Fare come la Germania
Uno Stato pronto a sostenere lo sviluppo interno, uno sguardo attento all’esportazione di prodotti di qualità, capacità di adattarsi ai mutamenti esterni: i punti fermi del ‘modello tedesco’. Ma il sistema comincia a scricchiolare e rischia di destabilizzare l’Europa.
Il modello tedesco è tornato di moda. Dopo oltre un decennio in cui la Germania veniva descritta come la malata d’Europa, sembra essere in corso una vera e propria rivincita di Berlino. Non c’è campo dell’organizzazione economica e sociale – dalla politica industriale alla disciplina di bilancio, dal lavoro allo stato sociale – che non veda l’assetto istituzionale tedesco fra le opzioni più apprezzate nel dibattito pubblico di tutta Europa. Bisognerebbe chiedersi però se e in quale misura il modello tedesco sia davvero il prodotto di una filosofia sociale, politica ed economica ben definita o se – invece – sia il risultato di continui aggiustamenti indotti dall’ambiente esterno al fine di conservarne il successo nel tempo. Per rispondere a questo quesito è necessario distinguere quello che è il modello teorico da quella che è stata, negli ultimi decenni, la pratica politica. Infatti, se ascoltassimo le dichiarazioni ufficiali dei policymakers e dei principali commentatori, il modello tedesco sembra essere basato sull’idea centrale che lo Stato debba limitarsi unicamente a fissare le regole che sono necessarie per sostenere l’economia sociale di mercato (il cosiddetto ordoliberalismo).
È da qui che derivano tutti quegli elementi che – nel comune pensare – costituiscono l’architrave del modello economico tedesco: libero mercato, nessuna politica attiva di gestione della domanda aggregata, un bilancio pubblico quanto più possibile vicino al pareggio, la sussidiarietà nel sistema di welfare e, infine, la codecisione e il consenso sociale nei rapporti di lavoro. Se proviamo però a spostarci sul terreno della pratica politica, notiamo come l’organizzazione del modello tedesco sia un po’ diversa.
Il ruolo dello Stato sembra essere decisamente più attivo, in particolar modo a sostegno dello sviluppo e della penetrazione delle produzioni tedesche anche oltre i confini nazionali (il cosiddetto neomercantilismo).
Si comprendono così meglio i massicci interventi di politica industriale, il ruolo attivo del sistema bancario pubblico, il sistema di fissazione dei salari fortemente corporativo e disegnato a sostegno dei settori export-oriented, nonché uno stato sociale niente affatto passivo, ma anzi pronto ad ammortizzare gli effetti delle ristrutturazioni dei settori produttivi e i cambiamenti strutturali richiesti dal mutare delle condizioni europee e internazionali. Mentre il modello teorico è rimasto sostanzialmente immutato nel tempo – fornendo anche una buona base morale nella contrapposizione fra il binomio tedesco ‘sussidiarietà/responsabilità’ e quello mediterraneo ‘sussidi/trasferimenti’ – la pratica politica si è continuamente modificata nel tempo, in seguito a cambiamenti che sono intervenuti all’interno ma soprattutto all’esterno della Germania.
Con questa chiave di lettura ogni riferimento a un preteso modello teorico a cui ispirarsi viene seriamente messo in discussione dalle scelte politiche mutevoli e basate sulla contingenza che Berlino ha adottato negli ultimi decenni. Resta da capire se almeno queste ultime siano esportabili ad altri paesi o se il ‘modello tedesco’ – anche inteso in questa seconda accezione – non sia replicabile proprio perché esso stesso frutto di un adattamento all’ambiente che lo circonda.
Tre sono le grandi fasi che possiamo distinguere nel secondo dopoguerra. La prima è quella che va dal 1951 al 1972 e coincide sostanzialmente con il periodo del cosiddetto ‘miracolo economico’. La rapida ricostruzione industriale, unita alla massiccia migrazione dalla DDR verso la Repubblica Federale, aveva permesso di ottenere una sostanziale piena occupazione della forza lavoro e, contemporaneamente, dei livelli salariali piuttosto bassi se paragonati con l’incremento della produttività registrato nello stesso periodo. Quest’ultimo fenomeno, insieme alla presenza del regime a cambi fissi che caratterizza il trentennio successivo agli accordi di Bretton Woods,ha favorito una sistematica sottovalutazione del marco, rendendo molto convenienti i prodotti tedeschi sui mercati internazionali e favorendo così un modello di sviluppo basato principalmente sulle esportazioni. La fine del regime a cambi fissi e l’inizio di un periodo di turbolenze sui mercati valutari hanno costretto anche la Germania a rivedere le proprie strategie di politica economica.
È proprio nel periodo successivo – quello che va dal 1975 al 1995 – che la Bundesbank acquisisce progressivamente un ruolo centrale soprattutto nella contrattazione salariale, attraverso politiche monetarie sempre attente a limitare e contenere quelle richieste sindacali che avrebbero potuto compromettere la competitività delle produzioni tedesche. Il passaggio da un sistema basato sulla deflazione salariale a uno invece costruito sulla crescita delle retribuzioni in linea con la produttività ha determinato, a partire dagli anni Ottanta, una esplosione della disoccupazione, con un conseguente aggravio di costi per il generoso welfare nazionale. Tuttavia, nonostante i frequenti riallineamenti nelle parità fra le diverse valute, la costituzione del Sistema monetario europeo (SME) ha permesso alla Germania di ricostruire su scala ridotta lo stesso meccanismo a cambi fissi che ne aveva garantito la fortuna nell’immediato dopoguerra, realizzando così cospicui avanzi commerciali nei confronti di quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale.
Una situazione che, a lungo andare, ha finito per creare numerose tensioni a livello continentale. Da un lato la Germania si è ritrovata a praticare una politica neomercantilista che ha destabilizzato lo SME. Dall’altro la politica deflattiva portata avanti dalla Bundesbank ha penalizzato la crescita e l’occupazione nel resto d’Europa, soprattutto quando la Banca centrale europea ha deciso di aumentare i tassi di interesse per attirare quei capitali necessari a finanziare i costi della riunificazione. Così come era accaduto negli anni Settanta con la fine degli accordi di Bretton Woods, la crisi del regime a cambi fissi verificatasi all’inizio degli anni Novanta ha portato il modello tedesco all’ennesima mutazione.
L’avvio della moneta unica nel 1999, l’introduzione delle controverse riforme del mercato del lavoro da parte del governo socialdemocratico – la cosiddetta ‘Hartz IV’ – e il prepotente emergere di nuove potenze mondiali bisognose di quei beni di investimento di cui la Germania è storica produttrice hanno restituito smalto alla ‘malata d’Europa’.
Gli alti tassi di interesse reali, determinati da una politica monetaria comune su scala europea, e la progressiva delocalizzazione delle fasi meno intensive di capitale verso i paesi dell’ex Europa orientale hanno spinto l’intero sistema produttivo a ristrutturarsi, conservando sul territorio tedesco tutte quelle produzioni ad alto valore aggiunto. I salari, pur attestandosi su livelli piuttosto elevati rispetto a quelli dei paesi limitrofi, sono cresciuti a un ritmo sistematicamente inferiore alla produttività, generando un vantaggio competitivo per l’industria tedesca nei confronti dei partner europei. L’introduzione dell’euro ha infine evitato una rivalutazione della moneta nazionale, determinando crescenti avanzi commerciali soprattutto verso i paesi del Sud Europa. Anche in questo caso tale situazione non ha mancato di creare una crescente instabilità all’interno dell’area euro, soprattutto a partire dal 2008, quando la crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti è approdata in Europa.
Ancora una volta sono emerse tutte le contraddizioni che caratterizzano il modello tedesco: quella che è stata definita la ‘locomotiva d’Europa’, più che trainare la crescita dell’intero continente, si è fatta trainare per anni dalla domanda di beni – finanziata a debito – dei famigerati paesi mediterranei. Contemporaneamente, a prestare denaro alle famiglie, alle imprese e ai governi del Sud Europa sono state proprio le banche tedesche che sono, fra gli istituti di credito della UE, quelle in maggiore difficoltà. Ad andare in crisi non è quindi soltanto l’unione monetaria così come l’abbiamo conosciuta finora, ovvero un sistema valutario basato su un grande paese incapace di governare autonomamente il proprio ciclo economico. È finita anche la terza fase del modello di sviluppo tedesco, quella basata sulla possibilità di prestare denaro agli altri paesi europei senza correre rischi considerevoli.
Non sappiamo ancora quale sarà la prossima mutazione del modello tedesco. Quel che è certo è che invitare tutti i paesi a ‘fare come la Germania’, proprio nel momento in cui appare sempre più chiaro che questa più che un elemento di stabilizzazione ha finito per essere uno dei fattori di destabilizzazione dell’intera UE, non sembra essere la via d’uscita migliore.
Puntare sulla qualità
Più ancora delle pur importanti riforme economiche e sociali attuate soprattutto dal governo Schroeder nella prima metà degli anni Duemila, il successo a livello globale del Modell Deutschland si deve alla capacità delle imprese tedesche di specializzarsi in produzioni ‘di qualità’, ad alto contenuto tecnologico (e quindi a elevato valore aggiunto). L’apice di questo fenomeno è stato forse raggiunto in settori di nicchia (macchinari industriali, ad esempio), poco noti ma di estrema importanza per le economie emergenti che assorbono una percentuale sempre maggiore delle esportazioni tedesche. Esso è però, se possibile, ancora più evidente nel campo automobilistico, un settore industriale ‘maturo’ dove ben pochi marchi possono rivaleggiare con la reputazione di qualità posseduta da case come Mercedes e BMW. Il successo delle esportazioni tedesche, perciò, anche in Europa non è dovuto unicamente alla disponibilità di credito facile, quanto alla capacità di produrre beni altamente desiderabili anche da potenziali acquirenti esigenti e/o con bisogni molto specifici.
L’Eldorado tedesco
Schwäbisch Hall (37.000 abitanti) è improvvisamente assurta, tra marzo e aprile 2012, agli onori della cronaca. È stato sufficiente un articolo pubblicato su un giornale portoghese, in cui si raccontava che nella tranquilla cittadina del Baden-Württemberg si stava cercando personale qualificato, perché le locali agenzie per il lavoro fossero inondate da migliaia di candidature (oltre 10.000) di portoghesi in cerca di un’occupazione o di un lavoro migliore. L’iniziativa era partita dal sindaco, Hermann-Josef Pelgrim, dopo il fallimento di una campagna nazionale. Preoccupato dal declino demografico in atto nella regione, il primo cittadino aveva invitato a Schwäbisch Hall un gruppo di giornalisti dell’Europa mediterranea per pubblicizzare le attrattive, non solo economiche, della regione.