occidentale, incentrata sulla combinazione padre, madre, figli (famiglia nucleare), non deve trarre in inganno: tale combinazione non è che uno stereotipo etnocentricamente determinato (Héritier 1979). Acquista così una sua plausibilità l'affermazione secondo la quale l'unica definizione possibile di famiglia è quella che si riferisce agli invarianti psicologici e simbolici, stando ai quali la famiglia risulta essere un'organizzazione sociale che, qualunque ne sia la forma, deve garantire appartenenza, protezione e trasmissione dei significati fondanti della vita psichica, sociale, rituale, economica e simbolica tra le generazioni.
2.
La parentela è anzitutto un lessico, le prime parole che ogni bambino impara. Presso ogni società l'insieme dei termini di parentela delimita il campo sociale della parentela riconosciuta dalla società medesima: le categorie costituiscono un sistema di classificazione il cui schema di funzionamento è dato dal lessico e dalla nomenclatura di parentela; in questo modo le società edificano il loro spazio genealogico, che è definito dal principio di filiazione (matrilineare, patrilineare o indifferente). La società occidentale, cognatica, è fondata su sistemi di affiliazione per i quali l'appartenenza a un gruppo di parenti non dipende dal sesso. Da ciò deriva il ruolo centrale della famiglia nucleare, situata nel cuore di un vasto gruppo di parenti cognatici. Questo gruppo, definito parentado e comprendente tutte le persone con cui un individuo riconosce di essere imparentato, è la configurazione parentale più nota nelle società dette moderne, in cui la parentela non costituisce più un gruppo che vincola dall'esterno con regole strutturali (regole matrimoniali, economiche, patrimoniali e di eredità, ruoli differenziati maschio-femmina come norma tradizionale avente forza giuridica ecc.). Tali regole sono infatti divenute 'legge dello Stato' che assorbe e supera la legge di parentela transgenerazionale.
Al centro dei parentadi vi è un 'gruppo domestico' (corporate group), costituito dall'insieme delle persone che vivono sotto lo stesso tetto, il quale non ha quindi legami normativi con le reti di parentela, sia nel versante matrilineare sia in quello patrilineare. Ciò determina sulla linea della trama transgenerazionale alcune conseguenze che vanno di fatto a delineare le caratteristiche della famiglia nel mondo occidentale. La prima di esse è la natura complessa del vincolo coniugale. Il matrimonio di fatto costituisce la fondazione di una nuova famiglia, fondazione che avviene come discontinuità nella trama di filiazione-appartenenza. Il matrimonio si configura simbolicamente come un momento alfa rispetto alla filiazione, cioè rispetto alla trasmissione della storia a una nuova generazione. I figli appartengono esplicitamente alla coppia nella duplice dimensione affettiva e giuridica: è la coppia il soggetto del dovere genitoriale e il referente che lo Stato riconosce come interlocutore giuridico. Le linee di parentela dirette (genitori, suoceri, nonni) oppure acquisite (cugini, zii, cognati ecc.) sono trame affettive senza vincoli o responsabilità. Inoltre la scelta del coniuge è libera. Ciò determina nel mondo occidentale la netta prevalenza del vettore orizzontale, secondo la definizione di Lévi-Strauss: data l'universalità del tabu dell'incesto, ogni famiglia è il derivato dell'unione di altre due famiglie, quindi anche della loro scissione; perché una famiglia venga fondata, occorre che due famiglie si siano amputate ciascuna di un membro. La rottura che consegue a questa forma familiare è a sua volta collegata a un'altra caratteristica dell'epoca attuale: l'emersione della individualità-soggettualità.
L'essere umano, maschio o femmina che sia, è pensato come il referente ultimo del sociale e l'individuo è investito della massima significazione assiologica, protetta ed enfatizzata nel registro legislativo. Vi sono moltissime cause che stanno alla base di questa concezione, cause ben studiate dai sociologi e dagli psicologi (Dove va la famiglia italiana a fine millennio? 1999). La conseguenza di queste caratterizzazioni sulla famiglia è, da un lato, la delega totale della responsabilità educativa alla coppia coniugale, dall'altro, un'intrinseca debolezza della coppia coniugale stessa che è svuotata di valore rispetto alla soggettualità individuale.
Il venir meno di reti normative tra le generazioni e tra i coniugi ha portato sullo scenario della storia una nuova trama fondativa della struttura familiare: la trama psicologica. I vincoli hanno tutta la forza e tutta la debolezza dei legami psichici. La famiglia, nucleare ed estesa, è divenuta il luogo dello psichico, del simbolico allo stato puro. In questo universo i figli sono insieme progetto della nuova generazione e legame biunivoco. L'investimento sui figli, in tutte le dimensioni della realtà umana, è altissimo. Gli studiosi di questi fenomeni sono diventati quindi gli psicoterapeuti familiari, i quali possono entrare all'interno del campo familiare, in qualche modo come novelli antropologi (Pontalti 1988). Essi rilevano la complessità e la forza delle trame psichiche e simboliche interne alla famiglia, non più stemperate dalla larga base di parentela né dal tendenziale isomorfismo tra familiare e sociale che caratterizza altre culture e altre epoche.
La psicoanalisi cerca di dare nome alla dinamica di questi legami e la psicologia dell'età evolutiva tenta di comprendere come si organizza la mente del bambino in rapporto alle caratteristiche attuali del contesto familiare e sociale. Le culture tradizionali assicuravano la stabilità degli ambienti di crescita per i piccoli della tribù tramite la stabilità delle consuetudini, delle norme, dei riti. Nel mondo occidentale, fino alla Seconda guerra mondiale, la stabilità era assicurata dall'isomorfismo tra organizzazione della famiglia e organizzazione del sociale. Attualmente tale stabilità è poco protetta: la coppia coniugale è troppo piccola per garantire questa base sicura; inoltre le dinamiche economiche e quelle della soggettualità-individualità rendono dialettico il rapporto coniugale; la dialettica può essere radice di costruzione o di disgregazione. Ma resta salda e complessa la matrice che modula il passaggio tra le storie familiari nei tre livelli generazionali in gioco: famiglia di origine, famiglia attuale, figli. Questi legami sono talora occultati, impliciti, forse addirittura dell'ordine dell'inconscio; comunque esistono e sono operanti su due registri: la presenza affettiva e pratica che i nonni continuano ad assicurare, la narrazione delle storie di tempi passati che comunicano ai nipoti. La famiglia sana è quella che vive sé stessa come famiglia trigenerazionale e permette che di fatto si configuri un ampio campo psichico 'gruppale' che ricalca il costrutto di famiglia estesa. L'ostacolo strutturale più forte al fatto che ciò si realizzi è ancora una volta di tipo antropologico. Nel mondo occidentale, come già detto, ambedue i sessi concorrono alla definizione di parentela in maniera indifferenziata. Tale circostanza ha come conseguenza che le due famiglie di origine sono equipotenziali rispetto alla relazione con la coppia coniugale e con i nipoti.
L'assenza di regole o consuetudini sulla preferenzialità è in sé una ricchezza, un'amplificazione dell'esogamia; ma può essere anche fonte di conflitto, di lotta sulla realtà di appartenenza, di tendenziali dinamiche di appropriazione della nuova generazione entro la propria linea di discendenza. Le due famiglie (che in genere sono a loro volta famiglie allargate con reti di relazione tipo clan) si incontrano rispetto al progetto matrimoniale della coppia. È la coppia che liberamente formula la propria scelta e la propria progettualità. Viene così meno uno dei significati stabili del matrimonio nella storia dell'umanità: il contratto-alleanza tra famiglie, che, assieme alle regole di filiazione, regolava di fatto la relazione sociale e affettiva tra le famiglie di origine. Questa relazione si fonda quindi su una matrice prevalentemente psicologica ad alta inferenza simbolica. Quello che di fatto si viene a strutturare implicitamente è una forma particolarissima di parentela: ognuno dei due coniugi continua di fatto a percepirsi e a essere percepito come appartenente sempre al clan di origine. Se queste 'appartenenze parallele' si mediano come nuova struttura psicologica e sociologica attorno ai nipoti, la nuova famiglia acquista nel tempo identità differenziata, altrimenti potrà dissolversi. Nella dinamica delle separazioni e dei divorzi viene disoccultata questa organizzazione familiare parallela e viene disoccultata come ritorno alle famiglie di origine in un campo psichico di violenta guerra tribale (Cigoli-Galimberti-Mombelli 1988). Appare evidente come la crisi della famiglia sia in realtà la crisi di questa forma di famiglia. Tale crisi è parallela al ritiro del sociale dal campo familiare; la privatizzazione della famiglia ne determina la crisi e apre verso trasformazioni per il momento impensabili e, quindi, imprevedibili.
La famiglia, comunque, non può che essere il crocevia di ogni consorzio umano; le caratteristiche testé descritte la inseriscono in una dinamica peculiare e nuova, ben definita dai sociologi come dimensione del privato sociale (Rossi Sciumé 1990). Questa dimensione è caratterizzata, rispetto al passato, da regolatori di tipo psichico; tali regolatori fondano la dinamica sociale del privato familiare, quasi che la famiglia, nella sua accezione ampia, si configuri come società autonoma rispetto al sociale. Tutti i parametri di analisi del sociale (per es., gestione della salute, della malattia, dell'economia, dell'affettività, della quotidianità ecc.) devono essere reinterpretati dai sociologi della famiglia e dagli psicologi-psicoterapeuti alla luce di questa peculiarità.
1.
Il termine famiglia, come qualsiasi altro vocabolo usato nel parlato quotidiano e al tempo stesso utilizzato in diversi lessici di discipline scientifiche, può assumere, a seconda del contesto, accezioni polisemiche e sfumate, radicate nella convenzione e nel senso comune, o essere imbrigliato in definizioni teoriche che tendono a darne un significato universale. In entrambi i casi, usi e significati di tali termini hanno una valenza storica e pertanto sono soggetti sia al particolarismo delle società e delle teorie, sia al cambiamento di queste ultime. Il termine famiglia non si sottrae a questo processo: nel corso della storia ha indicato infatti legami fra individui di tipo diverso in termini politici, sociali, economici, ideologici. L'antropologia ha spesso, e a lungo, utilizzato il termine famiglia incapsulando acriticamente un mondo proprio di riferimenti locali in nozioni e tipologie che miravano a sistemare in unico schema i più diversi fenomeni della riproduzione e dell'organizzazione sociale. Gli evoluzionisti, nella seconda metà del 19° secolo, proposero uno schema organico nel quale la storia dell'uomo veniva incasellata in stadi evolutivi corrispondenti, anzitutto, a tipi diversi di organizzazione familiare.
Proprio la famiglia nucleare di stampo borghese (quindi sia europea sia nordamericana) composta da un uomo e una donna sposati e dalla loro prole, considerata espressione massima di sviluppo e civiltà, base della società moderna, servì come modello di riferimento primario e universale, rispetto al quale tutte le società in 'ritardo' avrebbero prima o poi dovuto adeguarsi. L.H. Morgan (1871) sosteneva che l'umanità fosse solo in ultimo arrivata alla famiglia nucleare, caratterizzata da unioni monogamiche al cui interno i rapporti si differenziavano mediante una terminologia di tipo descrittivo (i parenti consanguinei in linea diretta si distinguono da quelli in linea collaterale), affrancandosi lentamente dallo stato selvaggio espresso dalla famiglia consanguinea delle origini, che era contraddistinta invece da matrimoni di gruppo tra fratelli e sorelle, dove era impossibile sapere da quale coppia fossero stati generati i figli. Il processo evolutivo della famiglia veniva inteso come un processo graduale: da uno stato iniziale di promiscuità, di assenza di differenziazione tra consanguinei, l'umanità era progressivamente arrivata a uno stato di massima differenziazione tra di essi, passando prima attraverso forme matrimoniali intermedie in cui era proibito il legame tra fratelli e sorelle, o era consentito interrompere con facilità l'unione tra marito e moglie, e poi attraverso la famiglia patriarcale propria del mondo ebraico e romano.
All'ideologia borghese dell'evoluzionismo vittoriano si contrapponeva quella di F. Engels (1894): mentre nella prima vi erano orientamenti teorici diversi riguardo l'origine della famiglia (nel matriarcato o nel patriarcato o nella poliandria), nella seconda l'origine era individuata in una vita promiscua, amorale, di 'comunismo felice'. Se per la prima la famiglia nucleare borghese rappresentava il culmine dello sviluppo, per la seconda questa, essendo frutto di un matrimonio considerato una forma di prostituzione, rappresentava ancora una fase di 'infelicità morale' da superare: la 'felicità morale', obiettivo culmine dell'umanità, risiedeva invece nelle unioni monogamiche proletarie. L'idea evoluzionista secondo cui la famiglia nucleare monogamica rappresentava l'esempio massimo di progresso non è da considerarsi più etnocentrica di quelle successive, che invece la ritenevano come un'unità sociale universale, radicata nella biologia umana. La famiglia nucleare, come unità strutturale elementare, è stata ravvisata anche quando la composizione risultava essere diversa e più complessa, come nel caso della 'famiglia estesa' o della 'famiglia poligamica' (Murdock 1949), o quando non tutti i componenti condividevano una stessa unità residenziale (Radcliffe-Brown 1952).
Sia nelle idee sulla famiglia proprie dell'evoluzionismo sia in quelle universaliste, l'esperienza dell'organizzazione del proprio mondo sociale era diventata un pericoloso metro di giudizio, un progetto ideologico. Questo ha un ben diverso riflesso pratico quando venga assunto a motore ideologico nell'evangelizzazione cristiana e nell'espansione coloniale. L'imposizione del matrimonio cristiano e della famiglia nucleare divenne per i missionari, nel Cinquecento, uno degli strumenti dell'evangelizzazione, per es. del Messico indigeno appena conquistato dagli spagnoli, "come se la Chiesa avesse ritenuto più facile plasmare i comportamenti anziché sradicare inafferrabili credenze" (Bernand-Gruzinski 1986, p. 173). Questa politica mette bene in rilievo come già allora la famiglia coniugale venisse intesa etnocentricamente come un'entità cardine della vita sociale, governata da norme matrimoniali, comportamentali e morali da controllare. Tale modello veniva imposto dal momento che qualsiasi altro era ritenuto inadeguato, fonte di promiscuità, o non considerato affatto come famiglia. Ancora oggi, dal punto di vista religioso, ma anche da quello dello Stato laico, rimane la questione se siano da considerarsi famiglie quelle che presentano forme organizzative diverse, componenti diversi, sistemazioni residenziali diverse: per es., se si generino famiglie quando le unioni sono di tipo poliginico (quando un uomo può avere più di una donna), o poliandrico (quando una donna può sposare più di un uomo), o multiplo (quando un uomo o una donna possono contrarre tanti matrimoni secondari quanti ne vogliono), o quando moglie e marito vivono separati, restando ciascuno nella propria residenza di origine (pratica nota come 'marito visitante'), o quando il matrimonio avviene tra individui dello stesso sesso, o quando è sancito tra una donna 'comperata' con i beni di un uomo defunto e quindi a esso coniugata perché generi nel nome di lui, o, ancora, quando il nucleo è composto solo da una madre non sposata e dai suoi figli (nucleo matrifocale).
La varietà di soluzioni, pratiche e ideologiche, che ruotano attorno al problema dell'organizzazione della nascita degli esseri umani, del loro mantenimento e inserimento nel mondo, delle relazioni sessuali, dei rapporti all'interno e all'esterno dei gruppi sociali, del dislocamento nello spazio, è dunque tale da giustificare l'impossibilità di dare definizioni universalmente valide di cosa sia una famiglia. Molti studiosi hanno attribuito a essa un carattere multifunzionale piuttosto che normativo. La grande varietà di funzioni e di ruoli della famiglia, così come la diversità nella composizione dei suoi membri, sia in senso sincronico-comparativo sia in riferimento diacronico al ciclo vitale interno a essa (ciclo domestico), hanno fatto pensare fin dagli anni Sessanta del 20° secolo che il termine fosse inadeguato e, soprattutto, che il quadro teorico di riferimento fosse incapace di analizzare e comprendere realtà tanto differenti. Infatti quelle che potremmo definire per convenzione forme di raggruppamenti familiari sono determinate da un insieme complesso di fattori reciprocamente implicanti: fattori ideologici (il concepimento, la nascita e la crescita degli esseri umani, il numero della prole, i generi, il Sé, il ciclo della vita e della morte, la trasmissione delle conoscenze, il corpo, la salute, i comportamenti, l'emotività e affettività); fattori sociali (il tipo di matrimonio o unione sessuale, di divorzio, di parentela, di residenza, di maternità e paternità, di cura riservata ai nati, di eredità); fattori economici (divisione del lavoro, modi e mezzi di produzione, mobilità forzate, tipi patrimoniali e di accesso alle risorse); fattori politici (tipo di organizzazione dell'autorità, accesso al potere, gerarchie, alleanze e faide), demografici (fertilità, sterilità, salute) e ambientali (tipo di risorse, portata dell'ambiente, calamità).
La ricerca antropologica si è andata orientando, più che sull'individuazione di tipologie, sullo studio e l'interpretazione dell'intrecciarsi di questi fattori e delle loro dinamiche, del loro impatto sulla costruzione degli individui sia come persone che producono simboli e rappresentazioni di sé, degli altri e del vivere insieme, sia come attori sociali consapevoli di avere un margine di manipolazione della propria e altrui esistenza. In questo senso la ricerca ha talvolta privilegiato espressioni come 'gruppo domestico', con l'intento di individuare le differenti unità di base quotidianamente coinvolte nei processi di produzione e riproduzione, protezione e consumo (Goody 1972), socializzazione. Queste unità di base svolgono ruoli e funzioni simultaneamente diversi, possono scindersi in altre unità per assolvere altri ruoli o sovrapporsi tra di loro. Più il quadro dei movimenti delle persone è reso complesso, per es. da matrimoni multipli o poligamici, in relazione alla possibilità di risiedere presso unità residenziali diverse, più aumenta la varietà delle composizioni sociali: chi si cura dei nati potrebbe anche non essere la madre che li ha generati e non risiedere con loro, come avviene per es. tra i mossi del Burkina Faso (Zonabend 1986). In questo caso la prole, non potendo essere tenuta dalla genitrice, è divisa tra le altre co-mogli del padre, oppure è allevata da una moglie dello zio paterno, o da una moglie del nonno. Qualsiasi donna può reclamare in adozione un bambino, purché abbia superato l'età della menopausa. Ogni bambino si trova così a distinguere nel corso della sua vita madri diverse: la madre che lo partorisce, quella che lo allatta, quella che lo ospita dopo lo svezzamento, quella che lo accudisce durante la notte e lo educa di giorno, quella che lo fa crescere.
2.
La famiglia nucleare viene spesso definita come gruppo di consanguinei. La nozione di consanguineità, lungi dal ricollegarsi a fatti naturali della biologia umana, si basa principalmente su determinate concezioni culturali della riproduzione e della nascita, presenti soprattutto in Europa e in America, dopo la colonizzazione, nell'area del Mediterraneo e nei Balcani. Tale concezione sostanzialista è di fatto una teoria embriologica europea entrata nelle teorie antropologiche della parentela e rappresentata nello schema genealogico, dove coloro che sono considerati condividere il 'sangue' sono raffigurati all'interno di una rete di legami (Piasere 1998). La relazione 'legalmente riconosciuta' tra sangue e parentela è attestata nel diritto civile romano (Pomata 1994): probabilmente si basava su antiche concezioni attorno alla procreazione. L'uomo era ritenuto l'unico in grado di avere un ruolo attivo nella creazione di una nuova vita, attraverso la trasformazione del sangue in sperma grazie al calore del corpo maschile. Alla donna, invece, non veniva riconosciuto il potere di co-generare, ma le era riservato quello passivo di portare in grembo il figlio generato da suo marito. La donna, avendo un sangue in grado di trasformarsi in un seme imperfetto per insufficienza di calore, aveva unicamente il potere di nutrire con il suo latte. Soltanto attraverso e con il padre, quindi, si stabilivano i legami di parentela, dal momento che il sangue che scorre nel corpo dei figli è solo sangue paterno.
Anche se le ricerche sulla consanguineità hanno messo in luce il suo carattere fittizio, "il suo ruolo di fattore regolatore della vita sociale non va contestato" (Stahl 1993, p. 198). La terminologia inglese della parentela usata negli Stati Uniti, per es., reca tracce evidenti di questo criterio regolatore. Le relazioni sono classificate in base a come si determinano: o attraverso il sangue (by blood), ossia i frutti passati e presenti di regolari unioni matrimoniali (i parenti discendenti, ascendenti e i collaterali), o secondo la legge (in law), ossia marito e moglie e i parenti acquisiti attraverso il matrimonio, o secondo natura (in nature), ossia i figli nati da genitori non sposati (Schneider 1980). L'idea che il sangue sia trasmesso ai discendenti, e con esso siano spesso trasferite anche le qualità fisiche e morali, è largamente diffusa sia nei paesi mediterranei sia nei Balcani. La qualità del sangue segna la differenza tra uomo e donna (per i montenegrini gli uomini hanno 'sangue denso', le donne 'sangue fluido'); i comportamenti sessuali scorretti, come l'incesto, cambiano la sua natura (per la Chiesa ortodossa diventa 'torbido'; Stahl 1993); per i beduini d'Egitto la qualità della condotta degli individui, in particolare di quella sessuale delle donne, determina la purezza del sangue e quindi la purezza genealogica, nonché l'onore della famiglia (Abu-Lughod 1986).
Le ideologie sostanzialiste non sono presenti solo nelle aree finora citate. Nel Brasile centrale i suyà, una società Gê, ma anche gli apinayé, hanno elaborato un'ideologia sostanzialista secondo cui i figli e le figlie di una coppia sono legati tra di loro, nel corso della vita, dalla condivisione di una stessa sostanza: un legame corporale identitario tale che quando, per es., si ammala un individuo, al contempo si ammalano tutti coloro che condividono la sua stessa sostanza. Ciò comporta che essi abbiano identiche restrizioni nella consumazioni dei cibi e nelle attività quotidiane. Se una persona accusa un gonfiore a un piede, i suoi genitori, fratelli, sorelle e figli non devono mangiare determinati cibi; se il divieto fosse violato tutti soffrirebbero del medesimo male.
La condivisione di una stessa sostanza può avere per il gruppo valenze anche sul piano delle strategie politiche ed economiche. Così, le alleanze, o al contrario i conflitti, possono verificarsi in base alla 'distanza' che si crea nei legami tra chi condivide soltanto parzialmente una stessa sostanza. La sua condivisione segna la mappa delle relazioni di interdipendenza tra persone, e conseguentemente il confine delle persone che vi partecipano, formando gruppi che sono stati definiti 'gruppi corporali' o 'gruppi di discendenza corporali'. In questo caso, la mancanza di riferimenti agli antenati fa pensare che le relazioni determinanti siano quelle vissute al presente con gli individui della stessa generazione o di quella prossima, come rileva A. Seeger, in un suo scritto, non pubblicato, del 1975, By Gê out of Africa: ideologies of conception and descent.
3.
Lo spazio condiviso non implica meccanicamente l'esistenza di una famiglia che si riconosca come tale. Molti studiosi hanno avuto difficoltà a rintracciare entità o nuclei che localmente si riconoscano come famiglia nei termini a noi noti per convenzione. In molti casi è l'unità residenziale, l'abitazione che costituisce il punto di riferimento dell'identità di coloro che la abitano e dà significato al loro vivere insieme in uno stesso luogo.
Anche quei nuclei che si fondano su una unione matrimoniale monogamica e che condividono insieme ai loro figli spazi a loro esclusivi spesso possono non riconoscersi come gruppo tanto da autodefinirsi. È il caso dei pescatori huave della costa sudoccidentale del Messico. Per quanto ogni coppia di coniugi ottenga nel corso della vita uno spazio residenziale indipendente dove costruire la propria casa, ciò non comporta una rappresentazione in termini autoreferenziali di gruppo familiare. Nonostante le influenze e le pressioni derivate da quattro secoli di cristianizzazione, l'unico termine locale acualaats, oggi reso anche in spagnolo con familia, si riferisce a un'entità sociale ego-centrata dai contorni assai sfumati, avvicinabile all'idea di parentado. Conta più la buona volontà del singolo di mantenere vive le relazioni, nel caso volesse avvalersi di atti di solidarietà e cooperazione, piuttosto che il trovarsi per nascita in una rete di relazioni. Il termine di identificazione è costituito dall'unità di residenza (nden), dallo spazio quotidianamente vissuto e dalle attività svolte al suo interno (Cuturi 1990). Sebbene entro l'unità residenziale non ci siano luoghi interdetti per l'uno o l'altro sesso, vi sono proibizioni legate al genere e alle attività di lavoro relative: agli uomini è proibito toccare gli utensili da cucina e gli strumenti da lavoro delle donne, così come alle donne è proibito toccare gli strumenti da pesca degli uomini, pena la sfortuna in tale attività. Questi dati spostano l'attenzione sullo spazio del vissuto domestico, che non è un'entità neutra, priva di valenze simboliche, ma è in stretta relazione con le attività e le competenze riferite al genere dei suoi occupanti. Non sempre ci sono termini che marcano i confini dei nuclei sociali, le divisioni tra i ruoli, le funzioni di ciascuno. Le separazioni, le differenze o le unioni possono essere convenzioni simboliche, spazi mentali all'interno dei quali i movimenti di ciascuno sono possibili e previsti, o non possibili e non previsti. Le abitazioni, le unità residenziali sono piene di pareti invisibili e invalicabili, di spazi esclusivi e riservati a uomini e donne. Gli esempi possono essere rinvenuti in qualsiasi società sedentaria e anche in tutte le comunità girovaghe.
Anche quando la casa è una roulotte, kampína, come per i roma, gli spazi del vissuto, per quanto possano sembrare angusti, sono frazionati a seconda del sesso, dell'età e dello status dei suoi abitanti. Considerata unità di domicilio, ciascuna kampína ospita ed è simbolo di una sola coppia di coniugi con i loro figli e figlie non sposati (Piasere 1992). La costruzione degli spazi e quindi il condizionamento dei movimenti e degli spostamenti non riguardano soltanto l'interno della kampína, ma assumono particolare importanza nella disposizione delle kampíne dentro il campo. La lettura della prossemica delle kampíne all'interno dei campi è assai complessa, perché ogni posizione relativa può corrispondere a un segnale di separazione e lontananza, che può voler dire disaccordo tra le famiglie, o a un segnale di congiunzione, che può invece voler dire accordo. Ciò che vale nel campo è a chi si sta vicino e in che modo gli si sta vicino; ma è altrettanto importante tener presente a chi non si sta vicino. Proprio perché sono una forma di comunicazione, le posizioni relative tra kampíne seguono costantemente gli avvenimenti che vedono coinvolti tra di loro i membri delle famiglie in rapporti di alleanza o di conflitto o di indifferenza. Qualsiasi avvenimento tra famiglie può potenzialmente ridisegnare la mappa delle posizioni e delle distanze tra le kampíne e tra coloro vi abitano: distanze che non vengono marcate da nessun esplicito ostacolo, ma che bisogna saper leggere nello spazio e alle quali è necessario sapersi attenere per potersi muovere nel campo.
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