DANDOLO, Fantino
Nacque da Leonardo a Venezia, a S. Luca, nel 1379.
Il padre - uno dei quattro "amici" ricordati dal Petrarca nel De sui ipsius et multorum ignorantia - era allora cavaliere di S. Marco e di lì a poco, nel 1381, avrebbe ottenuto le insegne procuratorie. Neppure queste, tuttavia, sarebbero bastate a soddisfarne l'ambizione e l'alto concetto che aveva della casa (era figlio, infatti, del doge Andrea, famoso per la sua Cronaca, e la dottrina), e ad esse volontariamente avrebbe rinunciato, nel 1398, dopo aver fallito per due volte l'elezione al dogato. Un gesto alquanto raro nel mondo politico veneziano, ma perfettamente coerente con il temperamento fiero e risentito dell'uomo.
Come il fratello maggiore Pietro, canonico di Modone e docente di diritto ecclesiastico a Bologna, il D. si avviò agli studi presso quell'università, per poi passare a Padova, dove si laureò l'8 ag. 1401, alla presenza di Stefano da Carrara. Il prestigio del nome e le sue doti intellettuali e culturali spinsero i signori di Padova, nonostante la giovane età, a conferirgli la cattedra di diritto civile presso quello Studio, ch'egli tenne durante gli ultimi anni della dominazione carrarese. Ad interrompere una carriera così promettente sopraggiunse, nel 1406, la morte del padre, che lo costrinse a tornare a Venezia per occuparsi, assieme con i suoi fratelli, dell'amministrazione del patrimonio familiare.
Fu la scoperta di altri interessi, di nuove prospettive. Scorrevano anni decisivi, nelle lagune: ora, si guardava ad Occidente. Le angustie della guerra di Chioggia avevano posto la Repubblica di fronte ad una nuova realtà: i commerci, il ruolo stesso dello Stato da mar sembravano passare in secondo piano, di fronte alle suggestioni dell'espansione in Terraferma. Il D. visse quel clima, e lasciò la cattedra per la politica.
Già alla fine del 1405 era stato a Milano, al seguito del cardinale Filargo, inviato da Innocenzo VII a mediare la pace tra Giovanni Maria Visconti ed il signore di Mantova, Francesco Gonzaga, e il 3 luglio 1407 fu incaricato, con Bartolomeo Nani, di trattare con i Genovesi la composizione di alcune vertenze relative a danni patiti dai Veneziani in Siria.
Non era questione di rilievo: il saccheggio di alcune navi, in fondo, costituiva una componente del tutto usuale nella pratica marinara del tempo. Tuttavia, per bloccare eventuali ritorsioni, per non dar adito ad iniziative individuali da parte degli equipaggi, le due Repubbliche stabilirono di prendere la cosa sul serio, e designarono arbitro della controversia il conte di Savoia, Amedeo VIII, che, oltre ad essere vicario imperiale, non aveva interessi sul mare. Il giudizio fu studiato e meditato: soltanto il 9 ag. 1408 Chambéry annunciò che la vertenza era risolta, in favore di Venezia.
L'abilità dimostrata nel corso della trattativa valse al D. la nomina a provveditore in campo nel Veronese, per frenare le scorrerie di soldati sbandati in quel territorio, nelle torbide circostanze seguite alla caduta dei Carraresi; poi, una volta reso noto il felice esito della missione presso il Savoia, fu eletto consigliere di Venezia, per il sestiere di San Marco. Era la definitiva sanzione della considerazione di cui godeva: non ancora trentenne, otteneva una delle massime cariche dello Stato e questa, a sua volta, gli schiudeva le porte di una carriera diplomatica e politica ricca di prestigiosi incarichi e di riconoscimenti. Così, nell'agosto 1409, allorché la Repubblica stabilì di riconoscere come legittimo pontefice il cardinale cretese Filargo, che il concilio di Pisa aveva eletto al soglio col nome di Alessandro V, per porre fine allo scisma, il D. venne incaricato di recarsi a Cividale del Friuli, per convincere Gregorio XII (il veneziano Angelo Correr, che colà si era rifugiato) a deporre la tiara in favore del nuovo eletto.
La delicata missione, come è noto, fallì nel suo intento, ma sulle responsabilità del D. le fonti appaiono discordi: nelle Vite dei dogi, infatti, il Sanuto nega ch'egli abbia accettato l'incarico, e precisa che al suo posto fu eletto Giovanni Garzoni. Il silenzio dei documenti ufficiali ci obbliga a riportare la testimonianza, senza consentirne la verifica. È certo, invece, che in quello stesso anno il D. fu a Milano, insieme a Francesco Contarini, per tentare una mediazione tra Giovanni Maria Visconti (che probabilmente, in questa circostanza, gli conferì il cavalierato) ed il fratello minore Filippo Maria.
Ancora consigliere nel 1410, era capo del Consiglio dei quaranta l'anno successivo, quando fu inviato, con Giovanni Garzoni, a Trento, presso i duchi d'Austria Ernesto e Federico, per sollecitare un'alleanza contro il re d'Ungheria, che minacciava guerra in Dalmazia. Il successo della missione gli valse, nel 1412, il primo rettorato: fu eletto podestà di Padova, dove ebbe come collega, per capitano, Zaccaria Trevisan.
Pervenuta da pochi anni sotto il dominio veneziano, verso il quale si mostrerà sempre insofferente, la città aveva bisogno di chi sapesse governarla con mano ferma, ma anche con abilità ed accortezza. Il D. era l'uomo adatto: conosceva bene l'ambiente padovano e la sua università, al cui prestigio non mancò di tributare ogni possibile dimostrazione di attaccamento e considerazione. Si presentò addirittura come inviato dalla Serenissima per restituire lo Studio all'antico splendore, dal quale era decaduto per la desolazione di tante guerre: ci credessero o non, in questa veste mostrarono di accoglierlo i Padovani, che, per bocca di Gasparino Barziza, professore di umane lettere, ne festeggiarono l'insediamento con una elegantissima orazione. Ecco allora il D., tra l'agosto 1412 ed il novembre 1403, intervenire assiduamente al conferimento delle lauree, presenziare alle cerimonie che accompagnarono la riscoperta dei presunti resti di Livio, rinsaldare i legami con i colleghi di un tempo, allacciarne di nuovi.Al termine del mandato, venne eletto podestà a Verona, anch'essa veneziana da poco, dove accolse Giovanni XXIII che si recava al concilio di Costanza, per poi passare (secondo il Sanuto, che segue un manoscritto della famiglia Dandolo) a Bologna, su richiesta di quegli abitanti. La notizia, tuttavia, non trova conferma nelle cronache locali, per cui è più probabile che, dopo la podesteria veronese, il D. sia rientrato a Venezia, a proseguirvi l'attività politica.
Nel maggio 1416, infatti, fu nominato ambasciatore a Milano, assieme a Santo Venier, per concordare una tregua fra il duca Filippo Maria e Pandolfo Malatesta, che si era impadronito di Brescia, e poi tra quest'ultimo ed il fratello Carlo, signore di Rimini.
Il fitto succedersi degli incarichi scandisce lo scorrere del tempo: nel 1418 è nuovamente consigliere e, nello stesso anno, podestà a Padova per la seconda volta, quindi, nella primavera del '21, ambasciatore a Roma con Nicolò Zorzi, per chiedere a Martino V "che per il Patriarca di Aquileia non possi esser posto alcuno Chierico per superiore ad essa Patria, nè in spirituale, nè in temporale, fin che lei [la Repubblica] non habbi pace con il re d'Ongaria; la quale nuovamente con molta spesa, et sangue de suoi, havea, acquistata dalle mani de Furlani, che favorivano il Re di Ongaria naturale nimico suo": si trattava, in sostanza, di consolidare la recente conquista veneziana del Friuli anche nei confronti del patriarcato, rimuovendo possibili ingerenze romane. Ancora una volta il D. ebbe modo di far valere la propria abilità, ed il 5 luglio poteva informare il Senato, da Tivoli, che la missione aveva raggiunto il suo intento.
Tornato in patria, fu eletto consigliere (1422), poi avogador di Comun, poi nuovamente consigliere, dopo essere stato tra i quarantuno elettori del doge F. Foscari: e appunto come consigliere, il 10 ott. 1423, votava la legge che stabiliva la costruzione di un lazzaretto nell'isola di Santo Spirito, per fronteggiare le pestilenze, periodicamente ricorrenti in una città aperta ai traffici ed ai contatti col Levante. Al termine del mandato, gli fu affidata un'altra importante missione, che doveva tenerlo lontano da Venezia per quasi due anni: si trattava, ancora una volta, di farsi rimborsare certi danni subiti dai mercanti veneziani in Spagna, al tempo dei re Martino e Ferdinando. Alfonso nulla concesse pei crediti vantati presso Martino, mentre per quelli successivi accordò un terzo dei diritti soliti pagarsi dai commercianti veneziani nei suoi Stati, fino al raggiungimento di 60.000 fiorini d'oro aragonesi, e abolì il dazio di tre denari per lira, imposto a Tortosa; così, a detta del Priuli, il D. "recuperò ai nostri 35.000 ducati, che senza l'opera della sua virtù erano già perduti". Al ritorno in patria fu inviato a sottoscrivere il trattato di alleanza antiviscontea con Amedeo di Savoia e la Repubblica di Firenze, quindi - nello stesso 1425 - fu con Andrea Contarini presso il papa Martino, ancora per gli affari del Friuli.
A Roma gli fu comunicata l'elezione ad avogador di Comun, poi fu del Consiglio dei cento savi per le guerre di Lombardia, quindi consigliere, infine ambasciatore al marchese di Ferrara, con Tommaso Michiel e Paolo Corner, alla fine del 1426, per trattare la pace con Filippo Maria Visconti. Fu la guerra, invece. Venne la giornata di Maclodio, e la conquista delle province lombarde: il 5 dic. 1427 era tra i deputati che sancivano il passaggio di Cremona, Bergamo e Brescia tra i domini della Serenissima. E appunto in quest'ultima città egli era inviato, come primo rettore, in sostituzione di un altro Dandolo, Gherardo, che l'aveva occupata come provveditore nel corso delle operazioni militari. Fu poi ambasciatore a Firenze, consigliere per la settima volta e, nel 1430, ancora avogador di Comun. L'anno che seguì doveva costituire un'altra tappa decisiva nella vita del D.: inviato a Roma per onorare l'elezione al soglio di Eugenio IV, il veneziano Gabriele Condulmer, fu da costui nominato protonotaro apostolico, e poco dopo legato a latere, cioè governatore di Bologna, con autorità su tutta la Romagna.
Il giurista, divenuto uomo politico, passava ora al servizio della Chiesa. Le cronache veneziane, naturalmente, non mancano di spiegare la metamorfosi con la presa di coscienza, da parte del D., di un'intima vocazione, già profetizzatagli da s. Lorenzo Giustinian. In effetti, ora che l'esaltante momento delle conquiste a Occidente sembrava conoscere una fase di difficoltà e stasi, l'elezione di un concittadino alla cattedra di Pietro pareva schiudere al patriziato lagunare nuove prospettive di espansione al di là del Po; dal canto suo il Condulmer, che nel D. apprezzava la preparazione e l'integrità dei costumi (rafforzatasi dopo la scomparsa della moglie, avvenuta un decennio prima), credette di aver trovato la persona più adatta a riaffermare l'autorità pontificia su Bologna, esposta alle mire viscontee e veneziane, lacerata dalle discordie tra i Griffoni ed i Canetoli.
Secondo il Ghirardacci, il D. entrò nella città emiliana il 7 sett. 1431, portando con sé i capitoli della pace, firmati dal pontefice. Cercò di assicurarsi il favore di quegli abitanti: promulgò un'amnistia, creò un consiglio di venti cittadini, vigilò attentamente sui costumi del clero. Ma fu inutile: il tentativo di porre Bologna sotto il diretto dominio pontificio, ignorando i patti del '29, doveva necessariamente portarlo a scontrarsi con la nobiltà locale. Per venirne a capo, si schierò dapprima con Luigi Griffoni, partigiano della Chiesa, poi con l'abate Bonifacio Zambeccari contro i Canetoli; infine sembrò favorire questi ultimi allorché, il 14 ag. 1432, occuparono armati la piazza di S. Petronio. Dietro Battista Canetoli, però, stava il popolo e, quel che più importava, il duca di Milano, che aveva radunato truppe a Lugo: timoroso di un colpo di mano sulla città, il D. si rivolse al Gattamelata, che teneva il campo presso Forlì. Di fronte ad una situazione tanto fluida, i due stabilirono di porre la città di fronte al fatto compiuto: all'alba del 26 genn. 1433, Gattamelata avrebbe trovato aperta porta S. Stefano, e di lì sarebbe entrato alla testa delle sue truppe. L'azione, però, fallì per il deciso intervento di Ludovico Canetoli, ed il legato dovette fuggire nascostamente dalla città. Fu un insuccesso decisivo per la carriera e la vita del D., la cui condotta, durante gli ultimi mesi, non era stata affatto coerente, né felice come in altre circostanze.
Stanco e amareggiato, a detta del suo maggior biografo, Degli Agostini, "piuttosto che a Roma, dove le occupazioni sarebbero state eguali, se non maggiori, pensò il Dandolo di trasferirsi a Venezia, e qui goder la sua pace, sospirata da molto tempo. Gli venne in cuore altresì d'interamente applicarsi agli studi delle sacre letture ...". Quelli che seguirono, furono effettivamente anni di raccoglimento, ma anche di intensa attività culturale: a Venezia, nei primi mesi del '33, ricevette la visita del generale dei camaldolesi, che ricambiò a Firenze l'anno successivo. Qui, nel monastero degli Angioli, copiò le opere dei Padri della Chiesa, ed altri codici scoprì e raccolse, così da poter essere considerato, secondo la testimonianza di Marco Foscarini, tra i più attivi e famosi ricercatori del tempo, assieme a Francesco Barbaro e Leonardo Giustinian.
Tornato a malincuore a Venezia ("in Urbe hac tot me occupationes vexant"), compose un Tractatus de beneficiis, al quale seguì un saggio intitolato Responsa quaedam iuridica, che godette di larga fama: risale probabilmente a questo periodo un Sermo de laudibus philosophiae, rinvenuto il secolo scorso dal Cicogna, tra i codici della Marciana.
Non sappiamo quando il D. abbia preso i voti, ma in questo periodo alle sue occupazioni letterarie si affiancavano saltuarie incombenze ecclesiastiche: il 26 luglio '34 era incaricato dalla Sede apostolica di visitare il monastero di S. Nicolò della Torre, a Murano, per correggere la condotta di quelle religiose, che vennero cacciate dal luogo; nel '37 ebbe la commenda dell'abbazia di S. Stefano da Carrara, nella diocesi di Padova; l'anno successivo risolse una controversia relativa al monastero veneziano di S. Daniele; nel 1440, infine, pose mano alla ricostruzione della chiesa del Corpus Domini, profondendo nell'operazione cospicue ricchezze. Si occupò poi del monastero cisterciense di S. Maria Celeste, a Venezia; infine, il 4 sett. 1444, fu nominato arcivescovo di Candia.
Significava tornare ad occuparsi di questioni politiche, assumersi ancora pesanti responsabilità. Cercò di rifiutare, poi accettò: della sua permanenza nell'isola ci rimane un'opera, il Compendium pro Catholicae fidei instructione composta per combattere l'ignoranza di quel clero. Non vi si trattenne a lungo, tuttavia: il 19 ott. 1447 il Senato veneziano lo propose a Niccolò V quale nuovo vescovo di Padova. La nomina però trovò degli oppositori, che si rivolsero a Roma. Per averne ragione, il 2 genn. 1448 i Pregadi risolvevano di assicurare il pontefice che il D. era loro "gratissimus et acceptissimus", nonostante "variis aliorum suggestionibus inhonestissimisque fictionibus".
A Padova il C. trascorse i suoi ultimi anni, occupandosi di carità, del clero, della corrispondenza con gli amici di un tempo. Devotissimo alla Madonna e sostenitore dell'Immacolata concezione, si dedicò con fervore all'attività pastorale, come testimoniano i tre sinodi diocesani da lui promossi, nel '51, '54 e '57, l'ultimo dei quali stabiliva, fra l'altro, l'obbligo della residenza per i sacerdoti titolari di benefici (Constitutiones editae, et publicatae in Sancta Synodo, celebrata die 27 Aprilis 1457, V Indictione, per Reverendiss. D. Fantinum Dandulum Dei, et Apostolicae sedis gratia Episcopum Paduanum).
La vigilanza sul clero non assorbì tuttavia ogni attenzione del D., che nel luglio '54 seppe denunciare talune disposizioni relative al vestire delle donne, che il cardinal Latino aveva emanato senza preoccuparsi di porre "in angustia chi dovesse osservarle". Com'era possibile, infatti, costringere le donne superiori ai dodici anni a portare vesti della lunghezza stabilita? E le sposate, poi, a non sciogliere i capelli? Problemi insormontabili, erano difficoltà che il D. non mancava di far presente al pontefice: "...statum et ordinatio huiusmodi numquam observatum fuerit, nec in mulieribus dicte civitatis paduane fructum fecerit, nec verosimiliter creditur fructus faciet in futurum". Roma acconsentì, non senza, però, aver raccomandato al vescovo che procedesse, prima di abrogare così lodevoli norme, ad un supplemento di indagine, ma "sumarie, simpliciter, et de plano sine strepitu": con discrezione, insomma.
Morì povero a Padova, dopo aver dispensato tutto il suo ai poveri, "neque pecunia neque supellectile ulla pretiosa relicta", il 17 febbr. 1459.
Fu sepolto a Venezia nella chiesa del Corpus Domini, ed ora le sue ossa riposano a S. Pietro di Castello.
Fonti e Bibl.: L'albero genealogico del D. è a Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 16 (= 8305): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, II, cc. 5v-6r, 8v (non attendibile il Barbaro, che lo ritiene figlio del doge Francesco). Numerose informazioni sulla sua vita sono nella Bibl. del CivicoMuseo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti…, I, cc. 217r-218r; Ibid., Cod. Cicogna 2151: Mem. illustri della famiglia Dandolo, pp. 26-29; Ibid., Mss. P. D. 112c: Notizie della famiglia Dandolo, sub voce; Ibid., Cod. Cicogna 2995/VIII: Inscrizioni venez. esistenti in Brescia; Ibid., Cod. Cicogna 3287/61; Ibid., Cod. Cicogna 3749: Cronaca Navagero, p. 240. Per l'attività politica tra il 1418 ed il 1430, cfr. Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, reg. 25/8: Spiritus, cc. 21r-22v, 48v-49v, 67v-68r, 72v; Ibid., Segr. alle Voci. Misti, reg. 13, cc. 82r, 90v, 185v, 194r; per la lettera del Senato al papa, con la quale se ne raccomandava l'elezione al vescovato di Padova, ed altra del 29 apr. 1451, ancora in difesa del D., Ibid., Senato. Terra, reg. 2, cc. 53v e 183v; I libri commemor. della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli. III, Venezia 1883, pp. 334, 339, 379; IV, Venezia 1896, pp. 35 s., 60 ss., 72, 75, 160; V, Venezia 1901, p. 21; per la legazione di Bologna, C. Ghirardacci, Della historia di Bologna, in Rerum Italicarum Scriptores, 2 ed., XXXIII, 1, a cura di A. Sorbelli, pp. 30-33, e G. Borselli, Cronaca gestorum ac factorum memorabilium civitatis Bononie, ibid., XXIII, 2, a cura di A. Sorbelli, pp. 90 s. Sulla vita del D., varie notizie in M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum...,in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 832, 846, 850, 859, 897, 900, 910, 937, 966, 973, 975, 978, 982, 984, 1003, e - soprattutto - G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, Venezia 1752, I, pp. 1-44, 79; II, pp. 47, 101 s.; G. F. Tomasini, Gymnasium Patavinum, Utini 1654, pp. 173 ss., 390; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1663, p. 577, M. Foscarini, Storia arcana ed altri scritti inediti, in Arch. stor. ital., V (1843), pp. 260 s.; F. S. Dondi dell'Orologio, Dissertazione nona sopra l'ist. eccles. padovana, Padova 1817, pp. 41-50; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Venez., Venezia 1827-1853, II, pp. 5 ss., 9-12, 88; IV, pp. 129, 635; VI, pp. 8, 444, 530-532; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1855, pp. 135, 297 ; B. Cecchetti, La Repubblica di Venezia e la corte di Roma nei rapporti della religione, I, Venezia 1874, p. 302; G. Eroli, Erasmo Gattamelata da Narni. Suoi monum. e sua famiglia, Roma 1876, pp. 25, 27; C. Cipolla, Storia delle signorie ital. dal 1313 al 1530, Milano 1881, pp. 345, 355 s.; A. Gloria, Monum. dell'università di Padova (1318-140-5), I, Padova 1888, pp. 217 s.; G. Gerola, Per la cronotassi dei vescovi cretesi all'epoca veneta, Venezia 1913, p. 13; G. Zonta-G. Brotto, Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini ad anno 1406 ad annum 1450…, Patavii 1922, pp. 73 s., 76, 79 ss., 83, 85 ss., 124, 133-140, 244, 427 ss., 431, 433, 435, 439, 441, 443, 445, 447, 451, 453, 458, 460 s., 468 s., 471 s., 480; E. Besta, Storia del diritto italiano, I, 2, Milano 1925, p. 881; L. Lazzarini, Paolo De Bernardo e i primordi dell'umanesimo in Venezia, Genève 1930, pp. 130, 132; F. Cognasso, Il ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI,Milano 1955, pp. 180, 235, 308; C. Pasero, Il dominio veneziano fino all'incendio della Loggia (1426-1575), in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, p. 17; D. Cortese, F. della Rovere e le Orationes sull'Immacolata del vescovo di Padova F. D. (1448), in Il Santo, s. 2, XVII (1977), 1-2, pp. 197, 201-207, 211-15, 218, 221; C. Eubel, Hierarchia catholica Medii Aevi..., II, Monasterii 1901, pp. 156, 232.