Fare storia della lingua
Rispetto ad altri settori contigui, come la storia letteraria o anche la linguistica (almeno nella sua lunga fase prescientifica), la storia della lingua ha origini più recenti. È un concetto che deve «essere collegato nella sua genesi alle profonde tendenze storicistiche dell’età romantica» (Varvaro 1984, p. 10) e che prende consistenza definitiva tra il 1896 e il 1901, grazie a un libro e a una cattedra: i capitoli di storia del francese redatti da Ferdinand Brunot (1860-1938) per l’Histoire de la langue et de la littérature française di Louis Petit de Julleville (di lì a qualche anno Brunot avrebbe dato avvio alla sua monumentale Histoire de la langue française, poi continuata da altri); e l’insegnamento di una Histoire de la langue française, istituito alla Sorbona nel 1901 e assegnato allo stesso Brunot. Ancora più recente l’anno di nascita di una Storia della lingua italiana: il 1938, quando fu istituita l’omonima cattedra all’Università di Firenze attribuita a Bruno Migliorini (1896-1975).
Non è ovvio stabilire quale sia l’ambito di studio di questa «categoria controversa», come la definiva Alberto Varvaro già nel 1972; vero è che lo stesso si potrebbe ripetere di molte altre discipline umanistiche, che hanno visto mutare nel corso degli ultimi decenni non solo i metodi, com’è naturale, ma persino gli oggetti di studio e le direttrici della ricerca. Converrà mettere a fuoco la nozione di storia della lingua in base a tre parametri: a) rapporto tra singole lingue nazionali e rispettive storie linguistiche; b) definizione rispetto ai settori scientifici contigui; c) relazione tra ricerca e didattica.
a) Le vicende storiche delle varie lingue influenzano la periodizzazione storica delle stesse e incidono sul profilo scientifico dei singoli studiosi. Ciò vale già per le lingue romanze, che pure hanno nel latino la base comune, senza la quale non si potrebbe procedere nello studio della linguistica romanza. Ma, pur condividendo il distacco dal sistema linguistico latino (perdita delle declinazioni, sviluppo del passivo analitico ecc.), le lingue romanze attraversano diverse fasi di sviluppo nel corso della loro storia.
In generale, allargando il quadro all’Europa non romanza, spiccano le differenze tra l’italiano, da una parte, e le altre lingue di cultura, dall’altra. Nel primo caso, infatti, la percezione di uno sviluppo senza soluzioni di continuità, dal Placito di Capua (960) alla lingua degli SMS – quale che ne sia l’effettivo fondamento – fa sì che il singolo storico della lingua, anche se proiettato sulla contemporaneità dalla sua ricerca scientifica personale, non possa prescindere dai problemi delle origini (come parte integrante delle sue competenze professionali e magari come possibile oggetto di un corso universitario). Nel secondo caso, l’esistenza di uno iato tra fase antica e fase moderna (variamente collocabile) dà vita invece a profili scientifici e accademici distinti.
Relativamente vicino al quadro italiano è l’assetto disciplinare della Storia della lingua spagnola in Spagna, forse con una più spiccata focalizzazione di aspetti di linguistica interna: fonetica, morfologia e sintassi storiche. In Francia, la Storia della lingua francese è concentrata sulla lingua d’oïl (e corrisponde piuttosto a quel che è, in Italia, la Filologia romanza: accentuata vocazione medievistica e spiccata caratterizzazione filologica), mentre di Victor Hugo oppure di formazione delle parole si occuperebbero, piuttosto, studiosi rispettivamente di letteratura e di linguistica. In Germania si hanno cattedre distinte a seconda che le competenze vertano sulla fase medievale (700-1500 circa) o sulla lingua moderna (dunque sullo sviluppo del tedesco letterario e dei suoi dialetti da Lutero fino a oggi). Analogamente, nel Regno Unito è spiccata la separazione tra l’Old english del Beowulf, il Middle english di Geoffrey Chaucer (più accessibile per lo studente anglofono; ma in generale nell’ambito delle università britanniche circolano testi con traduzione a fronte) e l’inglese moderno.
b) La storia della lingua italiana nasce alla confluenza di due specifiche tradizioni di studi. Da un lato, la dialettologia che si richiama al grande Graziadio Isaia Ascoli e che ne costituisce l’indispensabile retroterra tecnico: l’indagine dell’assetto linguistico di un testo (di norma orale, nel caso della dialettologia; scritto, nel caso della storia della lingua) secondo i metodi della grammatica storica messi a punto dai neogrammatici alla fine del 19° secolo. Dall’altro, la filologia. La centralità del testo potrebbe essere considerata un carattere distintivo della storia della lingua in quanto tale: si tratti di testi documentari, specie antichi, che permettono di ricostruire «livelli verosimilmente prossimi all’uso linguistico corrente, sia come autonomo obiettivo, sia per arrivare a definire lo scarto presente nelle scritture letterarie» (Stussi 1993-94, p. 12); di testi con tradizione plurima, per i quali è indispensabile provvedere alla veste linguistica dell’edizione critica; dello scrutinio linguistico-stilistico delle varianti di un testo letterario (la ‘critica degli scartafacci’ tanto invisa a Benedetto Croce, ma in realtà strumento raffinato, se usato con discernimento, per entrare nel laboratorio degli scrittori). Non va sottaciuta nemmeno la componente storico-letteraria. È facile passare dall’analisi stilistica o metrica all’ambito letterario tout-court; e non è certo un caso che uno dei maestri di B. Migliorini sia stato Cesare De Lollis (1863-1928), autore di penetranti studi sulla lingua poetica italiana del 19° sec. (Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento, apparsi un anno dopo la sua morte), il quale, partendo da esordi filologici, si volse in seguito alle letterature comparate.
È fondamentale, nella prospettiva dello storico della lingua, la distinzione tra storia linguistica interna ed esterna, divulgata (se non introdotta) da Brunot; una distinzione che è stata oggetto di critiche e di limitazioni, ma che ha un’indubbia utilità euristica.
La storia interna, che in gran parte coincide con la grammatica storica, si riferisce alla dinamica evolutiva dei singoli istituti linguistici descritti da fonetica, morfologia, sintassi, per i quali non è accertabile un condizionamento del contesto esterno e che dipendono, in generale, dalla naturale mutabilità delle lingue per effetto del succedersi delle generazioni di parlanti e dell’interferenza di altri sistemi linguistici (per es., il collasso della quantità nel vocalismo latino a favore della qualità o timbro); ovvero discendono dal riassestamento del sistema linguistico in seguito alla modificazione delle sue strutture (l’ordine diretto soggetto-verbo-complementi proprio della sintassi romanza si afferma come contraccolpo alla perdita delle declinazioni latine e quindi per la necessità di qualificare la funzione sintattica, non più accertabile attraverso le desinenze, grazie alla posizione rigida all’interno della frase). La storia esterna comprende invece l’insieme dei fattori di ordine fisico, storico, antropologico o culturale che condizionano o possono condizionare l’evoluzione di una lingua. Per l’italiano è stata proposta (Serianni 2003) la seguente scala, in ordine crescente d’importanza: fattori extraculturali (conformazione del territorio); fattori culturali in senso lato (vicende demografiche, politiche, amministrative, economiche e militari); fattori culturali in senso stretto (alfabetismo e scolarizzazione, codificazione grammaticale, incidenza di modelli letterari e paraletterari e dei mezzi di comunicazione di massa).
L’evoluzione del lessico si può situare in una zona di confine: da un lato rientra nella storia interna (per es., la formazione degli alterati: povero → poveretto, poverino, poverello, poveraccio), dall’altro in quella esterna (i forestierismi sono evidentemente legati al prestigio che una lingua esercita sull’altra; gli iberismi che si diffondono nell’italiano cinque-secentesco, per es., sono un portato del dominio politico e culturale esercitato dalla Spagna del Siglo de oro).
c) A differenza di altri ambiti umanistici, che hanno ricadute marginali o occasionali sulla massa degli studenti della scuola primaria e secondaria, la storia della lingua italiana ha un impatto evidente nella quotidiana attività didattica. Sia per quel che riguarda il più maturo dominio delle risorse della lingua materna (così come avverrebbe per lo studio di ogni altro idioma nazionale), sia per la possibilità di offrirsi come terreno privilegiato per la riflessione metalinguistica. Allo scopo si presterebbe ovviamente qualsiasi altra lingua: ma il latino e il greco – che da sempre hanno svolto questa funzione nella scuola – sono appannaggio di un piccolo gruppo di studenti delle superiori; l’inglese o un’altra lingua moderna si studiano per arrivare a una soddisfacente capacità comunicativa, e non c’è né tempo né modo di soffermarsi criticamente sulle relative strutture grammaticali. L’italiano dei classici, con il quale in qualche misura vengono a contatto tutti gli adolescenti scolarizzati, è invece un’ottima occasione per riflettere sul cambiamento semantico (noia da ‘sentimento di dolore o di angoscia’, come nel dantesco ma tu perché ritorni a tanta noia?, ad ‘assenza di stimoli’) o sulla deriva dell’antico nel moderno (dai relitti per lo più e per lo meno, con l’articolo lo dopo parola terminante per consonante – come nel petrarchesco per lo più ardente sole e per la neve – a menare ‘far passare’ del leopardiano menare il giorno, che si ritrova ancora oggi nella frase idiomatica menare il can per l’aia).
Temi di ricerca vecchi e nuovi
Una bipartizione fondamentale che interessa l’ambito della storia della lingua è quella tra studio della lingua letteraria e studio della lingua non letteraria (anche se alcuni tra i massimi cultori della disciplina si sono cimentati con successo in entrambi i territori). La lingua degli autori è fatta oggetto di studi che ne indagano di volta in volta la compagine fonetica, morfologica e sintattica, il lessico e, specie nel caso di poeti, l’impalcatura retorica. La caratterizzazione linguistica è esperita in servizio di un’edizione critica, e allora si limiterà a rilevare i tratti utili alla ricostruzione del testo e le eventuali fasi del processo di correzione; oppure può tradursi in una monografia autonoma: quest’ultima, a sua volta, può consistere in un saggio che scandagli in modo tendenzialmente esaustivo l’autore o l’opera considerati; può delineare una panoramica storica o tipologica (per es., il teatro in un certo ambiente o in una certa epoca); infine, può concentrarsi su singoli aspetti linguisticamente o stilisticamente salienti di un’opera o di un autore.
Limitandoci ai grandi autori della letteratura italiana studiati nei primi anni del 21° sec. e a indicazioni sommarie, si possono citare, tra le monografie: i due volumi consacrati alla Gerusalemme liberata del Tasso da Maurizio Vitale (L’officina linguistica del Tasso epico. La «Gerusalemme Liberata», 2007); il saggio di Lorenzo Tomasin («Classica e odierna». Studi sulla lingua di Carducci, 2007) che tocca aspetti fonetici, morfologici e lessicali di Carducci prosatore e poeta; e due studi novecenteschi, a opera di Davide Colussi su Croce (Tra grammatica e logica. Saggio sulla lingua di Benedetto Croce, 2007) – non un autore creativo, ma certo il massimo intellettuale italiano della sua epoca e insieme un riconosciuto modello di prosa letteraria – e di Gianluca Lauta su Moravia (La scrittura di Moravia. Lingua e stile dagli Indifferenti ai Racconti romani, 2005), il più fortunato prosatore di medio Novecento. Per le altre fattispecie – fitte di titoli – è giocoforza contenersi e citare solo un episodio esemplare: tra i volumi di taglio panoramico, una raccolta di Maurizio Dardano (Leggere i romanzi. Lingua e strutture testuali da Verga a Veronesi, 2008), che indaga articolazione del dialogo, tecnica dell’argomentazione e sintassi di vari prosatori; per i contributi in margine a un’edizione critica, il capitolo Lingua e metrica allestito da Gabriele Bucchi per la sua edizione (2005) del Bacco in Toscana di Francesco Redi; per i lavori su aspetti particolari, vari articoli apparsi in sedi diverse nel 2007 a opera di Carlo Enrico Roggia sull’Ossian di Melchiorre Cesarotti, un’opera decisiva per l’assetto della lingua poetica tra Sette e Ottocento (si veda almeno La lingua dell’“Ossian” di Cesarotti: appunti, «Lingua e stile», 2007, 2, pp. 243-82).
Statuto particolare hanno gli studi di metrica, di notevole sviluppo in alcuni settori (Petrarca, poesia del secondo Novecento), e coltivati prevalentemente da singole scuole di storici della lingua: prima fra tutte quella padovana di Pier Vincenzo Mengaldo.
Molto più articolato il quadro relativo alla lingua non letteraria: un’etichetta sfuggente che può applicarsi a realtà incommensurabili, da un volgarizzamento medievale al parlato filmico. Tramontata la questione dell’‘italiano popolare’, che tante discussioni aveva suscitato negli anni Settanta del secolo scorso, particolare interesse è stato rivolto a quelle che potremmo chiamare genericamente scritture non letterarie; vale a dire, scritture che non si propongono fini d’arte e che appartengono a scriventi alfabeti, ma senza una specifica educazione letteraria.
L’impressione di un forte divario tra questo tipo di scritture e i coevi prodotti letterari (poesie, novelle, trattati vari) che ricava un lettore d’oggi va attenuata, perché può essere condizionata da un errore di prospettiva. I testi non letterari, emersione casuale di un universo scritto senza ambizione di passare ai posteri, sono restati manoscritti e non hanno subito il vario maquillage che dal pieno Cinquecento in poi era in varia misura riservato alle stampe.
In particolare, fino al Sei-Settecento hanno modesta importanza diagnostica, per risalire alla cultura scritta di chi ha vergato un testo, i fenomeni grafici (per es., oscillazioni di scempie e doppie: abasso, pogio, egreggio; rappresentazione della nasale preconsonantica o delle palatali: conpagno, siniore; omissione della i diacritica e presenza di una i superflua: gorno, ciena). Soltanto l’eventuale addensarsi di tratti del genere può essere indicativo; però inducono alla prudenza non solo siffatte incertezze grafiche, ma anche i vistosi errori di segmentazione – del genere di dessere o l’ettera – attestati ancora in epistolari ottocenteschi di scriventi acculturati (che siano tali si evince, non foss’altro, dalla ricchezza e varietà del lessico) come le lettere dello scultore e patriota Rosario Bagnasco ai suoi compagni di fede politica o quelle scritte dalla nobildonna Amalia Ruspoli Pianciani al figlio Luigi, il futuro deputato e sindaco di Roma capitale (sondati rispettivamente da Lucia Raffaelli e Danilo Poggiogalli nel 2001 e nel 2004).
Uno specifico impegno per le ricerche sull’italiano non letterario del passato va riconosciuto a Giovanni Petrolini, che pubblicò nel 1980 il diario di un prete vissuto nel Cinquecento in un paese dell’Appennino tosco-emiliano, corredando poi il testo, in due articoli apparsi successivamente, di un attento commento linguistico. Nel 2004 un altro linguista dell’ateneo parmense, Paolo Bongrani, ha promosso l’edizione di un libro di memorie di un prete emiliano, vissuto nel Seicento (a suo tempo trascritto da due sue laureate, poi collaboratrici nell’impresa), dotandolo anche in questo caso di un ampio commento. Ricordiamo inoltre, proprio per mostrare la vitalità di questo filone di studi per aree tra loro lontane e a opera di studiosi di diversa formazione, l’edizione e il commento linguistico della cronaca di un prete abruzzese filoborbonico in anni politicamente roventi (1777-1823), allestiti da un’allieva romana di Ugo Vignuzzi, Rita Fresu, nel 2006.
Le memorie che singoli osservatori – tipicamente, ma non certo esclusivamente, sacerdoti – redigevano sugli avvenimenti grandi e piccoli a cui avevano assistito hanno interesse non solo per i linguisti ma anche per gli storici sensibili alla storia della soggettività e dell’immaginario. Gli epistolari di mittenti colti – oggetto di varie indagini di Giuseppe Antonelli, sfociate nel volume Tipologia linguistica del genere epistolare nel primo Ottocento: sondaggi sulle lettere familiari di mittenti colti (2003) – non hanno sempre rilievo storico, ma, in compenso, offrono uno spaccato delle scritture di donne, le quali spesso non hanno avuto altra occasione per dar conto di sé (ove si prescinda dal fenomeno delle mistiche, di notevole significato storico-culturale, ma di portata ovviamente limitata). Allo stesso Antonelli e, in particolare, a Massimo Palermo si deve l’iniziativa di allestire un archivio digitale, consultabile in rete, il CEOD (Corpus Epistolare Ottocentesco Digitale, 2004), dotato di un motore di ricerca particolarmente elaborato, che consente di effettuare, oltre a quelle consuete, anche operazioni più raffinate, permettendo di risalire, per es., alle cancellature, alle correzioni o alle sottolineature presenti nell’originale. La consistenza finale del corpus ha sfiorato nel 2008 la quota di 2000 lettere.
L’attenzione all’Ottocento, molto indagato negli ultimi anni (al punto da renderlo, con il Trecento, il secolo italiano meglio descritto linguisticamente), ovviamente non implica che il Medioevo sia stato trascurato, né che sia trascurabile. Se i testi toscani di carattere pratico non hanno ormai molto di nuovo da dirci, grazie soprattutto all’infaticabile impegno cinquantennale profuso da Arrigo Castellani (1920-2004), il discorso cambia per altre aree, alcune delle quali notevolmente doviziose di documenti. È il caso del Veneto, che si è arricchito negli ultimissimi anni di due edizioni commentate di testi padovani (Lorenzo Tomasin, Testi padovani del Trecento: edizione e commento linguistico, 2004) e veronesi (Nello Bertoletti, Testi veronesi dell’età scaligera: edizione, commento linguistico e glossario, 2005).
Un cenno, infine, agli studi sui linguaggi settoriali. L’etichetta è controversa; ma possiamo applicarla qui agli ambiti, antichi e moderni, in cui si manifesta un sapere particolare (lingua della scienza, del diritto, dell’economia ecc.) e a quelli, tutti novecenteschi o contemporanei, che, a differenza dei primi, non presentano restrizioni né di tema né di destinatario ma sono condizionati dal mezzo (cinema, radio, comunicazione mediata dal computer, pubblicità ecc.). Entrambi questi filoni sono stati praticati con successo e appaiono, probabilmente, tra quelli più fecondi per le ricerche del futuro.
Per scienza e tecnica andranno sottolineati due fatti: 1) l’emersione, attraverso esplorazioni di archivi, di un numero imprevedibile di volgarizzamenti di testi scientifici antichi (nel 1990, per es., l’esistenza di volgarizzamenti della Mulomedicina di Vegezio era dedotta solo indirettamente, mentre oggi conosciamo ben 31 codici che conservano l’opera in volgare) e dunque la concreta possibilità di studiarne lessico, impalcatura testuale, colorito regionale; 2) la presenza – accanto ad ambiti abbastanza esplorati (come la musica, la medicina, la fisica galileiana; o, venendo all’oggi, i giornali, il cinema, l’italiano delle chat-line) – di settori per i quali le ricerche sono solo agli inizi o hanno indagato un segmento, sia pur decisivo (come la gastronomia tardomedievale, la matematica del Pacioli, la meccanica applicata del Cinquecento, la chimica del Settecento, il linguaggio politico giacobino, fascista e contemporaneo o le origini del linguaggio economico, oggetto della monografia del romanista polacco Roman Sosnowski, Origini della lingua dell’economia in Italia dal XIII al XVI secolo, 2006). Ma poco o nulla sappiamo, per es., di lingua dell’agricoltura, dell’industria e commercio o di diverse branche del diritto.
Tra le aree di ricerca che manifestano attualmente grande vitalità andrà ricordata l’onomastica, in particolare l’antroponimia. Non si tratta, evidentemente, di una novità in assoluto: senza risalire ad alcuni saggi ancora fondamentali apparsi nella prima metà del secolo scorso o poco dopo, come quelli di Giandomenico Serra o di Olof Brattö, basterà ricordare l’operosità dei glottologi Emidio De Felice (1918-1993) e Carlo Tagliavini (1903-1982), che hanno avuto anche il merito di divulgare presso il largo pubblico un corretto rapporto con la scienza dei nomi, spesso dominio del più sfacciato dilettantismo. Ma quel che mancava, fino ad anni recentissimi, era una tradizione di studi che, di là dall’impegno di un singolo studioso isolato, garantisse da un lato uno stabile rapporto con la ricerca internazionale e dall’altro si traducesse in una serie di ricerche coordinate e in risultati significativi. Al primo requisito rispondono, dal 1995, la «Rivista italiana di onomastica» (direttore: Enzo Caffarelli; due fascicoli annui), aperta anche ad ambiti marginali rispetto all’antroponimia e alla toponomastica, come le denominazioni di esercizi commerciali (apoteconimi) o di animali domestici, e, dal 1999, «il Nome nel Testo. Rivista internazionale di onomastica letteraria» (direttori: Maria Giovanna Arcamone, Davide De Camilli, Bruno Porcelli; un fascicolo annuo). Il secondo requisito si è tradotto soprattutto nell’attività di Alda Rossebastiano a Torino e di Maria Giovanna Arcamone a Pisa.
A parte numerose ricerche particolari, va segnalato un monumentale dizionario dei primi nomi, pubblicato da Rossebastiano in collaborazione con Elena Papa nel 2005. L’opera, che non ha termini di confronto neanche per altre lingue, si fonda su un ingentissimo materiale (gran parte dei cittadini nati in Italia tra 1900 e 1994, secondo dati forniti dall’Anagrafe tributaria del Ministero delle Finanze) e offre, per ognuno degli oltre 28.000 nomi censiti, oltre all’etimologia e a eventuali osservazioni sulla sua fortuna, la frequenza nel corso degli anni e la distribuzione regionale. Di analoga mole l’eccellente I cognomi d’Italia (2008) di Enzo Caffarelli e Carla Marcato (55.000 cognomi ricavati in gran parte da SEAT-Pagine gialle del 1999-2000). Fuori d’Italia, spicca l’operosità di Wolfgang Schweickard, romanista dell’Università di Saarbrücken, che sta portando avanti dal 1997 un Deonomasticon italicum, ossia un dizionario che raccoglie, analizza e illustra storicamente i derivati dai nomi propri; nel 2006 – con un ritmo estremamente rapido data la complessità del progetto – l’impresa è arrivata alla lettera L dei toponimi, ossia al secondo volume (su quattro) della sezione più cospicua, alla quale seguiranno due volumi dedicati agli antroponimi.
Va segnalata innanzitutto la meritoria opera di documentazione, che porta alla luce un’insospettata polimorfia degli etnici – un settore lessicale trascurato dai grandi lessici storici – nel corso del tempo (così, accanto a finlandesi, emergono finni, finnoni, finninghi, finnesi, finlandi e filandesi; e gli abitanti di Lipari sono, o sono stati indicati come, liparesi, liparensi, liparoti, liparotti, liparioti, lipariotti, liparitani, liparitanesi, liparei, liparini).
Tuttavia, non c’è solo questo: una documentazione tanto ampia consente di dirimere questioni etimologiche discusse (per ferrandina «tipo di tessuto pregiato» il Deonomasticon conferma l’etimologia da Fiandra, a suo tempo avanzata da Prati e da Cortelazzo, respingendo definitivamente altre ipotesi – da Ferrandina comune del materano, da un ipotetico monsieur Ferrand ecc. – che si dissolvono proprio per l’assoluta mancanza di un puntello documentario); di indagare gli sviluppi semantici deprezzativi subiti dalle formazioni deonomastiche, spesso particolarmente attivi nei dialetti (il tipo ‘francese’, per es., ha assunto vari significati secondari in riferimento a persone: ‘porco, maiale’ [ticinese], ‘pidocchio’ [milanese], ‘ridicolo, buffo a vedersi’ [napoletano], ‘lunatico’ [calabrese], ‘spiantato’ [siciliano]); di mettere a punto processi di fonetica storica (lo spostamento d’accento in Frìuli, invece dell’etimologico Friùli – finora documentabile attraverso trattatisti sei-settecenteschi – ri-sulta ampiamente confermato dall’estensione, già in ambiente toscano tre-quattrocentesco, dei tipi Frigoli e Frioli, in cui il passaggio u>o può spiegarsi solo in regime di atonia e rientrare agevolmente in note oscillazioni del tipo di seculo/secolo, circulo/circolo); e persino di ricostruire paragrafi di storia letteraria: si pensi ai procedimenti di lessico equivoco incardinati su un toponimo, variamente motivati, spesso promossi dalla tradizione poetica comico-realistica toscana, con in testa il Burchiello: Ferrarese ‘organo sessuale femminile durante le mestruazioni’, Figline ‘vagina’, Foiano ‘con allusione all’organo genitale femminile’, forolivio ‘culo, deretano’ e così via.
Rivelatore dello spazio che questo indirizzo di studi ha saputo conquistarsi nel corso degli ultimi anni è il fatto che, nel profilo sull’italiano contemporaneo realizzato da Paolo D’Achille (20062), compaia – per la prima volta in un’opera del genere – un capitolo consacrato, appunto, all’onomastica.
Per quanto riguarda i metodi, il momento centrale dell’indagine storico-linguistica, cioè l’analisi puntuale di un testo medievale o moderno, procede tuttora secondo i presupposti (dalle basi latine agli esiti volgari), le categorie interpretative (latinismo, influsso analogico...), la griglia descrittiva (dalla grafia al vocalismo tonico e atono, al consonantismo...), la terminologia messi a punto nei grandi lavori di grammatica storica dalla fine del 19° sec. in avanti. Com’è ben noto, l’utilizzabilità di strumenti interpretativi (ma spesso anche di singoli contributi) che risalgono così indietro nel tempo rappresenta l’irriducibile divergenza di metodi tra scienziati e umanisti. Metterà conto, piuttosto, ribadire i vantaggi euristici di questa continuità per la descrizione fono-morfologica di un testo, che sono sostanzialmente due: la facile riconoscibilità degli elementi linguisticamente marcati, che una descrizione corretta deve far emergere e che proprio la lunga decantazione dei metodi d’analisi rende agevole (sarebbe ozioso chiedersi quali sono gli esiti di ī o di ū in un testo tosco-letterario, mentre è quasi sempre utile indicare quale sia la desinenza della 1a persona dell’imperfetto – io amava o amavo – e valutare l’incidenza delle eventuali alternative); l’opportunità, inserendosi in una lunga serie di descrizioni impostate in modo analogo, di favorire confronti tra indagini diverse. Non è un caso che sia questo lo spirito con il quale Pär Larson, Giovanna Frosini e la compianta Valentina Pollidori hanno allestito il commento linguistico, per la prima volta eseguito con una lente così ravvicinata e con tanta raffinatezza interpretativa, dei tre grandi canzonieri della lirica italiana antica (I canzonieri della lirica italiana delle origini, a cura di L. Leonardi, 4° vol., Studi critici, 2001).
La novità, negli studi degli ultimi anni, è rappresentata semmai dall’estensione dell’analisi, un tempo quasi immancabilmente limitata alla fase antica e con privilegio dei testi non letterari: sulla rete descrittiva allestita da Castellani in base a documenti soprattutto mercantili si basano del resto le proposte di ricostruzione della fisionomia linguistica dei singoli ama-nuensi suggerite dai tre studiosi appena ricordati.
Il quadro si fa più complesso in due casi. Da un lato, per i testi letterari, che possono anche essere studiati secondo le stesse griglie interpretative messe a punto per libri mercantili medievali o per ricettari di cucina, a condizione che non se ne dimentichi lo specifico letterario: il contributo proprio dello storico della lingua, come si accennava, sarà quello di valutare le scelte del singolo rispetto a quelle della tradizione o della norma coeva di riferimento. Dall’altro lato per la sintassi, in cui l’analisi di tradizione tardo-positivistica appare insufficiente, perché tipicamente limitata a singoli microfenomeni.
Proprio in questo settore si notano infatti le novità più marcate. Dal punto di vista dei metodi, è ormai entrata abitualmente nelle procedure di analisi la linguistica testuale, che in Italia ha suscitato attenzione precoce proprio da parte di storici della lingua, come Bice Mortara Garavelli, Francesco Sabatini, Maurizio Dardano. La verifica della testualità è addirittura un passaggio obbligato per le indagini su scriventi non professionali o non abituali. Così Rosa Piro, pubblicando le sintesi di alcuni sermoni visionari di una mistica fiorentina del Quattrocento (Le «Substantie» dei Sermoni e delle Visioni di Domenica da Paradiso, 1473-1553, 2004), distingue nettamente tra una sezione ‘tradizionale’ (ar/er atoni, metatesi, numerali ecc.) e una sezione ‘innovativa’, dedicata a testualità e discorso riportato.
Meno usuale, nell’analisi della lingua del passato, il ricorso alla linguistica generativa (e, ancor più, alla grammatica relazionale).
Un bell’esempio di meditato ricorso ai metodi della grammatica generativa (la terminologia resta, apprezzabilmente, al di qua del tecnicismo impervio caro ai generativisti di stretta osservanza) e, insieme, della diversa complessità di analisi nei due livelli – fonomorfologico e sintattico – è stato offerto da Alfredo Stussi, in un suo profilo della lingua del Decamerone (20052). Ai tratti fono-morfologici è dedicata una decina di pagine (Stussi definisce il suo panorama «parziale e sommario, ma forse non insufficiente per un orientamento generale», Storia linguistica e storia letteraria, 2005, p. 96); mentre le 22 pagine destinate alla sintassi sono ritenute necessariamente insufficienti, dal momento che «non c’è modo di fare altrettanto in poco spazio per quanto concerne la sintassi e della frase e del periodo, perché i singoli costrutti e le loro varie combinazioni costituiscono un organismo complesso e ramificato cui occorrerebbe accostarsi non solo sulla base d’una esauriente tassonomia, ma anche analizzando il rapporto di certi fenomeni sintattici con l’elaborazione retorico-stilistica, se non addirittura la loro omologia con la struttura narrativa d’alcune novelle» (p. 96). Quanto alla grammatica relazionale, si può citare il riferimento a un concetto e a un termine tipico di questa scuola, quello di inizializzazione, presente nell’analisi che Vittorio Formentin (2004) ha dedicato al comportamento sintattico di alcuni verbi nel veneto antico.
A partire dai primi anni del nuovo secolo un gruppo di studiosi coordinato da Lorenzo Renzi sta attendendo a una grammatica del fiorentino antico – alcuni capitoli della quale sono stati pubblicati in rete –, che dovrebbe applicare almeno in parte metodi propri del generativismo, secondo la prospettiva saggiata anni fa per l’italiano contemporaneo nella Grande grammatica di consultazione coordinata dallo stesso Renzi (1988-1995). Tre italianisti inglesi, Nigel Vincent, Mair Parry e Robert Hastings, stanno lavorando invece a una morfosintassi comparata dei volgari italo-romanzi dei primi secoli; questo progetto, che è stato avviato nel 2000, è conosciuto con l’acronimo SAVI (Sintassi degli Antichi Volgari d’Italia).
Strumenti cartacei ed elettronici
La storia della lingua si fonda, per sua natura, su regesti di forme: dai tradizionali dizionari, alle concordanze e ai corpora. In tutti e tre questi settori l’elettronica è entrata vittoriosamente, o come unico supporto possibile (nel terzo e ormai anche nel secondo caso) oppure come ormai immancabile fiancheggiatrice della stampa (nel primo).
Per i dizionari e per i repertori lessicali in genere le opere a stampa sono tuttora la norma. Nel 1999 è apparso il GRADIT (Grande Dizionario Italiano dell’uso) di Tullio De Mauro, che con i suoi circa 250.000 lemmi è attualmente il più ampio dizionario tra quelli che si propongono «di rappresentare il lessico della lingua italiana in uso nel Novecento tra gli italofoni, cioè tra quanti e quante hanno impiegato e impiegano l’italiano leggendo e scrivendo, parlando e ascoltando» (Introduzione, p. XI). Di notevole rilievo anche il Vocabolario Treccani (5 voll.), giunto alla terza edizione (2009). Tra i dizionari dell’uso monovolume, i più collaudati e diffusi (Zingarelli, Devoto-Oli, Sabatini-Coletti, Garzanti) escono ormai con edizioni annuali che, di là dall’introduzione di un certo numero di neologismi – dato accessorio, anche se inevitabilmente enfatizzato nelle recensioni giornalistiche –, forniscono diverse altre informazioni di tipo linguistico, spesso stimolate dalle scelte della concorrenza. Ciò fa sì che, pur mantenendo una fisionomia specifica e una mole tra loro equiparabile (a parte il GRADIT), i vari dizionari disponibili agli inizi del 21° sec. offrano non solo una buona affidabilità media, ma anche un corredo integrativo in gran parte comune.
Tra le informazioni lessicali si può ricordare l’indicazione delle parole più frequenti (in genere 8000-10.000) e lo spazio assegnato alle unità polirematiche (il tipo ferro da stiro). Tra quelle storiche, la data della prima attestazione di un lemma (purtroppo poco utile quando il lemma ha più accezioni, ciascuna con una storia lessicologica sua propria: la data segnala di norma solo l’accezione più antica; inoltre la mancata esplicitazione della fonte, per ragioni di spazio, rende incontrollabili le datazioni che non derivano dai grandi dizionari storici). Tra quelle grammaticali: l’indicazione delle reggenze, specie verbali (per es., trattare con il sindacato, trattare di liquidazioni, trattare per il sindacato ‘per conto di’).
Da menzionare anche i dizionari di neologismi (i più recenti si devono a C. Quarantotto, Dizionario delle parole nuovissime, 2001; G. Adamo e V. Della Valle, Neologismi quotidiani, 2003, e 2006 parole nuove, 2005; il Vocabolario Treccani. Neologismi. Parole nuove dai giornali, 2008). Il loro interesse come strumenti di studio si fonda sulla possibilità di indagare i meccanismi di formazione delle parole e anche l’incidenza dei grandi mezzi di comunicazione di massa – i giornali, in primo luogo, ma anche la televisione e Internet – nella massima parte della creatività neologica, peraltro destinata a rapida obsolescenza.
Quanto ai dizionari storici, è giunto a compimento nel 2002 il Grande dizionario della lingua italiana, ideato e avviato più di quarant’anni prima da Salvatore Battaglia. È e resterà a lungo lo strumento fondamentale per qualsiasi ricerca sul lessico italiano, tanto più che l’orizzonte iniziale, ristretto ai tradizionali testi letterari, è andato via via opportunamente allargandosi alle scienze, all’economia, al diritto, ai giornali e alla letteratura di consumo. Procede a ritmo serrato la titanica impresa del LEI (Lessico Etimologico Italiano), avviata nel 1979 da Max Pfister a Saarbrücken e attualmente diretta dallo stesso Pfister e da W. Schweickard: nel 2008 si è arrivati ai derivati di capitalis ed è apparso il primo fascicolo dedicato alla lettera d, elaborato da una squadra parallela a quella che opera in Germania e attiva nell’Università del Salento (curatore Marcello Aprile); prosegue il regesto dei germanismi, curato da un nucleo campano (responsabile Elda Morlicchio). La lacuna più grave della lessicografia italiana resta quella dei dizionari dialettali. Nel 2002 si è concluso il grande Vocabolario siciliano fondato da Giorgio Piccitto (il primo dei cinque volumi era apparso nel 1977); ma per altre grandi realtà dialettali si è fermi alle gloriose opere ottocentesche (di Francesco Cherubini per il milanese; di Vittorio di Sant’Albino per il piemontese; di Giuseppe Boerio per il veneziano) o si oscilla, come nel caso del romanesco, tra opere non del tutto affidabili e progetti solidi, ma lontani dalla realizzazione.
Le straordinarie risorse offerte dagli archivi elettronici e dai vari corpora disponibili in rete – che rappresentano la grande novità dell’ultimo decennio, da cui i linguisti più di ogni altro possono trarre profitto – permetterebbero di progettare ricerche impensabili con il ricorso a strumenti tradizionali, anche se finora sono state sfruttate in misura modesta. Si tratta sia di ricerche lessicali, sia di ricerche di microsintassi o di morfologia, che sarebbe decisamente antieconomico impostare su spogli manuali.
Per le ricerche lessicali, l’utilizzazione della LIZ (Letteratura Italiana Zanichelli di Pasquale Stoppelli ed Eugenio Picchi, giunta all’archiviazione di mille testi nella quarta edizione, 2001) permette, per es., non solo di retrodatare singoli lemmi rispetto ai dizionari storici, ma anche di individuare ‘attestazioni prodromiche’, vale a dire sequenze non ancora cristallizzate, né formalmente né semanticamente, in una stabile unità polirematica o locuzione idiomatica: si tratta di materiali che presentano notevole interesse storico-etimologico perché offrono la possibilità di verificare in che modo si è formato e poi consolidato un certo sintagma. Si può distinguere tra le attestazioni prodromiche di tipo formale, quando è in gioco soltanto un diverso costrutto (per es., mettersi la mano sul petto /al petto) e quelle, più interessanti, di tipo semantico (è il caso di dare la mano che, prima di ridursi a un rituale e pressoché automatico gesto di saluto, rappresentava un’impegnativa dichiarazione di lealtà e, specificamente, di fedeltà amorosa). Per i fenomeni grammaticali si potrebbe verificare come abbia funzionato nel corso dei secoli l’alternanza della preposizione locativa (a/in). La facile selezione di contesti di larga frequenza o prevedibilità (a/in + Roma, Firenze/Fiorenza, Milano/Melano...) consentirebbe di mettere subito insieme un materiale, oltretutto incrementabile a piacimento, sul quale riflettere. Oppure si potrebbe studiare la distribuzione del dimostrativo codesto (cotesto) – oggi inusitato fuori di Toscana con valore deittico («Dammi codesti occhiali!») e raro ovunque con valore anaforico, invece di questo, tale o, nel linguaggio burocratico, suddetto – nella lingua di autori non toscani.
Nel 2007 è apparso a opera di T. De Mauro il Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento che archivia (in DVD) i materiali di cento romanzi italiani dal 1947 al 2007: i sessanta vincitori del premio Strega e altre quaranta opere rappresentative, che hanno partecipato al premio senza vincere, da La bella estate di Cesare Pavese a Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. L’iniziativa ha grande importanza perché illumina un settore – quello di opere recenti, tuttora protette dai diritti di proprietà letteraria – fino a oggi non attingibile da strumenti elettronici. A un lessico settoriale è dedicato il LesMu (Lessico della letteratura musicale italiana 1490-1950, a cura di Fiamma Nicolodi, Paolo Trovato, 2008), consistente in un CD contenente oltre 22.000 schede lessicografiche. Mancano ancora altre iniziative mirate a specifici settori extraletterari, che avrebbero ampie ricadute sulla comunità scientifica in genere: opere di veterinaria o di pittura o di agraria, ricettari, libri di viaggio e così via.
Sugli archivi elettronici in CD o in DVD incombe un rischio: quello della rapida obsolescenza tecnologica. Diverso il caso per gli archivi accessibili in rete.
Qui lo strumento fondamentale per l’italiano antico è e sarà sempre più l’OVI (Opera del Vocabolario Italiano): non solo per la straordinaria duttilità del software GATTO, specificamente studiato per gestire questo corpus, ma anche per la coerenza del materiale via via archiviato: tutti i testi italiani antichi anteriori al 1375. Per l’italiano contemporaneo si può segnalare il corpus CORIS/CODIS, realizzato presso il Dipartimento di studi linguistici e orientali dell’Università di Bologna, disponibile in rete dal 2001 e costituito da un’ampia raccolta di testi scritti selezionati in quanto rappresentativi dell’italiano attuale.
Da segnalare, infine, un’ormai adeguata disponibilità di corpora di italiano parlato: basti ricordare quello realizzato da Emanuela Cresti, costituito da parlato spontaneo della zona di Firenze e provincia e tradottosi in due volumi corredati da un CD e il corpus di parlato stratificato – spontaneo, telefonico, radiotelevisivo, letto – attinto da quindici località diverse e allestito sotto la direzione di Federico Albano Leoni in rete a partire dal marzo 2007 (Corpora e lessici dell’italiano parlato e scritto).
I grandi temi storiografici
Il rinnovato studio della sintassi ha contribuito a mettere in discussione una nozione tradizionale, quella della sostanziale stabilità dell’italiano in cui, a differenza delle consorelle romanze, la fase medievale sarebbe ancora trasparente per un parlante d’oggi. Da tempo erano note le divergenze lessicali e semantiche (già prima che Gianfranco Contini additasse, nel notissimo Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante del 1947, l’illusoria facilità del celebre componimento dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare). Alcune idee che il glottologo Marcello Durante (1923-1992) aveva espresso nel 1981, nel suo Dal latino all’italiano moderno: saggio di storia linguistica e culturale, ricco di novità anche se accolto con iniziale freddezza dalla comunità scientifica, hanno dato frutti a distanza: in particolare, la nuova periodizzazione che pone tra Cinque e Seicento la svolta in senso moderno dell’italiano, sottolineando l’importanza di sintassi, topologia e fraseologia. È indubbio che i fattori latamente sintattici rappresentino un settore decisivo per cogliere il mutamento intimo della lingua, quello che – di là dalle singole parole e dalle informazioni che se ne ricavano in merito a fonologia, morfologia e lessico – attinge l’organizzazione del discorso e la gerarchizzazione delle informazioni. Altrettanto certo è il fatto che la sintassi costituisca un punto d’incontro con la stilistica letteraria, come ha mostrato Sergio Bozzola (Purità e ornamento di parole: tecnica e stile dei Dialoghi del Tasso, 1999), studiando la prosa del Tasso e collegandola alla linea antiboccacciana espressa dal Cortegiano del Castiglione (struttura discendente, andamento lineare e progressivo): una tradizione destinata a ben maggiore successo dell’arcaismo, anche sintattico, propugnato dal Bembo. Riccardo Tesi che, forse più di altri, ha raccolto la proposta di Durante, giunge a parlare della presunta immobilità dell’italiano come di un «mito da sfatare» e della funzione di Dante quale creatore della lingua come di un pregiudizio «duro a morire».
D’altronde, non si possono trascurare né la tenuta per sette secoli e oltre delle strutture fonologiche e morfologiche, vale a dire della componente più profonda e strutturata per individuare la fisionomia di una lingua, né l’importanza di Dante come vettore del lessico fondamentale («Tutte le volte che ci è dato di parlare con le sue parole, e accade quando riusciamo a essere assai chiari, non è enfasi retorica dire che parliamo la lingua di Dante. È un fatto», T. De Mauro, Postfazione al GRADIT). In ogni caso il confronto non può essere impostato, come talvolta avviene, su basi extralinguistiche, cioè storico-culturali: è evidente che la Commedia di Dante sia distante da un parlante medio prima ancora per i referenti culturali che per la lingua in cui è scritta; ma quel parlante avrebbe altrettanta difficoltà a comprendere fino in fondo, di là dalle singole parole adoperate, una poesia di Eugenio Montale o a cogliere le implicazioni di un articolo di Alberto Arbasino.
Il grado di conoscenza dell’italiano in età preunitaria rappresenta uno dei temi di maggiore portata tra quelli affacciatisi all’orizzonte negli ultimi anni: in sé, per la necessità di rispondere convocando molteplici dati di storia linguistica esterna; e perché tra le varie questioni di pertinenza dello storico della lingua, questa è forse quella che più sollecita gli interessi di altri studiosi, a cominciare dagli storici. Com’è notissimo, il problema è stato posto con nettezza da T. De Mauro nella sua Storia linguistica dell’Italia unita (1963); la cifra di presumibili italofoni all’epoca dell’unificazione da lui fissata nella misura, clamorosamente bassa, del 2,5%, è stata poi innalzata da Arrigo Castellani a circa il 10% (Quanti erano gl’italofoni nel 1861?, 1982). Gli aspetti più stimolanti della discussione sono la valutazione della competenza passiva dell’italiano e l’individuazione degli agenti extraletterari che, dal Cinquecento in poi, hanno favorito la circolazione dell’italiano scritto e, almeno in una certa misura, anche orale.
Depongono in questo senso vari elementi: a) le numerose testimonianze di viaggiatori stranieri che visitavano il nostro Paese specie tra Sette e Ottocento in occasione del Grand tour e, pur avendo in genere una conoscenza solo libresca dell’italiano, riuscivano a comunicare con la popolazione indigena, non solo per la semplice sopravvivenza; b) l’azione della Chiesa cattolica specie dopo il Concilio tridentino, attraverso una promozione, magari preterintenzionale, dell’italiano grazie alla predicazione (e ai frequenti spostamenti dei predicatori), alla pratica del catechismo e alla rete d’istruzione che, nell’Italia di antico regime, era quasi per intero sostenuta da religiosi (scuole di dottrina cristiana, collegi degli ordini ecc.); c) soprattutto, l’esistenza, documentata anche se finora inosservata, di un italiano ampiamente usato in ambito giuridico, amministrativo e diplomatico nel Levante dal 16° sec. fino a tutto il Settecento. Nel caso della reggenza di Tunisi lo studioso anglomaltese Joseph Cremona (1922-2003) ha registrato un uso massiccio dell’italiano anche nelle cancellerie dei consolati francese e inglese, spesso in atti in cui nessuno dei contraenti era italiano. Questo fenomeno deve essere probabilmente messo in relazione con le testimonianze quattrocentesche d’impiego di un volgare venezianeggiante in documenti amministrativi del regno franco di Cipro, studiati da Daniele Baglioni nel 2006, e della Rodi dei Cavalieri. Come ha osservato Francesco Bruni (2003), paradossalmente la lamentata matrice libresca dell’italiano appare un punto di forza: «l’italiana era la lingua più disponibile come campo neutro nel quale agevolmente potevano giocare le squadre plurilingui, e quasi babeliche, che s’incrociavano sulle vie del mare e s’incontravano nei porti; [...]. Proprio l’impronta letteraria dell’italiano ne garantisce l’utilizzabilità pratica nel Mediterraneo» (pp. 192-93).
Al già ricordato Bruni si deve una grandiosa iniziativa editoriale, realizzatasi nei primi anni Novanta del secolo scorso, che ha coinvolto più di trenta diversi specialisti: quella di riunire in due volumi, il primo di saggi il secondo di testi e documenti, il profilo storico-linguistico delle varie aree regionali italiane (con alcune puntate fuori dai confini nazionali). L’idea era quella di disegnare la dialettica tra dialetti locali e lingua tosco-letteraria; non ultimo merito dell’opera sono stati lo studio e la valorizzazione di numerosi filoni di storia linguistica esterna (dalla Chiesa alla scuola, dall’editoria alla politica linguistica) che hanno scandito le varie fasi di quel rapporto. Le rinnovate basi sulle quali negli ultimi anni si è posto lo stesso problema dell’italofonia preunitaria non sarebbero state pensabili senza L’italiano nelle regioni (1992-1994).
Bibliografia
Per il profilo istituzionale sono fondamentali:
A. Varvaro, Storia della lingua: passato e prospettive di una categoria controversa, in A. Varvaro, La parola nel tempo. Lingua, società e storia, Bologna 1984, pp. 9-77.
A. Stussi, Storia della lingua italiana: nascita d’una disciplina, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni, P. Trifone, Torino 1993-94, 1° vol., pp. 5-27.
Due bilanci più recenti si devono a:
C. Marazzini, Da dove viene e dove va la storia della lingua italiana, in Tendenze attuali nella lingua e nella linguistica italiana in Europa, a cura di A. d’Angelis, L. Toppino, Roma 2007, pp. 153-75.
L. Serianni, La storia della lingua italiana, oggi, «Bollettino di italianistica», 2007, 4, 2, pp. 5-19.
Tra i manuali, dopo la classica e ancora fondamentale Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini (Firenze 19634, rist. 1988, con introduzione di Ghino Ghinassi), vanno citati:
C. Marazzini, La lingua italiana, Bologna 20023.
R. Tesi, Storia dell’italiano. La lingua moderna e contemporanea, Bologna 2005.
R. Tesi, Storia dell’italiano. La formazione della lingua comune dalle fasi iniziali al Rinascimento, Bologna 2007.
Una diversa prospettiva in:
Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, a cura di P. Trifone, Roma 20092.
Si veda anche:
F. Bruni, Italiano all’estero e italiano sommerso: una lingua senza impero, in Storia della lingua e storia, Atti del 2° Convegno ASLI, Catania, 26-28 ottobre 1999, a cura di G. Alfieri, Firenze 2003, pp. 179-98.
L. Serianni, Storia esterna delle lingue romanze: l’italiano, in G. Ernst, M.-D. Gleßgen, Ch. Schmitt et al., Romanische Sprachgeschichte. Ein internationales Handbuch zur Geschichte der romanischen Sprachen, Berlin-New York 2003, i° vol., pp. 774-91.
Sull’italiano contemporaneo:
P. D’Achille, L’italiano contemporaneo, Bologna 20062.
G. Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione, Bologna 2007.