FARMACOLOGIA (dal gr. ϕάρμακον "medicamento" e λόγος "discorso")
S'intende sotto questo nome la scienza che s'occupa dello studio dei farmaci.
Storia. - Antichità. - Considerata sotto l'aspetto d'un semplice empirismo, la farmacologia è antica quanto l'umanità: i resti di sostanze medicamentose, trovati nelle caverne e nelle palafitte lo provano chiaramente. Varie medicine vediamo ricordate nei libri sacri dell'India antica, ma ben più numerose erano le droghe e i procedimenti farmaceutici usati dagli antichi Egiziani. I papiri, e specialmente quello di Ebers, ci fanno conoscere varî farmaci di quei tempi fra cui il papavero, la scilla, il coriandro, il giusquiamo, la mirra, il legno d'aloe, la menta, il melograno e altri. Di medicamenti e profumi si fa menzione nella Bibbia, ma conoscenze più estese e profonde abbiamo, per quanto riguarda l'uso di farmaci, nella Grecia antica. Esculapio era il dio della medicina. Nei templi asclepiadei i sacerdoti accoglievano i malati e, nell'ἄβατον, li curavano con svariate droghe e scrivevano sulle colonne del tempio le ricette delle più famose preparazioni. Tanto negli scritti della scuola ippocratica quanto in quelli preippocratici, troviamo indicate numerose pratiche terapeutiche e numerosissimi medicamenti: polveri, pillole, infusioni, macerazioni, decotti, tisane diverse erano largamente preparati e già si conoscevano gli unguenti, gl'impacchi, le frizioni, i clisteri, i gargarismi e i suffumigi. Ippocrate non si limita a indicare le prescrizioni mediche da seguirsi nelle varie malattie, ma già nei suoi scritti appare il tentativo di dare una spiegazione scientifica dell'azione dei medicamenti. Il corpo umano è formato di quattro umori: il sangue, la bile, la pituita e l'atrabile: questi umori circolano nel nostro organismo e talora sono troppo abbondanti, tal'altra scarsi. Spesso s'alterano, si putrefanno, si corrompono e ne sorge l'infermità. Espellere questi umori corrotti è il compito del farmaco che agirà variamente a seconda delle sue qualità sensibili e della sua intima struttura. Il salasso, che toglie il sangue buono, ma con questo anche quello decomposto, i purganti, i vomitivi, i diuretici, i sudoriferi sono fra i medicamenti preferiti.
Dall'antica Grecia la medicina passa a Roma. Il numero delle droghe medicinali che si conoscono va crescendo. Galeno s'interessa, per tutta la vita, di problemi farmacologici, intraprende viaggi lontani per conoscere le droghe d'Oriente, ne indaga le sofisticazioni e raccoglie il materiale per un grande trattato che doveva completare il suo libro sui medicamenti, e che poi non vide la luce. Galeno non ha fatto esperimenti farmacologici; seguace delle teorie ippocratiche le modifica e le complica. Attribuisce a ciascun umore qualità di frigidità, calidità, umidità e secchezza e per ognuna di tali qualità stabilisce gradi diversi. Anche i medicamenti hanno queste stesse qualità in grado diverso e a una malattia prodotta da secchezza degli umori conviene un rimedio umido, come un farmaco caldo si conviene a un'infermità prodotta dalla frigidità. L'influenza esercitata da Galeno in questo campo fu così profonda che durò fino a tutto il sec. XVII.
Le numerose droghe che gli antichi Romani usavano in medicina ci sono state tramandate da un contemporaneo di Plinio il Vecchio, Dioscuride d'Anazarba, uno dei più grandi farmacologi di quei tempi, autore dei cinque libri Sulla materia medica. Le droghe descritte da Dioscuride (v.) sono assai numerose e provengono da tutti i tre regni della natura. Un ordine naturale è tenuto in questa descrizione: nel primo libro sono descritti gli aromi, i succhi vegetali, le resine e i balsami; nel secondo sono annoverati i rimedî animali, quali il miele, il latte, i grassi; il terzo libro e il quarto parlano delle radici e dei semi; il quinto contiene i rimedî e veleni minerali, usati solo esternamente. Altri due libri, poi, che non gli appartengono, parlano dei veleni e contravveleni. Altre preziose indicazioni farmacologiche troviamo nelle opere dei medici contemporanei o posteriori a Dioscuride, quali Celso, Areteo, Aetio, Celio Aureliano, Tralliano, ecc. Molte delle opere che attestavano la sapienza antica sono andate perdute durante il Medioevo, ma i codici più preziosi, sottratti alla distruzione, vengono custoditi, chiosati e commentati nei monasteri.
Medioevo. - Intanto la civiltà araba si svolge. Medici celebri come Avicenna, ar-Rāzī, al-Kindī e altri scrivono opere famose giunte fino a noi e i rapporti che si stabiliscono fra il mondo orientale e quello occidentale, per opera della conquista araba, fanno conoscere o diffondere nuovi farmaci: il rabarbaro, la senna, la cassia, gli agrumi, il colchico, il tamarindo, la valeriana. L'arte farmaceutica va rendendosi di giorno in giorno più complicata e difficile; cosicché deve separarsi dall'arte del medico e divenire indipendente. ar-Rāzī scrive uno dei primi ricettarî: il Totum continens e nell'ospedale di Baghdād s'apre una delle prime farmacie (v. farmacia). La medicina araba si trapianta in Italia con la Scuola salernitana fondata da Costantino l'Africano. Nel Regimen sanitatis, composto verso il 1066, appunto dalla Scuola salernitana, sono ricordati parecchi medicamenti, alcuni dei quali, come la salvia, ritenuti allora miracolosi, sono oggi scomparsi dalla terapia. Nel secolo XI progredisce la tecnica farmaceutica: Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, Arnaldo da Villanova e gli alchimisti (v. alchimia) cercano di preparare la quintessenza dei medicamenti, la panacea univenale, l'elisir di lunga vita e la pietra filosofale. Ad Arnaldo da Villanova s'attribuisce, forse erroneamente, la scoperta dell'alcool comune, che col nome di aqua vitae viene introdotto in medicina come uno dei farmaci più portentosi, insieme con i preparati d'oro, di perle e d'altre pietre preziose. Intanto Pisa, Venezia e Genova inviano le loro navi nei porti più lontani del mondo allora conosciuto, commerciano attivamente nelle droghe medicinali e divengono gli emporî farmaceutici più celebri di quei tempi.
Rinascimento. - Due fatti importanti nel Rinascimento esercitarono una grande influenza sullo sviluppo della farmacologia. Il primo è l'invenzione della stampa che diffonde universalmente le conoscenze farmacologiche. Fra i primi libri stampati sono libri di materia medica: nel 1471 si pubblica a Venezia un'edizione latina di G. Mesuè e subito dopo vedono la luce il Conciliator differentiarum di Pietro d'Abano (Mantova 1472), il ricettario di Simone da Genova (1474) e le opere di Dioscuride (1478). Nel 1484 compare l'Erbario medico di Apuleio Platonico, nel 1485 l'edizione originale dell'Hortus sanitatis, e nel 1499 il De virtutibus herbarum di A. da Villanova. L'altro fatto importante è la scoperta dell'America. Non appena quei luoghi sono esplorati, si cerca quali farmaci essi possano donare al mondo antico. F. Hernández de Avideo per ordine di Filippo II di Spagna soggiorna dal 1571 al 1577 in America, vi raccoglie numerose piante e ne fa disegnare 1200. Il suo libro intitolato Rerum medicarum Novae Hispaniae thesaurus (Roma 1649 [ma 1651]), pubblicato sui frammenti scampati a un incendio dell'Escuriale, contiene la prima descrizione della gialappa, del balsamo del Perù, del copaive e di altre droghe che sono usate ancora oggi. Altri medicamenti importanti venuti a noi dall'America sono l'ipecacuana, la ratania, l'hydrastis, la salsapariglia, il jaborandi, la coca, ma più importante fra tutti la china, che, introdotta in Europa verso la metà del sec. XVII, sconvolse tutte le idee galeniche ancora dominanti in quei tempi.
La scoperta di nuove piante medicinali, la necessità di conoscerle e di studiarle crea i primi erbarî (v. erbario), e poco dopo sorgono gli orti botanici fondati per lo studio dei semplici e per l'utilità degli studenti e dei medici. Francesco Bonafede istituisce il primo orto botanico a Padova e L. Anguillara vi coltiva non meno di 1800 piante; poi viene quello di Pisa ove insegna L. Ghini che ebbe discepoli A. Cesalpino e U. Aldrovandi. Numerosi botanici in quel tempo, specie in Italia, descrivevano le piante medicinali e ne studiavano le virtù; celebre in particolare P. A. Mattioli, che con i suoi Commentarii...in...libros Dioscoridis (ed. migliore Venezia 1565) ci ha lasciato un quadro esatto della farmacologia del sec. XVI. Contemporaneamente la farmacologia prendeva impulso dai progressi che veniva facendo la chimica: gli alchimisti dei secoli XVI e XVII continuavano l'opera dei loro antichi predecessori e nei laboratorî preparavano nuovi rimedî, nuove quintessenze, nuovi arcani. G. Argentieri, L. Fioravanti, T. Z. Bovio, G. B. Porta erano fra noi i più noti cultori dell'alchimia ma il più celebre è senz'alcun dubbio Teofrasto Paracelso. L'opera sua è importante nella storia della farmacologia perché inizia il largo uso di medicamenti provenienti dal regno minerale e soprattutto di quelli ottenuti sinteticamente nel laboratorio del chimico. Paracelso afferma che le piante medicinali sono impure, che conviene separarne il principio attivo e con ripetute distillazioni, elissazioni, concentrazioni e altre variatissime manipolazioni chimiche cerca di raggiungere l'intento. Il primo rimedio minerale proposto per uso interno è il tartaro emetico. Anche su questo medicamento si scatenano le ire della facoltà medica di Parigi, ma inutilmente; al tartaro emetico seguono altri rimedî sinteticamente preparati e questi poco alla volta fanno quasi porre in oblio i farmaci che la natura aveva donato spontaneamente all'uomo.
Epoca moderna. - Il metodo sperimentale viene applicato anche alle ricerche farmacologiche. Per questa via si misero per primi gl'italiani M. Malpighi, F. Redi, G. A. Borelli, oltre agli stranieri R. Boyle, K. Gesner, G. G. Wepfer e altri molti. Interessante è lo scritto di quest'ultimo sulla cicuta acquatica, in cui numerosi sono gli esperimenti che egli ci riferisce, non solo su questo veleno ma anche sull'aconito, sulla noce vomica, sull'elleboro, sulla gialappa, sul solano, sulle mandorle amare, sul giusquiamo, l'arsenico, il sublimato e altre sostanze. Altrettanto celebri sono gli esperimenti che sui farmaci conduceva nel sec. XVII R. Boyle, il grande scienziato inglese, il quale, cartesiano convinto, cercava di spiegare l'azione dei farmaci con la fisica corpuscolare e con la chimica. Erano quelli i tempi in cui gli scienziati si dividevano in due campi: iatrochimici e iatromeccanici. I primi, precursori dei chimici fisiologi moderni, vedevano nei fenomeni vitali null'altro che fenomeni chimici e ritenevano che i farmaci agissero o smorzando l'acidità e l'alcalinità degli umori o producendo fermentazioni, ribollimenti, trasformazioni speciali nel sangue e nei liquidi che irrorano i tessuti. Gli altri vedevano nell'essere vivente una macchina con le sue carrucole, le sue pulegge, i suoi crivelli e affermavano che i farmaci agivano dilatando o restringendo i pori, aumentando o diminuendo il tono delle fibre, e penetrando più o meno profondamente nell'organismo con le loro particelle rotonde, stellate, cuneiformi. Il Boyle cercava di spiegare meccanicamente l'azione di molti medicamenti e le esperienze farmacologiche che egli fece e quelle che furono fatte dal suo connazionale T. Willis possono stare alla pari, per precisione d'osservazione, con quelle che noi stessi facciamo. M. Malpighi non solo sperimentò, ma dimostrò la necessità assoluta dell'esperimento farmacologico. F. Redi, medico del granduca di Toscana, fece ricerche rimaste classiche sul veleno viperino, sugli antelmintici, sul curare, sui purganti e su altre numerose sostanze.
Con l'andar del tempo la farmacologia sperimentale sempre più progrediva e i nuovi medicamenti, introdotti in terapia, erano a mano a mano oggetto di studio. Il sec. XVIII faceva conoscere il legno quassio, il gimseng, la segala cornuta e richiamava in onore il felce maschio. P. van Swieten, M. Stoll, D. Cirillo proponevano l'uso di sostanze velenosissime quali la cicuta, il sublimato, l'aconito, il fosforo, il giusquiamo, a minime dosi, per la cura delle infermità. Intanto i tentativi per isolare i principî attivi dei farmaci conducono nei primi anni del sec. XIX alla scoperta dei glucosidi e degli alcaloidi e quindi alla scoperta e all'uso dell'iniezione ipodermica. Questo stesso sec. XIX ci fa conoscere le proprietà medicamentose del condurango, della cola, della cascara sagrada, dello strofanto, dello iodio, del bromo, del creosoto, dell'olio di fegato di merluzzo e d'altri molti farmaci ancora, mentre, nel tempo stesso, segna il trionfo dell'esperimento farmacologico. Le ricerche di C. Carminati, di C. Matteucci, di R. Piria sulla gomma gutta, sull'oppio, sull'acido cianidrico e i cianuri; gli studî di F. Fontana e di L. Spallanzani e molti altri preludevano ai lavori di F. Magendie e del suo discepolo C. Bernard. I più importanti alcaloidi vengono studiati minutamente e l'azione dei farmaci viene analizzata con metodi geniali.
Per opera di tutte queste esperienze, gradatamente la scienza dei farmaci subisce una profonda trasformazione nel suo contenuto e nei suoi scopi. Mentre prima lo studio dei farmaci e dei veleni aveva intenti esclusivamente pratici, pur essendo guidato dall'esperimento, ora si veniva delineando, poco alla volta, lo svolgersi d'una nuova scienza biologica del tutto indipendente dalle pratiche applicazioni: la farmacologia sperimentale vera e propria. Essa fu opera di R. Buchheim e specialmente del suo grande allievo O. Schmiedeberg. Rodolfo Buchheim, nominato nel 1846 professore a Dorpat, vi fondò il primo laboratorio di farmacologia e quivi, circondato da giovani medici, iniziò uno studio sistematico dei medicamenti, sotto tutti gli aspetti possibili. Il Buchheim indagò l'azione dei sali purgativi e il loro comportamento farmacologico nel tubo intestinale, il riassorbimento e l'eliminazione degli alcali e delle terre alcaline, il comportamento degli acidi organici e inorganici nell'organismo, l'influenza di varî farmaci sulla nutrizione e sul ricambio, il passaggio di varie sostanze nel sangue e nell'urina e ancora l'azione dell'alcool, del cloroformio, del cloralio, del fosforo, dell'arsenico e così via.
Il discepolo del Buchheim, O. Schmiedeberg, può considerarsi il fondatore della farmacologia sperimentale moderna. Egli non solo cercò di studiare a fondo i farmaci più diversi, ma tentò di raggruppare insieme quelli d'analoga azione per porre le basi d'una classificazione farmacologica scientifica. Egli considerò la farmacologia come una parte della biologia, definendola in senso largo come quella scienza che studia le reazioni dell'organismo vivente di fronte agli agenti chimici o, con altre parole, il comportamento dell'organismo in presenza di condizioni vitali chimicamente alterate. Le reazioni farmacologiche possibili diventano in questo modo infinite: la farmacologia sperimentale infatti studia, non solo quelle reazioni che hanno uno speciale interesse pratico, bensì anche tutte quelle altre che, pur non servendo quali basi teoriche della terapia, costituiscono tuttavia un materiale preziosissimo dal punto di vista scientifico. Considerati in questo modo, il farmaco e il veleno diventano i "reattivi della vita" e la farmacologia diviene l'alleata più potente della fisiologia. Dire quante nuove conoscenze si siano acquistate con questo mezzo, sarebbe fuor di luogo. Ma fra gl'innumerevoli esempî basti ricordare le celebri esperienze di C. Bernard sul curare, che divinarono l'esistenza delle terminazioni nervose di moto; quelle di R. P. Heidenhain che per mezzo dell'atropina poté dimostrare come la secrezione possa mancare in una ghiandola anche se essa sia fortemente irrorata dal sangue, e quelle classiche di J. N. Langley il quale, iniettando la nicotina in circolo, o pennellando con questo alcaloide il ganglio simpatico, poté conoscere in qual modo tutte le fibre motrici cerebro-spinali che entrano nella costituzione del sistema nervoso simpatico si mettono in rapporto con le cellule del ganglio in cui esse terminano.
Problemi della farmacologia moderna. - Eliminazione e trasformazione dei farmaci. - A differenza dell'alimento che viene utilizzato per porre riparo al continuo consumo dei nostri tessuti, il medicamento, corpo estraneo, è espulso per varie vie e spesso più o meno profondamente trasformato in quel prodigioso laboratorio chimico che è il nostro organismo. Lo studio esatto dell'eliminazione dei farmaci e quello delle loro trasformazioni non è stato possibile se non quando la chimica ha posto in mano al farmacologo prodotti puri e cristallizzati, dei quali è nota esattamente la formula di costituzione. A questo ha contribuito la già ricordata scoperta dei principî attivi contenuti nelle droghe vegetali, fatta da G. A. Sertürner, il quale, nel 1807, riuscì a isolare dall'oppio la morfina. La sua memoria: Über das Opium und dessen kristallisierbare Substanz aprì la via a un'infinità di ricerche, cosicché oggi noi conosciamo il principio attivo della massima parte delle piante medicinali. D'altro lato la produzione di numerosissimi preparati sintetici, per opera dei chimici, ha dato al farmacologo un materiale abbondantissimo di studio e d'esperimento. Come conseguenza di tali esperimenti si è veduto che i farmaci si eliminano per diverse vie, con l'urina principalmente, con le feci, col latte, con le lagrime, con l'aria espirata, attraverso la pelle e per altre vie ancora. E si è anche dimostrato, come già s'è detto, che i farmaci non sempre s'eliminano inalterati ma spesso subiscono trasformazioni chimiche profonde: e sono ossidazioni, riduzioni, sintesi. L'alcool brucia nell'organismo e per la maggior parte scompare, l'N-metilindolo si sintetizza a indaco verde (A. Benedicenti), gli eteri chetonici si trasformano nei corrispondenti chetoni (A. Benedicenti), l'acido fenico lascia l'organismo combinato con l'acido solforico, l'urotropina si scinde originando aldeide formica, e il salolo producendo acido salicilico e acido fenico. Spesso queste trasformazioni valgono a proteggere l'organismo dalle intossicazioni e talora entrano in giuoco fenomeni fisiologici. Contro l'acidosi (v.) l'organismo si difende con i sali tamponi, contro l'avvelenamento da ammine con la trasformazione di queste in urea; i metalli si combinano con le proteine, l'acido glicuronico, componente normale del sangue dei Mammiferi, s'unisce al cloralio e alla canfora; la glicocolla e il glutatione sono ceduti dall'organismo allo stesso scopo mentre altre volte l'acetilazione, la metilazione o la smetilazione del prodotto somministrato ne diminuiscono la tossicità. Il fegato ha grande importanza come organo disintossicatore: gli animali operati di fistola d'Eck (così che il fegato resti escluso dal circolo) sono più sensibili ai veleni: l'iniezione dei farmaci fatta per le vene mesenteriche è, per la stessa ragione, meno attiva che non quando sia fatta per la giugulare. L. Aschoff nel 1913 ha richiamato l'attenzione dei farmacologi su un apparecchio fisiologico di svelenamento formato dai fagociti cosiddetti "obbligati" e mobili del sangue e dai fagociti "facoltativi" immobili che costituiscono gl'istiociti e il reticolo endoteliale. Questo reticolo endoteliale, formato da cellule degli organi linfatici, dei capillari, del fegato, della milza e del midollo osseo, è stato oggetto di numerose ricerche e la possibilità di bloccarl0, o di modificarne la funzione con i metalli, le terre rare, le sostanze coloranti, in rapporto specialmente alla cura della tubercolosi, ha dato origine a varî lavori.
Azione dei farmaci. - Il fatto che i farmaci non restano inerti, ma spesso nell'organismo si trasformano, è una prova evidente che la natura dell'azione farmacodinamica è una conseguenza delle reazioni chimiche che avvengono fra la sostanza introdotta nell'organismo, da un lato, e il protoplasma cellulare dall'altro. Le molte ricerche, fatte specialmente negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi di questo, hanno provato l'influenza che esercita la temperatura sull'azione farmacologica; hanno dimostrato che la tossicità è parallela alla labilità e reattività chimica del veleno; che l'effetto d'un farmaco è dipendente dalla quantità che se ne deposita nei tessuti; che la distribuzione d'un farmaco non è uniforme, ma che questo, scomparendo più o meno presto dal sangue, va a localizzarsi diversamente nei diversi organi in virtù della loro chimica affinità. Così s'è visto che lo iodio si localizza nella tiroide; che i bromuri si trovano nella pelle; che le ossa trattengono alcuni sali, quali i fluoruri; che il ferro e i metalli pesanti si depongono nel fegato e nella milza. A questa elettività farmacologica è dovuta l'azione che i medicamenti esercitano su questo o quell'organo: l'azione anestetica generale del cloroformio, quella locale della cocaina, quella convulsivante della stricnina, quella paralizzante del curare e così via.
Ma nel conflitto fra la sostanza chimica che noi abbiamo introdotto nell'organismo e la cellula vivente recettiva v'è un'incognita: la struttura della materia vivente. Possiamo dimostrare che il farmaco si deposita in certe cellule e anche morfologicamente le altera, ma i fenomeni intimi della sua azione ci sfuggono. Quale è la modificazione chimica del protoplasma che produce l'anestesia da cocaina? Perché una data sostanza si localizza su uno speciale elemento del nostro organismo rispettando le cellule vicine? Perché aggredisce un microbo, lasciando intatte le cellule dell'organo che lo ospita? Questi problemi restano ancora misteriosi per la farmacologia. Tuttavia un'analisi minuta non è mancata. Intanto si è potuto dimostrare che l'azione d'un farmaco è legata, entro certi limiti, alla sua costituzione chimica. Dire che da questa costituzione chimica si possa senz'altro indurre l'azione farmacologica sarebbe cosa per il momento troppo ambiziosa. Ma non v'ha dubbio che gli alogeni hanno tutti proprietà irritanti; che i corpi della serie grassa sono dotati d'azione sedativa sul sistema nervoso centrale; che il gruppo NH2 esercita un'azione eccitante, che al nucleo benzenico sono unite proprietà antitermiche e disinfettanti e così via. Da queste e altre analoghe indagini è sorta la chemioterapia la quale ha per scopo d'apportare alla molecola chimica del farmaco quelle modificazioni strutturali che sono atte a diminuirne la tossicità lasciando tuttavia inalterata l'azione esercitata sui parassiti delle infezioni che invadono l'organismo. Così legando alcuni elementi molto attivi come l'arsenico, il bismuto, il mercurio a molecole organiche assai complesse, si è riusciti a ottenere prodotti nei quali le proprietà chimiche e fisiche di questi elementi sono scomparse o, come si dice, mascherate. Questi prodotti non molto velenosi, si sono dimostrati assai attivi contro le infezioni, specialmente da Protozoi. Si sperava di poter raggiungere per questa via la sterilisatio magna, cioè la disinfezione di tutto l'organismo, ma il concetto che esista una specificità assoluta chemioterapica ed esclusiva per i singoli parassiti, va purtroppo, poco alla volta, perdendo terreno. Questi medicamenti, di cui è tipo il salvarsan, non sono affatto indifferenti per le cellule dei nostri tessuti, né tanto meno sono specifici per un unico parassita. Il salvarsan, per es., uccide non solo i tripanosomi della malattia del sonno, ma anche i plasmodî della malaria e i microrganismi del mal rosso e del carbonchio. Inoltre questi farmaci, su cui s'erano fondate tante speranze, hanno dimostrato azione diversa a seconda dell'animale su cui si sperimenta. Così il tripanrosso uccide i tripanosomi nel topo, ma non nella cavia e nel cane, come accade anche per taluni alcaloidi quali l'emetina che uccide l'ameba dissenterica nell'uomo, ma non nel gatto. Inoltre spesso accade che i parassiti s'abituino a questi veleni chemioterapici così che non ne risentono più l'azione. P. Ehrlich ha creato, in base a queste osservazioni la sua teoria delle catene laterali secondo la quale nel farmaco si dovrebbero distinguere un gruppo aptoforo con cui esso s'attacca alla cellula e un gruppo toxoforo apportatore della tossicità. La morfina, per es., si ancora alle cellule cerebrali con il gruppo aptoforo fenilidrossilico ed esercita un'azione ipnotica; bloccando questo gruppo con l'introduzione nella molecola d'un metile come avviene nella codeina, il farmaco non può più attaccarsi alle stesse cellule, ma s'attacca ad altre e allora l'azione ipnotica scompare per dar luogo all'azione convulsivante. In questi ultimi anni ha acquistato grande importanza lo studio della valenza di alcuni elementi in rapporto alla loro azione farmacologica. Celebri sono, sotto questo punto di vista, le esperienze riguardanti la tossicità dell'arsenico tri- o pentavalente, dalle quali è risultato che quest'ultimo è assai meno tossico del primo: per questo i composti in cui l'arsenico è pentavalente sono quelli preferiti nella terapia. Anche sull'azione esercitata dal ferro sull'organismo la valenza avrebbe grande importanza: il ferro, riassorbito come ferro bivalente, circolerebbe nell'organismo come ferro trivalente, per essere poi infine depositato come ferro bivalente nei tessuti e poi come tale eliminato dall'intestino (E. Starkenstein). La valenza manifesta la sua azione anche in fenomeni farmacologici più semplici quale è quello della metallizzazione in vitro delle proteine. Se si tratta una soluzione d'albumina d'uovo con polveri metalliche accade che il metallo si fissa alle albumine in forma d'una soluzione salino-proteica se il pH sia minore di 7, e il cobalto sia bivalente, mentre si combina in forma complessa se il pH sia maggiore di 7 e il cobalto funzioni come trivalente (A. Benedicenti e G. B. Bonino).
Con un'altra serie numerosissima di lavori, si è cercato di chiarire l'intima azione del farmaco, studiandolo in modo più semplice e cioè non più sull'animale integro, ma sugli organi isolati e meglio ancora sulle cellule che costituiscono i nostri tessuti. Fino a tempi a noi vicini la farmacologia ha avuto specialmente di mira lo studio dei sintomi provocati dal farmaco o dal veleno e la localizzazione precisa della sua azione. Così, per es., il taglio d'un nervo che si dirige a un organo potrà dire se l'azione del farmaco sul sistema nervoso sia periferica o centrale. Classiche sotto questo punto di vista sono le già rammentate esperienze di C. Bernard sul curare, ma la farmacologia moderna ha approfondito lo studio dell'intima azione del farmaco sperimentandolo non sull'intero organismo, ma sull'organo isolato. Già Galeno aveva notato la relativa indipendenza degli organi, ma nel '500 G. Wepfer, R. Descartes e altri osservavano che un cuore di rana, avulso dall'organismo, continua a pulsare, e nel 1681 C. Peyer e J. Harder riuscivano a rimettere in movimento non solo il cuore degli animali morti, ma anche quello di uomini appiccati. Molti esperimenti sulla sopravvivenza d'organi e di tessuti sono stati fatti da quel tempo in poi e oggi essi sono così perfezionati che noi possiamo studiare agevolmente, non solo l'azione dei farmaci sul cuore isolato, ma anche sui muscoli striati e lisci, sul rene, sul fegato, sul sistema nervoso, isolati dal resto del corpo animale. E possiamo mantenere in vita a lungo questi organi immergendoli in soluzioni appropriate e facendo circolare artificialmente, attraverso gli stessi, sangue o altro liquido nutritizio. Moltissimi esperimenti farmacologici sono oggi eseguiti in questa maniera e i risultati che si sono ottenuti sono veramente interessanti.
Tuttavia questo modo d'esperimentare è stato sostituito da altre ricerche le quali hanno specialmente lo scopo d'indagare l'azione dei farmaci sul più semplice elemento vivente: la cellula. Che bisognasse cercare nelle particelle ultime del corpo umano l'origine dei fenomeni morbosi e l'azione del rimedio è concetto già antico; basterà ricordare come A. Renouard deridesse H. Boerhaave par ses maladies microscopiques perché questo gran medico del '700 collocava l'origine delle malattie e l'azione dei farmaci nelle fibre solide ultime, nelle membrane sottilissime dal cui insieme gli organi sono costituiti. Ma la farmacologia cellulare è veramente scienza dei giorni nostri e scienza importante anche se localizzando i fenomeni farmacologici non nell'organismo, ma nelle cellule che lo compongono, non si è risolto ma solamente semplificato il problema. Fondandosi su questi concetti il farmacologo moderno sperimenta l'azione dei farmaci sulle più semplici forme viventi: sugl'Infusorî, sui Protozoi, sui globuli del sangue, sulle cellule vegetali, sui frammenti di tessuti normali o patologici, sui tessuti mantenuti in vita in condizioni opportune e capaci di moltiplicarsi, su uova di varî animali inferiori e specialmente su quelle del riccio di mare, su semi germoglianti, su cellule di fermenti e così via. E i risultati ottenuti si sono resi sempre tanto più interessanti quanto più sono andate estendendosi le nostre conoscenze sulla struttura cellulare in senso chimico-fisico. Queste conoscenze sono il frutto di ricerche nel campo dei colloidi, perché la materia vivente può considerarsi come un grumo di materia colloidale, formato da particelle minutissime (micelle) disperse in un liquido che, in grazia della loro piccolezza, le mantiene in sospensione. Ognuna di queste particelle colloidali può essere considerata come una superficie vivente sulla quale avvengono continuamente quei fenomeni chimici e quei fenomeni di ricambio e di fermentazione che costituiscono l'essenza della vita. Questi fenomeni sono d'una delicatezza e complessità estrema e se pensiamo che dalla struttura micellare dipende la struttura del protoplasma cellulare e che su questa struttura esercitano continue influenze forze elettriche e d'altra natura, si comprenderà quanto sia difficile formarsi un'idea esatta dell'azione del farmaco sulla materia colloidale vivente e come i mezzi di ricerca dei quali disponiamo siano tuttora imperfetti per risolvere queste incognite.
Non è possibile qui entrare in particolari su questi fenomeni, ma il lettore potrà facilmente riflettere sulla grande influenza che può avere un farmaco sullo stato colloidale della materia vivente. Ogni micella possiede una carica elettrica e questo è l'elemento principale del dinamismo del colloide. La repulsione elettrostatica d'ogni micella dello stesso segno mantiene lo stato d'equilibrio, ma basterà che un colloide estraneo apporti una carica di segno contrario, perché l'equilibrio sia disturbato, le micelle s'aggreghino e s'abbia la flocculazione. A questa flocculazione minima, invisibile è stata da taluni autori attribuita l'azione d'alcuni farmaci, mentre una flocculazione maggiore produrrebbe disturbi così gravi da causare la morte delle cellule o dell'organo.
Per agire, il farmaco deve venire in contatto delle cellule e qui si prospetta subito il problema della permeabilità della membrana cellulare. Questa membrana considerata oggi assai spesso come una semplice differenziazione del protoplasma periferico, viene in contatto col farmaco che si trova nel liquido ambiente che bagna le cellule. Da questo liquido il farmaco scompare in parte, ma penetra esso nell'interno della cellula o viene semplicemente adsorbito dalla superficie esterna della medesima in un modo puramente fisico, così come la tintura è fissata da una stoffa? Il problema della permeabilità è di somma importanza per la farmacologia, ma esso pure è estremamente difficile. V'è chi pensa che la membrana abbia dei pori attraverso cui i farmaci possono passare nell'interno e la dilatazione dei pori cellulari sarebbe accompagnata da fenomeni d'eccitamento e il restringimento da fenomeni di paralisi (R. Hober e altri). V'è chi pensa che la membrana non sia porosa e ammette invece che il farmaco possa penetrare nell'interno della cellula sciogliendosi nelle sostanze componenti la membrana cellulare. Si comprende che in questo caso, a seconda della natura di queste sostanze, il farmaco potrà o non potrà penetrare. Vi sono cellule, come quelle dei centri nervosi, ricche di lipoidi alifatici, di sterine, ecc., e la membrana lascerà passare per l'appunto quei farmaci che nei lipoidi stessi agevolmente si disciolgono. E. Overton e H. H. Meyer hanno basato su questi concetti la loro teoria della narcosi ammettendo che le sostanze dotate di potere narcotico sono quelle che hanno potere di sciogliersi nei lipoidi e penetrare così nell'interno delle cellule nervose. Altri legano il potere narcotico a una modificazione chimico-fisica della membrana che per opera di questi farmaci subirebbe una specie di gelatinizzazione (H. Handowsky) cosicché i processi di scambio verrebbero notevolmente rallentati. Ma non basta: molte altre condizioni chimico-fisiche, possono influire su questo fondamentale fenomeno della permeabilità e sono: lo stato colloidale, la diffusione, l'imbibizione, la tensione superficiale e l'adsorbimento che ne dipende, il coefficiente di dissociazione dei sali disciolti nei liquidi che bagnano le cellule, e quindi i fenomeni osmotici che ne derivano, la maggiore o minore viscosità dei liquidi stessi, la differenza di reazione fra la superficie e l'interno delle cellule e così via. E se prendiamo a considerare non più la semplice membrana cellulare, ma le membrane più complesse che troviamo nell'organismo come le sierose, le mucose, la pelle stessa, dove si hanno molte e diverse condizioni di permeabilità, allora entrano in giuoco molti altri fattori quali l'azione del sistema nervoso, lo stato della circolazione, l'età, lo stato normale o patologico della membrana, per dir solo dei principali.
Anche è facile comprendere come taluni farmaci possano modificare il processo fisico della diffusione di quelle sostanze che fisiologicamente devono traversare la membrana per mantenere la vita delle cellule. Così si è veduto, sperimentando in vitro sui geli di gelatina, che il cloroformio, l'etere, l'alcool rallentano l'andamento della diffusione e si è pensato che a un analogo fenomeno si possano attribuire alcuni degli effetti della narcosi (G. Rastelli). E similmente con una modificazione della tensione superficiale e quindi dell'adsorbimento è stata da L. Traube spiegata l'azione delle sostanze narcotiche ora ricordate. E se riflettiamo che la tensione di superficie è dovuta alla mutua attrazione degli elementi della superficie stessa e che questi hanno delle cariche elettriche che li attraggono o li respingono a seconda del segno, sarà ovvio comprendere come da tutti questi fattori la penetrazione del farmaco possa essere con molti svariati e combinati effetti modificata. Basta rammentare l'influenza notevole che sull'azione e penetrazione del medicamento potranno esercitare gli elettroliti che si trovano disciolti nei liquidi che bagnano le cellule. Bisogna ricordare che la pressione osmotica d'una soluzione è in diretta proporzione con il numero delle molecole del soluto presenti nella unità di volume della soluzione e che, affinché le cellule vivano normalmente, devono trovarsi immerse in un liquido che abbia una pressione osmotica costante ed eguale a quella nell'interno della cellula vivente. Gli elettroliti che si trovano nel sangue sono diversi: sali di sodio, di calcio, di potassio, ecc., e vi si trovano non solo allo stato di molecola, ma dissociati negli ioni che li compongono. La dissociazione sarebbe parziale secondo i concetti ostwaldiani, o totale, secondo le moderne vedute sulla teoria delle soluzioni nella quale è presa in considerazione l'attività ionica, risultante di molteplici fattori. Come quest'ultima teoria possa essere applicata nel campo biologico è stato dimostrato da recenti lavori (A. Benedicenti, G. B. Bonino). Alcuni ioni si formano nell'interno della cellula vivente, quali gli ioni H, PO4, SO4, CHO3; altri vengono scambiati fra il liquido esterno e quello interno cellulare, ma l'importante è che tutti questi ioni fisiologici debbono essere presenti nel liquido sanguigno perché la cellula possa vivere e funzionare. E devono esservi presenti in determinate e fisse proporzioni. Le amebe muoiono in soluzione fatte di solo cloruro sodico o solo cloruro di magnesio, siano esse pur di concentrazione molecolare opportuna per la vita di questi esseri, ma vivono se a questi sali s'aggiungono gli altri necessarî. L'uovo di Fundulus heteroclitus muore in una soluzione di NaCl isotonica all'acqua di mare, ma sopravvive e si sviluppa se s'aggiunga la soluzione d'uno ione bivalente quale il calcio e il magnesio o lo stronzio. Un equilibrio ionico è necessario per la retta funzione degli organi e l'azione fisiologica di questi ioni, la loro tossicità, le condizioni della loro diffusibilità e l'antagonismo che fra loro esiste (per esempio, fra calcio e potassio per quanto riguarda l'azione sul cuore, sui muscoli, sulla fecondazione artificiale, ecc.) sono stati oggetto di numerosissimi lavori farmacologici in questi ultimi tempi. Ma, restando nel campo dei problemi farmacologici d'indole generale, non si può tacere degli altri numerosi lavori a cui hanno dato origine gl'interessanti problemi dell'idiosincrasia, dell'immunità naturale per certi veleni, dell'abitudine che facilmente si può contrarre per taluni farmaci quali gl'ipnotici più comuni, l'alcool, la morfina, la cocaina, ecc. A che cosa questa abitudine si debba attribuire non è ancora sicuro; ancora è un mistero perché il morfinomane, per es., possa tollerare dosi elevatissime di morfina e abbia disturbi gravissimi quando venga improvvisamente sottratto all'azione del funesto veleno; e ciò, nonostante che molte siano le ricerche fatte e molte le teorie escogitate. Anche il problema del sinergismo ha interessato e interessa i farmacologi moderni. Esso si manifesta quando i farmaci attaccano una data cellula e una determinata funzione simultaneamente e con differenti meccanismi. Alcune volte i farmaci, somministrati contemporaneamente, agiscono indipendentemente come fossero somministrati da soli, altre volte s'ha una sommazione in senso sinergistico (sinergismo dei narcotici della serie grassa) o un vero antagonismo. Se l'azione d'un medicamento viene rinforzata da un altro si ha il potenziamento, in caso diverso la deficienza dell'azione calcolata. Talvolta l'azione d'un farmaco non s'esplica se non in presenza d'un altro, talora avviene il contrario. Ma il potenziamento, che è il caso più comune e anche quello più sfruttato in terapia, come avviene? È dovuto al fatto che una droga favorisce la penetrazione dell'altra entro le cellule, o perché ne favorisce una più rapida e completa distribuzione nei tessuti e specialmente nel sistema nervoso centrale? O perché l'unione di due farmaci rende possibile un attacco alle cellule in punti diversi? E. Bürgi e la sua scuola hanno pubblicato su questo argomento varî lavori per sostenere una legge generale che dovrebbe spiegare il sinergismo, legge che non da tutti è stata adottata. Un caso speciale di sinergismo s'avrebbe nel potenziamento dell'azione farmacologica per opera dell'emanazione di radio (A. Garello, P. Mascherpa). Sono state fatte ricerche attorno a questo problema, come a quello, pure interessante, della bioradioattività di alcuni ioni.
Se dal campo già vasto della fisiologia generale si passa a quello della farmacologia speciale, che studia l'azione dei singoli farmaci nelle singole funzioni, il numero delle ricerche e dei lavori eseguiti aumenta notevolmente. Tutte le principali funzioni sono state indagate per vedere in qual modo esse vengano modificate dai farmaci: i processi d'ossidazione cellulare e l'andamento della glicolisi (e questo specialmente nelle cellule patologiche dei tumori), l'utilizzazione dei carboidrati, degli albuminoidi e dei grassi, la produzione e la perdita del calore animale, la fissazione dell'ossigeno al sangue, la funzione del cuore e quella dei muscoli lisci e striati; la secrezione renale; le funzioni dell'apparato digerente e di quello riproduttore; l'influenza dei farmaci sul sistema nervoso centrale e su quello autonomo simpatico e parasimpatico; tutto infine è stato minutamente e coscienziosamente analizzato.
Importanza della farmacologia. - Se si riflette al numero grandissimo di farmaci e veleni attivissimi che la chimica ha isolato dalle varie droghe vegetali e animali (alcaloidi, glucosidi, acidi, resine, gommoresine, olî grassi, olî essenziali, terpeni, sostanze amare, ecc.); se si ricorda l'importanza di talune sostanze di recente conosciute e d'azione farmacodinamica importantissima, come gli ormoni, gli ormazoni, le vitamine, ecc.; se si pensa al numero sempre crescente, e si può dire illimitato, di medicamenti che le case di prodotti chimici mettono in commercio, si comprenderà come lo scibile farmacologico sia estesissimo.
Il numero grandissimo delle ricerche farmacologiche permette di guidarci con esatta conoscenza là dove prima imperava il caso. Con le sue meticolose indagini la farmacologia ci ha dato le norme con le quali le prove terapeutiche devono essere condotte, ha determinato in che modo si possa precisare l'intensità d'azione d'un medicamento e fra l'enorme numero di farmaci introdotti e che sempre s' introducono in terapia, essa c'indica quelli che possono usarsi senza pericolo sull'uomo, quelli che daranno maggiore probabilità di successo, mentre fornisce i mezzi per provare la loro azione sui diversi organi, sperimentando sugli animali con metodi geniali e d'assoluta precisione. Provocando coi farmaci e coi veleni malattie sperimentali, essa ha contribuito non solo, come altrove s'è detto, allo sviluppo della fisiologia, ma anche a quello della patologia e ha fondato la terapeutica razionale e l'investigazione sperimentale della azione delle droghe nella malattia. Sebbene la farmacologia, intesa come vera scienza biologica sperimentale, non abbia ancora, si può dire, un secolo di vita, i risultati che essa ha conseguito sono così numerosi e importanti che non solo i farmacologi, ma anche i fisiologi, i patologi, i clinici seguono i metodi di questa scienza nelle loro ricerche e continuamente ne invadono il campo.
Tuttavia non mancano coloro che, specialmente per quanto riguarda la più importante branca della farmacologia, la farmacoterapia, esprimono dei dubbî, emettono delle critiche, propongono delle riforme. La farmacoterapia è quella parte della farmacologia che, come R. Buchheim aveva detto, raccoglie tutte le possibili conoscenze intorno all'azione d'un medicamento e le critica e le vaglia per rendere possibile un retto giudizio intorno all'uso del medesimo al letto dell'ammalato. Ed ecco che molti affermano che questo retto giudizio a nulla serve perché i medicamenti non possono guarire; solo la natura è la vera medicatrice dei mali. Il nichilismo terapeutico, cominciato con la scuola viennese di A. van Swieten nel 1745 e sostenuto fra tutti da J. Škoda (1805-1881), ha trovato moderni seguaci fra coloro i quali vorrebbero che tutta la terapia potesse essere limitata a un numero ristrettissimo di farmaci, forse venti, forse meno. In verità la quantità sbalorditiva di medicamenti nuovi che ogni giorno si prepara, rende difficile lo sceverare fra tante cose inutili ciò che veramente è buono, ma dall'abusare dei medicamenti all'affermare che essi sono inutili, perché la natura stessa opera la cura, corre un gran tratto. La natura è spesso cieca e il medico può aiutarla nei suoi sforzi, conoscendo la malattia, comprendendo quali sono le vie che la natura segue per vincere l'infermità, e soprattutto conoscendo profondamente i mezzi di cui egli si deve servire: compito della farmacologia è appunto quello di sostituire all'empirismo terapeutico una scienza razionale con rigorose basi scientifiche. Si è detto che i risultati raccolti sperimentando sugli animali non possono applicarsi all'uomo. Ma questo si può dire per tutti i campi della medicina sperimentale. Una fisiologia similare, una patologia similare comportano una farmacologia similare. Del resto, nella quasi totalità dei casi, strutture similari sono affette nello stesso modo da un dato medicamento, non importa quale sia l'animale adoperato. Si è anche detto che i farmacologi sperimentano i farmaci sugli animali sani, ma anche qui è facile rispondere che tutti gl'innumerevoli esperimenti fatti chiaramente dimostrano che, in linea generale, l'azione di una droga può essere esattamente stabilita sull'animale sano e che del resto non mancano le possibilità, che il farmacologo oggi largamente adopera, di sperimentare su organi ammalati. Certo occorre sempre molta prudenza nell'applicare all'uomo i risultati ottenuti sugli animali e la negligenza di questa precauzione ha gettato spesso il discredito sulla terapia sperimentale. La farmacologia dà nelle mani del terapeuta sostanze esattamente studiate e se questi vorrà, con molto discernimento, analizzare i risultati ottenuti dalla farmacologia e interpretarli alla luce d'un ben inteso esperimento, la scienza dei farmaci sarà sempre utilissima al progresso della medicina. Con questo non si deve credere che non esista la possibilità di fare esperimenti farmacologi sull'uomo. Essi anzi sono non solo possibili, ma sono necessario complemento della farmacologia. L'assorbimento dei farmaci, la rapidità e il modo della loro eliminazione, le trasformazioni che essi subiscono durante il viaggio nell'organismo, l'influenza che esercitano sul ricambio respiratorio, sul ricambio azotato e sul metabolismo basale, l'azione dei farmaci sul sangue, sul cuore, sul polso e sul respiro studiata coi varî mezzi che l'indagine fisiologica pone a nostra disposizione, gli effetti che s'osservano sulla secrezione renale, sulla temperatura, ecc., potranno agevolmente essere oggetto di ricerche sull'uomo, ma sempre dopo che la farmacologia teorica sperimentale avrà posto le basi scientifiche per l'esatta conoscenza del farmaco. Non v'ha dubbio che uno stretto connubio tra il farmacologo puro e il clinico terapeutico s'impone per il progresso della medicina e che la farmacologia umana sarà una scienza importante in un prossimo avvenire.
Bibl.: Per la storia della farmacologia: A. Benedicenti, Malati, medici e farmacisti: Storia dei rimedi traverso i secoli e delle teorie che ne spiegano l'azione sull'organismo, Milano 1924-25. Per gli studî sopra ricordati, si possono utilmente consultare: H. Meyer e R. Gottlieb, Die experimentelle Pharmakologie als Grundlage der Arzneibehandlung, Berlino 1911; A. Heffter, Handbuch d. Pharmakologie, Berlino 1923 segg. Inoltre numerosi trattati italiani scritti per gli studenti da P. Albertoni, P. Giacosa, G. Gaglio, P. Marfori e altri. Fra i periodici: Archiv für experimentelle Pathologie und Pharmakologie; Archivio di Farmacologia e scienze affini; Archives internationales de pharmacodynamie et thérapie; The Journal of Pharmacology; Japanese Journal (Pharmacology); Folia pharmacologica japonica, ecc.