Fascismo
La questione dei rapporti tra f. e cinema si muove su un doppio terreno di analisi: quello dell'uso dei nuovi mezzi di comunicazione di massa da parte del regime, e quello delle relazioni complesse e sfaccettate da esso intrattenute con il mondo della cultura. Si tratta quindi di una questione cruciale per una valutazione complessiva del f., delle sue finalità e capacità modernizzatrici così come della sua effettiva natura totalitaria. Modernizzazione e totalitarismo, del resto, rappresentano gli estremi interpretativi entro i quali si è venuta sviluppando la ricerca storiografica in materia: dalla separazione di chiara ascendenza crociana tra f. e cultura, volta ad accreditare l'immagine di un regime fondato sul controllo e la coercizione degli intellettuali (Bobbio 1973), all'inclusione del cinema quale componente della 'macchina del consenso' fascista (Cannistraro 1975) come tassello di un più generale recupero dei nessi tra storia del f. e storia d'Italia (De Felice 1975), fino all'articolazione dei rapporti tra f. e cultura di massa in termini di organizzazione istituzionale, corporativismo professionale, omogeneizzazione dei meccanismi formativi (Isnenghi 1979; Turi 1980). Ognuna di queste tre diverse visioni interpretative riconduce a un diverso concetto di cultura: 'alta', elitaria ed europea nella prima, 'bassa', funzionale e ideologica nella seconda, 'mista', plurale e frammentata nella terza. Nello specifico della storia del cinema, la chiave interpretativa di una netta separazione tra cinema fascista e cinema italiano è stata proposta in modo organico da uno dei protagonisti di quella stessa storia, Carlo Lizzani: "il cinema italiano dal 1930 in poi (il cinema italiano che, come abbiamo detto, porta l'impronta di Blasetti e Camerini) è oggi per noi un racconto chiaro, una parabola trasparente e significativa. È il racconto di come il ceto medio, base di massa del fascismo, 'imprestò' al regime dominante la sua ideologia, le sue illusioni, i suoi sogni e i suoi miti" (Lizzani 1960, 1992³, p. 45). Il cinema d'autore viene, in questo caso, trattato come una storia a sé, essenzialmente interna e autoreferenziale, determinata dal duplice rapporto con l'evoluzione parallela del cinema europeo e statunitense e con la tradizione culturale nazionale. Si tratta cioè di una storia separata sia da quella della cinematografia di Stato, esemplificata dai documentari dell'Istituto Nazionale Luce e funzionale alla propaganda ufficiale del regime, sia da quella del cinema più propriamente commerciale, ispirato al genere cosiddetto dei telefoni bianchi (così chiamato per l'attenzione all'arredo lussuoso di interni domestici alto-borghesi) e a una letteratura deteriore di mera evasione. Proprio l'assenza di un precedente corposo e significativo, paragonabile a quel che in Germania aveva rappresentato la stagione dell'Espressionismo, aveva determinato in Italia un livello qualitativo assai più basso di questo cinema commerciale rispetto al suo omologo tedesco. Viceversa, la ricerca di una poetica più vicina alla realtà e alla vita quotidiana (quel mondo culturale 'imprestato' dal ceto medio al f.) condusse i migliori registi del periodo a fuoriuscire precocemente dall'alveo dell'ideologia nazionalista e militarista del regime e a gettare le basi del successivo movimento neorealista, che avrebbe avuto modo di dispiegarsi liberamente solo dopo che l'Italia ebbe riacquistato la democrazia.
All'interpretazione di Lizzani, di segno deliberatamente contenutistico e poco propensa a indagare i risvolti economici e industriali dell'arte cinematografica, si è contrapposta negli anni Settanta una lettura diversa, segnata in profondità dal punto di vista di una critica cinematografica militante e impegnata. Secondo questa lettura, anche i film di Alessandro Blasetti e Mario Camerini ‒ anziché manifestare un'implicita opposizione all'ideologia fascista ‒ erano contaminati dall'atmosfera dominante e si limitavano a riproporre le diverse varianti di uno stesso schema narrativo, fondato sulla parentesi di una vacanza trasgressiva chiusa da un rapido ritorno all'ordine e da una pronta restaurazione degli equilibri e delle gerarchie sociali (Carabba 1974). Affidato alla ricostruzione di vicende e ambienti piccolo-borghesi piuttosto che a mitologie epiche, questo messaggio conservatore e tradizionalista finiva per acquisire una capacità di penetrazione assai più insidiosa e pervasiva rispetto a quella messa in atto dal cinema più vicino e funzionale alla propaganda di regime. Tra le visioni contrapposte di Lizzani e Carabba corre lo stesso spazio che c'è tra una generazione più anziana, interessata a nobilitare le proprie origini culturali separandole da quelle del regime fascista, e una generazione più giovane, protesa all'affermazione di sé attraverso la critica oppure la condanna in blocco delle connivenze e delle corresponsabilità dei propri padri. Come ha osservato a suo tempo E. Garin, "non avere condotto a fondo un'analisi spregiudicata, a tutti i livelli, anche sul terreno della cultura, è stata una colpa grave di questo dopoguerra, prima troppo proclive a condanne moralistiche parallele a indulgenti compromessi, poi troppo incline a rifiuti globali, retorici e velleitari" (Garin 1974, p. XX).
A metà degli anni Settanta, un convegno tenuto a Pesaro nel 1974 e una rassegna ivi svoltasi l'anno successivo si resero interpreti di una rivalutazione complessiva del cinema dei telefoni bianchi (v. commedia), rivisto in chiave di anticipazione del fenomeno neorealista soprattutto nel senso di un'attenzione non ideologica e non letteraria per interni borghesi, squarci di vita sociale e personaggi lontani dalla retorica imperiale e bellicista del regime (Il cinema italiano sotto il fascismo, 1979; Mida, Quaglietti 1980). La natura conservatrice e tradizionalista degli ambienti messi in scena da questo cinema corrispondeva a un'identità atavica e profonda degli italiani: qualunquisti, furbi, romantici ma sempre cultori del proprio particulare e quindi in definitiva assai lontani dall''uomo nuovo' che il f. avrebbe voluto costruire. Non pare una forzatura sottolineare sia la coincidenza cronologica sia le assonanze di questo tipo di rivalutazione ‒ contro la quale Lizzani protestò dalle colonne del "Corriere della sera" (31 dic. 1976) ‒ con la revisione storiografica più complessiva legata al nome di R. De Felice. Questa revisione si fondava infatti su un'interpretazione della dittatura mussoliniana come tentativo di modernizzazione accelerata del Paese, nel quale si impastarono le contraddizioni della storia e della società italiana: attraverso una fisionomia di volta in volta industrialista e ruralista, il regime costruì un rapporto di egemonia sulle parti più dinamiche della società civile (i ceti medi), fino a guadagnarne il consenso attivo. Ma sarebbe stato proprio questo intreccio profondo con la nazione a suscitare dall'interno del regime gli stessi soggetti (gli esponenti del 'fascismo di sinistra' come G. Bottai e A. Grandi) destinati a provocarne la caduta. In modo non troppo dissimile, del cinema dei telefoni bianchi si enfatizzavano le parentele con la coeva e migliore cinematografia francese (Marcel Carné, Jean Renoir) fino a configurarlo come l'espressione di una tacita fronda antifascista, dal cui ramo sarebbero poi sbocciate le fioriture del film neorealista e della commedia all'italiana. È stato nel corso degli anni Ottanta che ‒ sulla scorta di quella terza visione storiografica più generale, maggiormente articolata e attenta ai meccanismi di organizzazione e trasmissione della cultura di massa in epoca fa-scista ‒ è gradualmente subentrato un approccio meno univoco e più differenziato al tema dei rapporti tra f. e cinema. Non è un caso che questo nuovo approccio sia stato spesso legato a ricerche di ambito anglosassone, e statunitense in particolare. Al centro di esso sta infatti una lettura del cinema come consumo culturale di massa e quindi come specchio e nello stesso tempo proiettore di stili di vita, miti e stereotipi del senso comune. Nei rapporti tra cinema e f. si interpone quindi come elemento di mediazione e combinazione una cultura di massa che si colloca alla base della struttura sociale ed è frutto dell'intreccio di fattori diversi: ideologia ufficiale di regime, folclore popolare e secolari culture subalterne, mentalità stratificate di ceto e di comunità, dinamiche contingenti della condizione socioeconomica, tradizioni civiche e solidaristiche (Hay 1987). Il cinema è creazione artistica d'autore e quindi prodotto interno di contesti, filiazioni e rapporti culturali e intellettuali, ma è anche mezzo di comunicazione di massa e quindi prodotto destinato a pubblici diversi (giovani, donne, famiglie) per interpretarne identità personali e collettive. In questo sforzo di decifrazione della società a cui si rivolge, il cinema non è mai soltanto riflesso passivo della realtà né soltanto pura e semplice evasione. Costituisce piuttosto "un mosaico di miti che coinvolgono la famiglia, il lavoro, l'ascesa sociale, l'eroismo giovanile, il sacrificio, il sogno imperiale, il conflitto sessuale, l'amore e il tempo libero e, più in particolare, di strategie spesso inconsapevoli di naturalizzazione delle esperienze per creare un senso di 'come vanno le cose'" (Landy 1986, pp. 27-28). Anche se non presupponeva uno spettatore fascista nell'accezione più strettamente ideologica del termine, il cinema dei telefoni bianchi ha funzionato "come strumento di integrazione sociale e accettazione dell'esistente" (Bertetto 1979, p. 133).
Secondo questa visione, attraverso il cinema si costruì un rapporto reciproco tra regime fascista e ceto medio: entro il quale, cioè, ciascuno 'imprestava' ‒ per usare l'espressione di Lizzani ‒ qualcosa all'altro. Co-me sostiene uno dei protagonisti di allora, Sergio Amidei, "non si può parlare di cinema fascista, ma di cinema italiano" (Le cinéma italien, 1990, pp. 17-18), perché, per dirla con le parole di un altro testimone come Alberto Moravia, "il cinema di epoca fascista rifletteva inconsapevolmente la situazione sociale dell'Italia sotto il fascismo, cioè una piccola borghesia di origine rura-le, contadina, che credeva nel mito di Roma antica e del Rinascimento" (Le cinéma italien, 1990, p. 194). La stessa questione complessiva del consenso al regime ne esce ridefinita in termini più complessi e sfaccettati, meno univoci e indifferenziati. L'egemonia modernizzatrice del f. non può essere ridotta a falsa coscienza indotta e coattiva, ma non è neppure una cappa totalitaria omogenea e soffocante: conosce zone d'ombra, intrecci e articolazioni plurali.
Per valutare in termini storicamente più precisi questa dinamica, occorre ricordare che il punto di partenza, all'inizio degli anni Venti, era quello di una grave crisi del cinema italiano, determinata dalla spietata concorrenza delle majors hollywoodiane e dall'inopinata riscossa del teatro di varietà legato ai grandi nomi di O. Spadaro, R. Viviani, L. Fregoli, E. Petrolini (Brunetta 1991, 1995²). All'indomani della marcia su Roma, il governo mussoliniano mostrò di preoccuparsi del controllo sulla moralità dei film in circolazione, ma appariva assai lontano da un uso consapevole della produzione cinematografica. Uscivano poche decine di film all'anno, che inesorabilmente retrocessero nella considerazione internazionale a fronte delle opere coeve di Fritz Lang, Sergej M. Ejzenštejn, René Clair, Charlie Chaplin. L'unico successo destinato in qualche modo a varcare i confini del pubblico nazionale fu Cirano di Bergerac (1922) di Augusto Genina, che rivisitava con creatività il filone prebellico dei film in costume; alla sua scuola si formò un regista come Camerini. Il processo di stabilizzazione della dittatura si rifletté nella costituzione in ente statale dell'Istituto Nazionale Luce (novembre 1925): dall'aprile 1926 i documentari "di propaganda nazionale e patriottica" da esso prodotti (alla fine, nel 1943, sarebbero stati circa tremila) furono proiettati in tutte le sale cinematografiche del Regno. Il regime sembrò quindi ritagliarsi una sfera di intervento diretto e consapevole nel settore moderno della comunicazione di massa, senza propositi di sostegno e orientamento nella produzione di fiction (Argentieri 1979; Cardillo 1983). Quest'ultima continuò a riproporre il fortunato ciclo di Maciste (l'attore Bartolomeo Pagano, che lo impersonava, era il più pagato del cinema muto italiano) e una 'romanità' seriale e retorica ma priva di nessi visibili con l'attualità: Messalina (1923) di Enrico Guazzoni, Quo vadis? (1924) di Gabriellino D'Annunzio e Georg Jacoby, Gli ultimi giorni di Pompei (1926) di Amleto Palermi e Carmine Gallone (Martinelli 1980-81; Gori 1988). L'unica eccezione in questo quadro di spartizione dei compiti fu il film Il grido dell'aquila del 1923 diretto da Mario Volpe, che tracciava una linea di continuità tra la Prima guerra mondiale e la marcia su Roma, e che però andò incontro a un insuccesso totale di pubblico e di critica.
Solo alla fine degli anni Venti emerse un nuovo filone di argomento coloniale, il cui prodotto migliore resta Kiff Tebby (1928), epopea della missione militare italiana in terra d'Africa, che consacrò il successo internazionale di Camerini (Brunetta, Gili 1990). Al 'fronte interno' delle grandi bonifiche delle paludi pontine era invece dedicato Sole (1929), diretto da un giovane 'intellettuale militante' del regime, A. Blasetti. La rivalutazione del mondo contadino, di cui il film si ergeva a portavoce consapevole, appariva assai lontana dalla retorica aggressiva e populista dello Strapaese di M. Maccari e della sua rivista "Il Selvaggio": la ruralità non veniva vista come antitesi della 'civiltà modernista', e dell'uomo si esaltava la capacità collettiva di lottare contro la natura piuttosto che quella di difenderla e conservarla passivamente. Quasi un controcanto industrialista alla pellicola di Blasetti fu Rotaie (1930) di Camerini, apologo dell'etica del lavoro di fabbrica contrapposta alla dissolutezza del gioco d'azzardo, in cui si riverberavano anche echi e suggestioni del cinema sovietico.
A Camerini e Blasetti si legò la 'rinascita' della cinematografia italiana. Alla fine degli anni Venti le sale di proiezione tornarono ad affollarsi, riguadagnando il terreno perduto a favore del varietà. Ma ogni anno erano più di un migliaio i titoli importati dall'estero (e principalmente dagli Stati Uniti) a fronte delle poche decine frutto della produzione nazionale. Fu in questo frangente che maturò l'intervento attivo del regime. Il 18 giugno 1931 venne varata la legge nr. 918, la prima di sostegno organico al settore, che destinava alla produzione il 10% degli incassi: "il Governo" ‒ sostenne G. Bottai, allora ministro delle Corporazioni ‒ "ha voluto aiutare l'industria a resistere all'industria straniera che porta sul nostro mercato quei film di varietà, fantasia, immaginazione che costituiscono una potente attrazione per il pubblico. Io vado raramente al cinematografo, ma ho sempre constatato che il pubblico invariabilmente si annoia quando il cinema lo vuole educare. Il pubblico vuole essere divertito ed è precisamente su questo terreno che noi oggi vogliamo aiutare l'industria italiana" (Brunetta 1991, 1995², p. 191). Il sostegno in chiave nazionalista e antiamericana alla produzione cinematografica non alterò quindi il quadro di fondo della spartizione di compiti fissata con la fondazione dell'Istituto Luce: al cinegiornale la propaganda, al cinema l'evasione. Ed è interessante notare come l'iniziativa fascista evitasse l'adozione sia di misure protezionistiche (ancora nel 1938 quasi due terzi degli incassi sarebbero andati ai film di Hollywood) sia di filtri di controllo sulla produzione nazionale. Si moltiplicarono le case di produzione private: alla ricostituita Cines (che nel maggio 1930 inaugurò i primi impianti per il sonoro), diretta da Stefano Pittaluga e poi da Emilio Cecchi, si aggiunsero la Caesar, la Titanus, la Lux. Nel 1934 aprirono gli stabilimenti della Tirrenia Film. Erano gli anni in cui saliva la stella di Luigi Freddi, ex giornalista corrispondente dagli Stati Uniti e direttore per la cinematografia al Ministero della Stampa e propaganda (Freddi 1948). Sotto la sua guida l'iniziativa statale affiancò quella privata: crebbero gli investimenti dell'Ente nazionale industrie cinematografiche, e dal febbraio 1934 la Corporazione dello spettacolo organizzò attori e autori di teatro e cinema, affiancando la Federazione fascista degli industriali dello spettacolo costituita nel 1926. All'insegna dello slogan "la cinematografia è l'arma più forte", si inaugurò nell'aprile 1937 Cinecittà. Con dieci teatri di posa sorti alle porte di Roma sulle ceneri degli stabilimenti della Cines, distrutti nel 1935 da un incendio, era il maggiore complesso produttivo europeo: a partire dal gennaio 1940 lo diresse lo stesso Freddi. La produzione italiana aumentò, e dai 45 film del 1938 si passò agli 85 del 1940: di essi ben 55 uscirono da Cinecittà. Gli incassi dei film italiani salirono da poco più del 10% nel 1938 a oltre il 50% nel 1942; quelli americani calarono nello stesso periodo da quasi due terzi a poco più di un quinto (Savio 1975 e 1979; Corsi 2001).
Ma cresceva anche la qualità. Nell'estate 1932 si era tenuta la prima edizione della Mostra internazionale del cinema di Venezia, dove sarebbero passate anche le opere di René Clair, Joris Ivens, Frank Capra, Jean Renoir (premiato nel 1937 per La grande illusion, La grande illusione, che però suscitò gli attacchi del regime per il suo antimilitarismo). Nell'ottobre 1935 era stato aperto a Roma il Centro sperimentale di cinematografia diretto da Luigi Chiarini, ove si formò buona parte dei registi che si sarebbero affermati nel dopoguerra e si tenne a battesimo la rivista "Bianco e nero" (Laura 1976). Il panorama del cinema italiano rimase dominato dalle figure di Blasetti e Camerini. Il primo portò sugli schermi la comicità teatrale di Ettore Petrolini (Nerone, 1930) e rilesse in chiave populista il mito risorgimentale con 1860 (1934), dove il punto di vista delle classi subalterne siciliane ‒ esplicitato anche dal ricorso al dialetto ‒ era funzionale alla presentazione del processo di unificazione nazionale in chiave di "concorde partecipazione interclassista" (Brunetta 1991, 1995², p. 220). Il filone blasettiano di storia patria si ampliò con Ettore Fieramosca (1938) e La cena delle beffe (1942), famoso per il seno nudo di Clara Calamai, fino a Quattro passi fra le nuvole (1942) che ‒ con la sceneggiatura di Cesare Zavattini ‒ segnò il passaggio a una tematica più lirica di fuga dalla realtà. In Gli uomini, che mascalzoni… (1932) Camerini inaugurò una vena di satira dei sogni di grandezza e delle miserie quotidiane della piccola borghesia, che si avvalse della recitazione di Vittorio De Sica (Il signor Max, 1937). Sarebbe stato quest'ultimo, passato dietro la macchina da presa, a rovesciare l'approccio brillante in critica morale con I bambini ci guardano (1944), dove la perdita dell'innocenza infantile rifletteva la tragedia incombente della guerra e si traduceva in condanna del mondo degli adulti. Minor successo incontrarono i film più direttamente riconducibili alla propaganda di regime, come Vecchia guardia (1935) dello stesso Blasetti, Scipione l'Africano (1937) di C. Gallone, che tentò di nobilitare il mito imperiale con grande dispiego di mezzi, o L'assedio dell'Alcazar (1940) di A. Genina, dedicato alla celebrazione retorica della sollevazione franchista. Assai più fortunato fu invece Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, che consacrò Amedeo Nazzari a divo nazionale attraverso un'interpretazione più intima e psicologica della mitologia militarista come strumento di riscatto individuale. Il grosso della produzione si concentrò sul genere dei telefoni bianchi, che riproduceva piattamente testi teatrali ungheresi e brillava per l'assenza di sesso, politica e storia, interpretando il sogno di ascesa sociale di un ceto medio qualunquista e particolaristico: Mille lire al mese (1939) di Max Neufeld ne fu l'esempio più rappresentativo (Bolzoni 1988).
Fu in questo quadro plurale e sfaccettato che penetrò, a rimorchio del cinema francese di Marcel Carné, Jean Renoir e Julien Duvivier, una esplicita istanza realista e classista. "Vogliamo portare le nostre macchine da presa" ‒ scrivevano su "Cinema" nel 1941 Giuseppe De Santis e Mario Alicata ‒ "nelle strade, nei campi, nelle fabbriche, nei porti del nostro paese: anche noi siamo convinti che un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell'operaio che torna a casa" (Brunetta 1991, 1995², p. 212). Frutto maggiore di tale istanza fu Ossessione (1943) di Luchino Visconti: torbida vicenda di adulterio, assassinio e castigo ripresa dal romanzo di J. Cain (The postman always rings twice, 1934), che suscitò la riprovazione degli ambienti cattolici. Ma ormai questo cinema si muoveva sul crinale di una sotterranea fronda antifascista: lo testimonia il fatto che il progetto di far rivivere la Città del cinema a Venezia, con quello che venne chiamato Cinevillaggio, sotto l'egida della Repubblica sociale, portato avanti da Freddi nel 1944, riuscì a coinvolgere perlopiù registi e attori di scarso rilievo.
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