fare
In Cv I II 3 i manoscritti recano la lezione le quali due cagioni [lodare o biasimare altri] rusticamente stanno, a far di sé, nella bocca di ciascuno, il cui senso è chiaramente questo: " la lode o il biasimo sono sconvenienti, a dir di sé, nella bocca di ciascuno ".
Si è posto dunque il problema se l'inciso a far di sé sia lacunoso - da emendare in far parlare, o far parole, o far dire [o dir] di sé, come hanno inteso vari editori (nella '21 e in Busnelli-Vandelli, far [dire]) -, o se debba intendersi f. " come verbo vicario [che] ha frequenti esempi in Dante " ( Simonelli; così dubitativamente anche Busnelli-Vandelli): ma mentre la prima ipotesi appare anche per ragioni stilistiche difficile, la seconda appare nel contesto un'eccessiva estensione delle possibilità vicarianti di ‛ fare '. più probabile sembra invece l'ipotesi che D. in questo luogo abbia inteso il verbo nel senso del latino for, fari, con il valore appunto di " parlare ": un latinismo, dunque, che esclude sia il guasto, sia la forzatura di assegnare a f. il valore di un verbo d'azione ben determinato. (V. ‛ fante ' nel senso di " parlante " in almeno un luogo della Commedia).