Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La spettacolarità delle feste pubbliche esalta il potere politico-religioso di casati e signorie accettando anche l’esibizione dell’estrosa espressività popolare o giullaresca. Mentre l’universo goliardico coltiva il gioco derisorio delle farse, i “mogliazzi” veneti inscenano le spassose vertenze matrimoniali del mondo contadino; in Francia trionfa invece la farsa del borghese avvocato Pathelin. Alla linearità compositiva delle sacre rappresentazioni fiorentine risponde in Francia l’imponenza di cicliche passioni e in Inghilterra la complessità dei miracle plays.
La teatralità di feste pubbliche, “trionfi” e fiere stagionali
Sodomia nel 1400
Janus sacerdos
Savucio: È da un pezzo che ti aspetto.
Giano: Oh salve, anima mia. E questo tuo affare, che ogni donna vorrebbe per sé? Un momento fa, appena entrato, l’ho ben visto!
Savucio: Oh, ne soffro più di quanto si possa esprimere. Certo, se me lo ripeterai un’altra volta, scoppierò dall’ira. Non so spiegarmi come tu possa rallegrarti tanto a offendere un amico. Io vorrei che tutto il sesso femminile fosse distrutto dalle fiamme e dalla spada, e poi dissolvermi subito anch’io. Entriamo piuttosto in camera, che là ti fotta nel modo a te più gradito e saporoso.
Giano: Andiamo.
Savucio: Via questo saio, togliti le vesti e buttati sul lettuccio.
Giano: Va bene. Ma m’impietosisce la coperta che hai, vecchia e sbrindellata com’è. Io ne ho una più bella e intatta.
Savucio: Io, tutti i soldi che ho sempre avuto e avanzato, li ho dispersi, dilapidati, consumati in giovani caprettini, perché, fuori dal fornicare con loro, io non ho altre dolcezze che assapori.
Giano: Ma eccomi qui.
Feo Belcari
Il sacrificio di Isacco
Abramo e Isacco
Questa è la rapresentazione d’Abram quando volse fare sacrificio di Isac.
In prima viene uno angelo e annuntia quello che s’intende fare dicendo le infrascripte stanze.
L’occhio si dice ch’è la prima porta
per la qual lo ’ntelletto intende e gusta:
la seconda è l’udir con voce scorta,
che fa la vostra mente esser robusta:
però vedrete et udirete in sorta
recitar una storia sancta e giusta;
ma se volete intender tal misterio
state devoti et con buon desiderio.
Nel Genesi la sancta Bibbia narra
che Dio volse provar l’ubidientia
del patriarca Abram, sposo di Sarra,
e per un angel gli parlò in presentia.
Allora Abram le sue orecchie sbarra,
inginocchiato con gran reverentia,
avendo el suo disio tutto disposto
di voler quanto gli fusse imposto.
Idio gli disse: “Togli il tuo figliuolo
unigenit’Isac, el qual tu ami,
e di lui fammi sacrificio solo:
e mosterotti il monte, perché brami
saper el loco; et non menare stuolo.
Va’, ch’i’ tel mosterrò senza mi chiami:
cammina per la terra aspra e diserta,
e fammi sol del tuo figliuolo offerta”.
Considerate un poco el parlar solo
di tal comandamento con suo rami:
non bosognava dir, dopo “el figliuolo
unigenit’Isac”, “el qual tu ami”,
se non per dargli maggior pena e duolo,
aprendo del suo cor tutt’i serrami,
però che Ismäel era in exilio
con la sua madre, per divin consilio.
Non dice che l’uccida in quell’ora,
ma fallo andar per tre giorni in viaggio,
perché el dolore abbi lunga dimora.
Col figlio andando pel loco selvaggio
tutto ’l suo cor di doglia si devora:
ponendo adosso sopra el figliuol saggio
le legne, et egli insieme per quel loco
portava in mano un gran coltello e ’l foco.
Isac disse allora: “O padre mio,
dov’è la bestia che debbe esser morta?”
Abram rispose: “El nostro grande Dio
provederà ch’ella ci sarà porta.
Fa’ pur d’avere in lui tutto ’l disio,
et questo peso volentier sopporta.
Qualunque serve a Di[o] con puro core
sostiene ogni fatica per suo amore”.
Questo parlar d’Isac era un coltello,
che il cor del sancto Abram feriva forte,
pensando ch’al figliuol suo dolce et bello
con le sue proprie man dovea dar morte.
Da molte cose era temptato quello
non obedire a così dura sorte,
ma del servire a Dio avendo sete
volse obedir, sì come voi vedrete.
Sono gli eventi spettacolari delle feste pubbliche che nella città-stato delle prime signorie esaltano lo sfarzo cerimoniale del potere politico o religioso e, scandendo le occorrenze del casato o quelle liturgiche, conferiscono il prestigio dell’ufficialità alle coreografie dei palii, così come ai cortei delle confraternite, e incrementano la solennità delle sacre rappresentazioni.
Tra gli spettacoli del Quattrocento prevalgono, per ridondanza figurativa, le entrate processionali dei cortei principeschi, accolti dal corteggio della signoria per procedere insieme sotto archi trionfali verso la corte. Tra squilli di trombe e rullare di tamburi sfilano attraverso un itinerario delimitato da addobbi floreali, decorazioni lignee o di cartapesta, palchi sovrastati da glorificanti figure mitologiche, mentre posticce fontane zampillano vino e le campane suonano a distesa. L’esaltazione del potere politico conta in particolare sui trionfi, imponenti sfilate a soggetto storico/allegorico di carri sfarzosamente progettati dai dotti umanisti; li animano figuranti, statue, tele, cavalieri al seguito con musici e animali esotici. Memorabile il trionfo celebrato nel 1442 per l’entrata in Napoli di Alfonso d’Aragona: il carro della Fortuna è seguito dalle sette Virtù, scortate a cavallo per aprire la strada, tra due ali di folla, al cocchio di Cesare che, coronato dall’oro, il globo del mondo ai suoi piedi, s’arresta infine davanti al sovrano e gli recita un sonetto caudato. La festa, approntata da squadre di carpentieri e di artigiani, sotto la direzione di “ingegneri”, mobilita confraternite di figuranti o interpreti e si corrobora della partecipazione popolare aprendosi ai giochi, alle esibizioni giullaresche, ai banchetti, ai fuochi d’artificio. La festosità dell’evento pubblico recupera così l’espressività popolare – connessa attraverso le feste stagionali dei “maggi” e del carnevale ad arcaici riti pagani – che istrioni e giullari perpetuano con il loro repertorio di contrasti e ballate, di canzoni e monologhi, di mimi danzanti e farse. Sebbene la licenza carnevalesca della farsa animi soprattutto mercati, fiere e sagre – nonché le Feste dei Folli del basso clero e le recite goliardiche –, la festa signorile non rifiuta l’esibizione farsesca poiché le facezie e la stessa oscenità dell’universo subalterno fanno da controparte comica, da caotica e corporea compensazione all’ordinata e allegorica gerarchia del potere.
Farse giullaresche e goliardiche
Ancora a inizio secolo si ascrive un testo volgare a farsa come il Detto dei villani che va sotto il nome di Matazzone da Caligano; il “detto” del gesticolante giullare giustifica il decalogo dei soprusi da infliggere al bifolco con una genealogia asinina: “de quel malvaxio vento / nascé el vilan puzolento”. Nelle università settentrionali la tradizione delle farse goliardiche prospera spostando il gioco giullaresco verso il teatro comico praticato da chierici e studenti e tendendo spesso a evadere dal latino verso un espressionismo maccheronico. La pavese e anonima Conquestio uxoris inscena i lamenti della moglie nei confronti d’un marito omofilo che cerca di persuadere la donna a condividere con lui i suoi pueros.
L’umanista padovano Sicco Polenton compone nel 1419 un dialogo burlesco, la Catinia, ambientandolo in un’osteria; qui, tra vari avventori, un pescivendolo, un frate mendicante e appunto un venditore di catini, s’intraprende una derisoria discussione che degrada la dialettica ad arte del litigio.
Nel maggio del 1427 gli studenti di Pavia – lo Studio vanta tra i suoi maestri Antonio Baccadelli detto il Panormita, in fama di “mercante di ragazzi”, e Lorenzo Valla (1405-1457) del De voluptate – inscenano con lo Janus sacerdos i grotteschi risvolti dell’omofilia collocando in chiesa gli osceni approcci del prete Giano e degradando, attraverso un vecchio frate, il rapporto educativo a pederastia.
Il giurista parmense Ugolino Pisani – poi autore della Philogenia – parodizza con il latino maccheronico della Repetitio Zanini i cerimoniali accademici; il conferimento dottorale all’arte culinaria di Zani ribadisce che: “Sotto le toghe si nasconde l’inguine, l’ano e i pidocchi, non l’ignoranza”.
Farse francesi, “mogliazzi” veneti, testi napoletani
In Francia, intorno alla metà del Quattrocento, dalla consueta tipologia del marito cornuto, della moglie furbastra, del monaco depravato, del galante fatuo, esce anonima la farsa capolavoro di Maistre Pathelin: lo spassoso Pathelin consiglia al pastore suo cliente di difendersi belando e ne è ripagato a belati: in Italia continuano a prosperare, tra Padova e Venezia mariazi e mogliazzi, farse in versi dialettali che sceneggiano e perpetuano contrattazioni e diverbi matrimoniali. Sul metro della frottola giullaresca, il Mariazo da Pava fa la parodia dei formulari giuridici per assegnare a Betìo la mano di Benvegnua – contesagli dallo sciocco Tuniazzo – quando la fanciulla ne conferma i diritti acquisiti con reiterate prestazioni erotiche erogate sul fienile. Sono le stesse figure che animeranno il grande teatro di Ruzante.
In un’area periferica, ma in diretto contatto con la Francia, Giovan Giorgio Alione, attivo in Asti, verso la fine del secolo appronta in dialetto astigiano un repertorio di dieci farse recitate dai giovani dilettanti di una société joyeuse; fra di esse spicca la Farsa de Zohan zavatino, giocata sul tema boccaccesco del sospettoso marito che sorprende e bastona un goloso prete seduttore.
Allo Studio napoletano e agli ambienti della corte aragonese rimanda l’attività di Pietro Antonio Caracciolo, autore della Farsa de lo Cito e de Cita che, in coda alle prescrizioni notarili regolanti le effusioni erotiche fra Vito e Lorenzella, aggiunge anche quella maliziosa di tenere il futuro marito in disparte “sì essa qualche amante vo’ pigliare”.
Miracoli e quotidianità nelle sacre rappresentazioni fiorentine
Nel corso del Quattrocento in diverse regioni italiane lo spettacolo delle laude drammatiche e delle sacre rappresentazioni – in sintonia con il calendario liturgico – trasforma le motivazioni del rituale cristiano in atti di visualizzazione che tendono al magico inveramento del soprannaturale: gli spettacoli attribuiscono al piacere della vista edificanti funzioni didattiche, emotive, conoscitive.
Accanto alle vicende della vita di Cristo lo spettacolo delle laude inventa storie estrapolate dalle sacre scritture e soprattutto vite di santi costellate, secondo l’immaginario cristiano, di supplizi e miracoli; si tratta di vicende ambientate in regioni sui confini del mostruoso e del diabolico ma aperte agli aspetti umani e simpatetici del dramma, con in più il gusto di risvolti comico-realistici. Tant’è che gli statuti del duomo orvietano – l’edificio sacro è divenuto il naturale “teatro” delle rappresentazioni – nel 1421 imputano alle confraternite di Flagellanti e Disciplinati di accogliere “attori, giocolieri e ciarlatani”, volgendosi dalle “favole” alla “derisione”, facendo sì che le rappresentazioni destinate alla salvezza delle anime assumano “i caratteri della perdizione”.
L’anonima produzione di rappresentazioni – dotate per lo più di modesto valore letterario – tende ad assecondare gli intenti d’una Chiesa intenta a restaurare la propria autorità spirituale anche nella Firenze di Cosimo il Vecchio che nel 1439 ospita il concilio. Gli autori fiorentini, legati ai gruppi culturali dominanti sostituiscono alle sestine delle laude le ottave endecasillabiche rese familiari dai cantari e dai poemetti narrativi; le affidano a compagnie di fanciulli introducendo, a vantaggio del pubblico, un prologo didascalico o “licenza” che un angelo-regista declama a riepilogante congedo morale.
Tra i componimenti più antichi spiccano le sacre rappresentazioni di Feo Belcari, dall’Annunciazione di Nostra Donna all’Abramo e Isaac (1449), la cui linearità compositiva s’incentra su un’azione ben determinata contando sull’efficacia espressiva del dettato. Questa funzionale concezione, teologicamente mirata alla comunicazione d’una eterna verità, cede il passo a una più elaborata struttura con la Storia di Barlaam di Bernardo Pulci e la Santa Guglielma di sua moglie Antonia Giannotti, nelle quali la tendenza al realismo comico riaffiora in inserti connessi ai personaggi secondari, volentieri ispirati alla realtà quotidiana. Nel 1491 la Compagnia del Vangelista, composta di nobili fanciulli, inscena La rappresentazione dei S.S. Giovanni e Paolo di Lorenzo de’Medici: nel martirio dei santi, ordinato dall’imperatore Giuliano l’Apostata, alcuni critici hanno intravisto l’ineluttabilità della ragion di Stato che il Magnifico sottoponeva al vaglio di Girolamo Savonarola.
I cicli francesi delle passions e gli autos spagnoli
Nella Francia del Quattrocento eventi di grandiosa spettacolarità – una caratteristica predominante del teatro in volgare – si ordinano nei cicli delle passions, direttamente derivate dalla liturgia pasquale e della natività. Opera dell’ecclesiastico Eustache Mercadé, la Passione di Arras sceneggia in 25 mila versi tutta la vita del Cristo e ne accentua, grazie al montaggio, l’intervento salvifico suddividendola in quattro giornate e popolandola con più di 100 personaggi. Ancora più imponenti le passioni approntate dalle confraternite parigine di Notre-Dame a scena multipla, su mansions disposte a circolo o rettilinee. Le mystère de la Passion – composto in 45 mila versi dal rettore dell’università di Angers e rappresentato nel 1486 – incrementa le situazioni pittoresche e gli intermezzi comici contemperando così l’impatto degli elementi teologici e rituali. In Spagna gli autos, con la loro breve e rigida struttura rappresentativa, finiscono con l’aprirsi progressivamente a contaminazioni mitologiche, mentre per la festività del Corpus Domini perdurano le sontuose processioni con sfilate di carri e figuranti.
Realismo e ironia nei miracle plays inglesi
In Inghilterra già intorno al 1425 il miracle play segna il suo punto più alto con l’anonimo ciclo di Wakefield che in 32 rappresentazioni, con grandi capacità compositive, narra la storia del mondo dalla creazione di Adamo all’impiccagione di Giuda. In cinque plays la mano d’uno sconosciuto maestro combina realismo e ironia mescolando sapientemente elementi comici e tragici e recuperando la stessa ilarità della farsa; l’episodio di Noè inscena una vecchia moglie che con ostinazione caparbia battibecca e rifiuta di salire sull’arca; indifferente a suppliche e minacce di marito e figli, solo a diluvio inoltrato prende atto che: “Comincia a esserci troppa acqua, / comincio a bagnarmi. / Be’, forse è meglio saltare dentro / per non affogare”. La Secunda pastorum mostra il povero Mak rubare una pecorella e nasconderla in una culla; sospettato s’inventa un sogno di paternità, ma è scoperto e scherzosamente punito quando i compagni pretendono di baciare il presunto neonato. Alla fine giunge la lieta novella tra questa povera gente che, rappresentata a misura della società rurale del tempo, ha perso ogni connotazione agiografica: l’evento sacro è ormai l’epilogo d’un’irriverente sequenza comico-realistica.
La lotta tra il Bene e il Male per il possesso dell’anima dell’uomo è invece affidata dal dramma sacro inglese ai morality plays; tra Angeli e Demoni, Vizi e Virtù, peccati capitali e Penitenza, queste complesse psicomachie spaziano dal caotico Castello della Perseveranza (1425 ca.) alla più strutturata Chiamata di Ognuno (1495 ca.). Alle originarie istanze di visualizzazione subentrano ora quelle di riflessione emotiva ed escatologica.