FASCISMO
(XIV, p. 847; App. I, p. 571; II, I, p. 904; III, I, p. 593)
La questione del fascismo. - Scomparso da quasi mezzo secolo come protagonista della politica europea, il f. è tuttora uno dei problemi più studiati e più controversi della storia contemporanea. La questione del f., considerato sia come fenomeno internazionale sia come movimento-regime italiano, ha ormai una lunga tradizione iniziata quando il movimento, fondato da B. Mussolini il 23 marzo 1919, conquistò il potere con la ''marcia su Roma'' (28 ottobre 1922) dando vita a un nuovo regime politico. Studi, ricerche e dibattiti sul f. sono continuamente aumentati, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, specialmente in Italia e in Germania. In questi due paesi, la memoria dell'esperienza totalitaria fa ancora gravare sul senso dell'identità nazionale, sia pure con diversa intensità, il problema etico-politico della responsabilità collettiva verso un "passato che non vuol passare" (Nolte 1987), suscitando polemiche anche fuori del campo scientifico. Ma il problema del f. non si limita al caso italiano o tedesco: nel periodo fra le due guerre mondiali, infatti, movimenti che si richiamavano direttamente al f. o al nazismo o a questi somigliavano per il nazionalismo radicale, l'antiliberalismo, l'antibolscevismo, l'organizzazione paramilitare, l'attivismo di piazza e lo stile politico, sorsero e si diffusero in tutti i paesi europei, rappresentando ovunque una minaccia, potenziale o effettiva, per i regimi democratici. La riflessione sulla vulnerabilità della democrazia parlamentare nella moderna società di massa è parte integrante della questione del f. e ne accresce l'importanza per gli studiosi contemporanei. Come pochi fenomeni del nostro tempo, il f. è stato studiato da storici, sociologi, politologi, filosofi e psicologi, mossi dall'esigenza comune di spiegare i motivi per i quali ebbero origine e si affermarono, in paesi già investiti dalla modernizzazione e dalla democratizzazione, movimenti come il f. e il nazionalsocialismo, che reclamavano il monopolio del potere politico e il controllo totale sulle masse, avvolgendo la società nelle spire di un regime totalitario che subordinava la collettività al partito unico in nome di miti nazionalistici di potenza e di espansione.
Nell'arco di oltre mezzo secolo sono state proposte numerose e contrastanti definizioni e teorie del fenomeno fascista. Ripercorrendo la storia di queste interpretazioni assistiamo a una progressiva dilatazione del f., dalla sua originaria dimensione italiana ed europea verso una dimensione mondiale. Il f. ha finito così con l'assumere l'aspetto di un'entità universale e metastorica, che si sarebbe manifestata e potrebbe manifestarsi ovunque, al di là dei confini propri del ''f. storico'', compreso nel periodo fra le due guerre mondiali. Dopo il 1945, per es., sono stati definiti ''fascisti'' il regime di J. Peron in Argentina, la repubblica di Ch. De Gaulle in Francia, i regimi a partito unico del Terzo Mondo, la dittatura dei colonnelli in Grecia, la presidenza Nixon, i regimi militari dell'America latina, ma anche le democrazie borghesi e gli stessi regimi comunisti. Si è parlato di ''f. rosso'' a proposito della sinistra extraparlamentare e dei gruppi terroristi comunisti, e di involuzione ''fascista'' del regime comunista cinese in occasione della strage di Piazza Tien An Men a Pechino (3-4 giugno 1989). Di recente è stata coniata una nuova categoria di f., quella di ''f. medio-orientale'', per definire il regime di Ṣaddām Ḥussayn in ῾Irāq. Nel linguaggio politico corrente il termine ''fascismo'' è universalmente adoperato in senso spregiativo come sinonimo di destra, controrivoluzione, reazione, conservatorismo, autoritarismo, corporativismo, nazionalismo, razzismo, imperialismo. Con un processo continuo di inflazione semantica, il concetto del f. è stato adottato indiscriminatamente nella lotta politica, nella storiografia e nelle scienze sociali, diventando però sempre più generico, al punto che qualche studioso ha proposto di bandirlo dalla comunità scientifica.
Interpretazioni del fenomeno fascista. - Inizialmente, negli anni Venti, il f. fu considerato prevalentemente un'espressione tipica della storia e del carattere degli Italiani. La cultura fascista, in quel periodo, insisteva sulla italianità del f. come rinascita della ''stirpe'' iniziata con l'interventismo e la guerra. Anche in campo antifascista prevaleva la tendenza a considerare il f. un fenomeno italiano, come rivolta antiproletaria e anticapitalista della piccola borghesia umanistica, impregnata di nazionalismo e di retorica romanistica (L. Salvatorelli) o addirittura come "autobiografia della nazione" (P. Gobetti), cioè come manifestazione e prodotto di secolari deficienze storiche e morali tipiche della società, della classe dirigente e del popolo italiano.
La specificità italiana del f. era un giudizio diffuso anche nelle interpretazioni degli stranieri, ma durante gli anni Trenta, con il proliferare in Europa di movimenti e di regimi autoritari nazionalisti, e soprattutto dopo l'avvento al potere del nazismo, il f. fu percepito sempre più, da avversari e da simpatizzanti, come un fenomeno internazionale. La stessa propaganda fascista cominciò a esaltare l'''universalità'' del f., profetizzando il prossimo avvento di un'Europa fascista o fascistizzata. La guerra civile in Spagna, l'alleanza fra Italia, Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale, lo stesso carattere ideologico di questa guerra intesa come conflitto fra f. e antifascismo, rafforzarono definitivamente la convinzione che il f. potesse essere considerato un unico fenomeno internazionale. Questa convinzione fu il denominatore comune delle interpretazioni elaborate dai movimenti antifascisti fra gli anni Trenta e Cinquanta.
La cultura marxista e il movimento comunista furono i primi ad attribuire al f., fin dagli anni Venti, una dimensione internazionale, identificandolo con la reazione della borghesia che, per far fronte all'avanzata del proletariato, si serviva di bande armate di piccoli borghesi declassati. La 3ª Internazionale sancì la codificazione dell'interpretazione del f. come "dittatura terroristica del grande capitale". Per i marxisti, ogni società capitalistica era strutturalmente predisposta al f., mentre dai comunisti era definito fascista qualsiasi movimento o regime anticomunista, compresi, in un determinato momento, i partiti socialisti e socialdemocratici (teoria del ''socialfascismo''). Una parziale correzione di questa visione del rapporto fra capitalismo e f. è stata avanzata da studiosi marxisti che hanno escluso un nesso di causalità necessaria fra capitalismo e f., constatando che, in effetti, nella maggior parte dei paesi capitalisti, come gli Stati Uniti, l'Inghilterra e la Francia, senza considerare paesi minori, come il Belgio e l'Olanda, il regime democratico superò gravi crisi politiche ed economiche, come quella del 1929, senza cedere alle seduzioni del f., che pure vi erano presenti (P. M. Baran, P. A. Sweezy). Altri studiosi dello stesso orientamento hanno parzialmente modificato la definizione del f. come agente del capitalismo, riconsiderando il rapporto fra regime fascista e capitalismo come un'"alleanza" (R. Kühnl), in cui il f. mantiene un suo grado di autonomia, mirando a far prevalere il "primato della politica" anche nella sfera dell'economia (T. Mason).
L'interpretazione marxista è stata contestata dalla cultura liberale, che ha attribuito la genesi e l'affermazione del f. a una "malattia morale", esplosa dopo la prima guerra mondiale, ma iniziata già negli ultimi decenni dell'Ottocento con un progressivo decadimento della coscienza europea, l'imbarbarimento della società e l'irrazionalismo culturale (J. Huizinga). L'infiacchimento della fede nella libertà, l'esaltazione imperialistica, il dispiegarsi della volontà di potenza e della brama di potere, l'attivismo politico e il culto della violenza, sostenuti dai nuovi strumenti dell'industria e della tecnica, furono i fattori che, dopo lo sconvolgimento rivoluzionario della guerra mondiale, favorirono il trionfo del "volto demoniaco del potere" (G. Ritter) con le tirannie di nuovi ''superuomini'' che fondavano il loro potere sulla demagogia, sul terrore e sulla "intronizzazione del pensiero mitico" (E. Cassirer). E come "malattia morale", il f. era stato un "morbo contemporaneo", "sparso dappertutto nel mondo" (B. Croce).
La visione del f. come fenomeno di patologia storica, proiettata però su una dimensione plurisecolare e "metapolitica" (P. Viereck), è stata alla base anche delle interpretazioni di orientamento radicale democratico. F. e nazismo erano visti, cioè, come prodotto di processi storici e sociali tipici di paesi, come l'Italia e la Germania, giunti tardi all'unificazione nazionale, conservando nelle loro strutture politiche, sociali e culturali, una tradizione di autoritarismo che risaliva indietro nei secoli e aveva radici profonde anche nel ''carattere'' dei due popoli, che non avevano assimilato le istituzioni e i valori della moderna coscienza liberale (W. M. McGovern, D. Mack Smith, E. Vermeil). Pur accentuando la specificità delle tradizioni storiche nazionali, fino a lasciar trasparire un pregiudizio etnologico, questa interpretazione portava anch'essa alla teorizzazione della ''universalità'' del fenomeno fascista come reazione alla modernità identificata con il sistema politico ed economico delle democrazie occidentali.
Sebbene fossero opposte per categorie culturali e principi ideologici, queste interpretazioni concordavano però sostanzialmente nel risolvere il problema del f. con l'individuazione delle cause e delle condizioni che lo avevano generato (la reazione borghese, la malattia morale, la resistenza alla modernità), giudicando il f. in sé, come movimento politico, un'aberrazione nel cammino della storia verso la modernità concepita come progresso della razionalità e della libertà. L'irrazionalismo, aspetto essenziale e importante del f., finiva così col diventare una giustificazione per ''demonizzare'' il f. o per rappresentarlo come una ''negatività storica''.
L'insistenza sulla natura patologica del f. è presente soprattutto nei tentativi di interpretazione psicologica. Il f. è stato visto come manifestazione della "personalità autoritaria" (Th. Adorno), come reazione aggressiva di masse sessualmente represse (W. Reich), come "fuga dalla libertà" dei ceti piccolo borghesi che, traumatizzati dai processi di atomizzazione e di alienazione della società di massa, cercarono sicurezza e senso di appartenenza nell'ordine comunitario di un nuovo autoritarismo (E. Fromm). Una diversa prospettiva di analisi, più propensa a prendere in considerazione gli aspetti del f. come ideologia, movimento e regime, è stata adottata dagli studiosi che hanno inquadrato il problema del f. nel fenomeno della moderna società di massa (J. Ortega y Gasset, E. Lederer, W. Kornhauser), considerandolo una nuova forma di radicalismo nazionalista di massa, sostanzialmente diverso dalle destre tradizionali e con un proprio autonomo dinamismo (S. M. Lipset, K. Mannheim, T. Parsons). Altri studiosi hanno accostato il f. al comunismo, accomunandoli sotto la categoria del ''totalitarismo'', cioè di un nuovo sistema di dominio politico, fondato sul partito unico, su un'ideologia integralista, sul terrorismo, sulla mobilitazione demagogica delle masse, sul culto idolatrico del ''capo'' e sulla volontà di controllo totale, materiale e spirituale, della società (H. Arendt, R. Aron, Z. K. Brzezinski, C. Friedrich, S. Neumann, L. Shapiro). In senso più generico e più universalizzante, il concetto di f. è stato adoperato nelle scienze sociali per definire ideologie, movimenti e regimi politici connessi con determinati stadi della industrializzazione, della modernizzazione, della mobilitazione sociale (L. Garruccio, G. Germani, J. A. Gregor, B. Moore jr., A. F. K. Organski, M. Vajda), mentre altri studiosi, pur condividendo la visione del f. come fenomeno internazionale, hanno messo in rilievo l'unicità della costellazione di situazioni e di fattori che consentirono al f., ''ultimo arrivato'' fra i movimenti politici europei dopo la prima guerra mondiale, di assumere, nella scena politica fra le due guerre, un ruolo di protagonista, con una propria fisionomia ideologica, sociale e organizzativa (J. J. Linz). Attraverso queste interpretazioni, le scienze sociali hanno contribuito a collocare il problema del f. in una prospettiva propriamente scientifica, favorendo il superamento delle interpretazioni più immediatamente condizionate da presupposti e fini di natura ideologica e politica.
''Fascismo'' e ''fascismi'' nella storiografia. − Il problema della definizione del f., come fenomeno italiano e internazionale, in campo storiografico è stato formulato chiaramente da A. Tasca nel 1938. Secondo Tasca, "definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia... Una teoria del fascismo non potrebbe quindi emergere che dallo studio di tutte le forme di fascismo, larvate o aperte, represse o trionfanti: giacché vi sono più specie di fascismo, ciascuna delle quali implica tendenze molteplici e talora contraddittorie, che possono evolvere fino a mutare alcuni dei loro tratti fondamentali. Definire il fascismo significa sorprenderlo in questo divenire, cogliere la sua ''differenza specifica'' in un paese dato e a una data epoca", confrontando quindi "l'esperienza italiana di tale epoca con altre esperienze sia del periodo successivo che di altri paesi. Questo metodo più prudente e meno ambizioso ci permetterà forse di indicare un certo numero di caratteri comuni suscettibili di essere incorporati in una definizione generale del fascismo" (Tasca 1965). La validità e l'utilità scientifica dell'approccio storicista indicato da Tasca sono stati confermati dai risultati conseguiti da una nuova storiografia sul f., iniziata negli anni Sessanta, che ha affrontato lo studio del fenomeno sulla base della ricerca storica concreta, rifiutando le interpretazioni generalizzanti, le visioni demonologiche e le spiegazioni monocausali. Nel dibattito storiografico contemporaneo il fenomeno fascista si configura, attualmente, come una costellazione di movimenti e di regimi, al centro della quale si distinguono innanzi tutto i ''f. paradigmatici'' (f. e nazismo) circondati da una miriade di ''fascismi'' minori e contornati da varie formazioni considerate come anticipazioni, imitazioni o derivazioni spurie dei ''f. paradigmatici'' (denominate ''protofascismo'', ''parafascismo'', ''pseudofascismo'', movimenti e regimi ''fascistoidi'', ecc.). Ma la ricerca storica delle singole "varietà di fascismo" (E. Weber), studiate nei loro contesti nazionali, portando alla luce le differenze sostanziali che esistevano fra di loro, ha reso più complicata l'elaborazione di una teoria generale. Uno degli ostacoli principali è rappresentato dalla difficoltà di reperire un piano unico di comparazione, dato il differente grado di formazione e di affermazione dei vari ''fascismi''.
Un'analisi comparativa non può non tener conto, per es., della differenza fra movimenti che non giunsero al potere e movimenti che si trasformarono in regime, concretizzando e sviluppando sul piano dell'ordinamento statale la loro politica. Solo il movimento di Mussolini e quello di Hitler, in effetti, riuscirono a conquistare direttamente il potere dando vita a un nuovo regime politico, fondato sul partito unico, e si prestano quindi a un'analisi comparativa in quanto forme compiute di movimenti-regimi. Quasi tutti gli altri ''fascismi'' furono movimenti senza regime, rimasero cioè allo stadio della contestazione, ed è perciò impossibile ipotizzare la loro evoluzione sul piano dell'ordinamento statale, che costituisce un elemento importante per la definizione del fascismo. Qualcuno dei movimenti ''fascisti'' partecipò al potere con altre forze, come nel caso della Heimwher in Austria, ma fu esperienza di breve durata. Le aspirazioni rivoluzionarie di altri movimenti ''fascisti'' furono stroncate dai governi autoritari, come accadde ai nazionalsindacalisti di R. Preto nel Portogallo di A. Salazar, o alla Guardia di ferro di C.Z. Codreanu nella Romania di re Carol. In qualche altro caso, come la Falange nella Spagna di F. Franco, il movimento divenne supporto di un regime autoritario militare, che lo confinò in una posizione subordinata e marginale.
I ''fascismi'', inoltre, si differenziarono per diversità di tradizioni storiche, di contesti nazionali, di vicende politiche, e per i differenti livelli di sviluppo economico, di modernizzazione e di mobilitazione sociale dei vari paesi. Da ciò, la necessità, da parte degli storici, d'introdurre, nella costellazione del f., nuove specificazioni, come, per es., ''austrofascismo'', ''f. iberici'', ''f. mediterraneo'', ''f. nordico'', ''f. balcanico''. Il problema delle differenze non si limita soltanto all'area geografica e al livello di sviluppo, ma investe anche la natura stessa di questi movimenti, cioè la formazione sociale, la cultura politica, la concezione dello stato nazionale.
Differenze notevoli emergono dall'analisi sociologica: mentre nell'Europa centrale e occidentale i movimenti ''fascisti'' reclutarono il loro seguito soprattutto fra i ceti medi, nell'Europa orientale fu molto più consistente la componente popolare contadina e operaia. A livello ideologico, l'antisemitismo fu fondamentale nel nazismo e nei movimenti ''fascisti'' dell'Europa orientale, mentre fu marginale nel f. italiano, che l'acquisì soltanto dopo il 1938, così come era diversa anche la concezione della comunità nazionale: biologico-razziale nel nazismo, idealistico-volontaristica nel f., mistico-cristiana nel movimento della Guardia di ferro. Il nazionalismo fu un dato di differenziazione decisivo fra i vari ''fascismi'', anche se ci furono tentativi per dar vita a una ''internazionale fascista'' negli anni Trenta e, soprattutto, durante la seconda guerra mondiale, quando si verificarono esperienze concrete di collaborazione fra i militanti di vari ''fascismi'' nell'utopia del ''Nuovo Ordine'', concepito soprattutto nella versione nazista. Ma va anche ricordato che molti movimenti considerati fascisti rifiutavano questa etichetta, rivendicando la loro diversità e la loro originalità rispetto sia al movimento di Mussolini che a quello di Hitler.
Se la costruzione di una teoria generale del f. nella storiografia risulta complicata a livello di movimento, non appare più semplice elaborarla a livello di regime. Tanto il regime di Mussolini quanto quello di Hitler, come si è detto, si differenziano sostanzialmente da altri regimi autoritari come la reggenza di M. Horthy in Ungheria, la dittatura di P. De Rivera in Spagna, l'Estado Novo di Salazar in Portogallo. Questi ultimi, anche se assunsero talune caratteristiche fasciste, furono "regimi senza movimento" (M. de Lucena), nel senso che non erano sorti da movimenti di massa, non si basavano sul partito unico e non si ponevano come obiettivi principali la mobilitazione e l'organizzazione totalitaria delle masse. In una categoria del tutto particolare si collocano poi i regimi collaborazionisti di occupazione, sorti sotto l'egida dell'Asse, come il regime di Vichy in Francia, il governo Quisling in Norvegia o la dittatura di A. Pavelić in Croazia. A rendere ancor più problematica una definizione del f. come fenomeno internazionale sono emerse differenze sostanziali anche fra i due ''f. paradigmatici''. L'ideologia volkisch e il razzismo antisemita, culminato con lo sterminio degli ebrei nella ''soluzione finale'', sono componenti costitutive fondamentali nel nazismo e ne determinano chiaramente l'unicità rispetto agli altri ''fascismi'', rendendo quindi molto discutibile, sul piano storico, sia la identificazione fra nazismo e f. sia la definizione del nazismo come ''f. tedesco'' (K. D. Bracher). In modo analogo, da più parti sono stati avanzati dubbi sulla validità storiografica del concetto del totalitarismo, come categoria unificante di esperienze storiche, politiche e ideologiche sostanzialmente differenti, come il f., il nazismo e il comunismo, ed è stata anche messa in dubbio la natura totalitaria del regime italiano (A. Aquarone).
La tesi di un f. internazionale, comprendente gran parte dei movimenti nazionalisti e dei regimi autoritari sorti in Europa dopo la prima guerra mondiale, è sostenuta dagli storici che pongono a fondamento dell'unità del fenomeno la sua natura classista di reazione borghese, connessa in modo strutturale e funzionale al sistema capitalista: come tale, il f. sarebbe un pericolo sempre presente nei paesi capitalistici (E. Collotti, M. Kitchen). Altri storici non escludono la plausibilità di una teoria generale del f. come insieme di diversi ''fascismi'', ma fondano questa teoria soprattutto sul riconoscimento della novità e dell'originalità del fenomeno fascista come ideologia e movimento politico, insieme conservatore e rivoluzionario, la cui natura non si spiega soltanto in funzione della reazione borghese e del dominio di classe, ma deve essere inquadrata nel più generale processo di crisi e di trasformazione della società e dello stato che ha investito l'Europa dopo la rivoluzione francese (F. L. Carsten, P. Milza, G. L. Mosse, E. Nolte, S. G. Payne, E. Weber).
Queste considerazioni sull'interpretazione storica del f. si riferiscono naturalmente in modo particolare al dibattito sul f. italiano. Nella storiografia italiana è prevalsa a lungo dopo il 1945, e non è stata ancora del tutto superata, la tendenza a interpretare in termini generali il f., sulla base di prospettive ideologiche e politiche, piuttosto che a conoscere la sua realtà, basando l'interpretazione su ricerche concrete e approfondite. Fino agli anni Sessanta, gli studi sul f. si limitarono principalmente al periodo delle origini e furono svolti nell'ambito delle interpretazioni tradizionali, sia nella versione liberale (N. Valeri) che in quella radicalmarxista (P. Alatri).
Una nuova prospettiva di analisi si è venuta affermando, a partire dagli anni Sessanta, con le numerose ricerche sul f. italiano condotte da studiosi di diverso orientamento culturale e ideologico, ma concordi nel rifiutare interpretazioni generalizzanti e conclusive, che pregiudicano l'esito della ricerca con la tendenza a confermare i propri presupposti teorici. Il contributo più importante della nuova storiografia, anche per la presenza nel dibattito internazionale, è rappresentato dagli studi di R. De Felice. Alcune sue tesi hanno suscitato discussioni e anche animose polemiche, occupando un posto centrale nella storiografia italiana. Ci riferiamo, in particolare, alla distinzione fra un ''f.-movimento'', espressione di ceti medi emergenti animati da ideali di rinnovamento e dalla volontà di affermarsi come forza sociale autonoma fra la borghesia e il proletariato, e un ''f.-regime'', conservatore e tradizionalista, sorto dal compromesso fra Mussolini, le istituzioni e i ceti dominanti del vecchio regime; al rilievo dato al carattere di massa del f. e al problema del consenso nel regime; alla collocazione del f. nella corrente del "totalitarismo di sinistra" (J. Talmon), originata dal giacobinismo; all'accentuata differenziazione fra f. e nazismo, per le matrici e le componenti culturali e ideologiche, per il grado di "nazionalizzazione delle masse", per il ruolo del ''capo'' e del partito nella liturgia e nel sistema politico, e anche per i presupposti, gli orientamenti e gli obiettivi della politica estera.
Queste tesi sono state variamente contestate, soprattutto da parte di chi, sulla scia della tradizionale interpretazione marxista, riduce il f. a un epifenomeno, a una "forma contingente" del potere borghese, insistendo sulla continuità sostanziale fra regime liberale e regime fascista (G. Quazza). Più sensibili invece alle esigenze della nuova storiografia sono storici marxisti che, pur condividendo la prospettiva della continuità, in termini di dominio di classe, fra liberalismo e f., ritengono tuttavia che il regime fascista sia un fenomeno nuovo rispetto al regime liberale, in quanto "regime reazionario di massa" (P. Togliatti) tendenzialmente totalitario, fondato su un apparato poliziesco ma anche sull'organizzazione del consenso (G. Candeloro, E. Santarelli).
Le ricerche degli ultimi decenni hanno dimostrato, in modo convincente, che i rapporti fra capitalismo e f. si basavano su un accordo caratterizzato non da identità di propositi e di fini, e talvolta anche da reciproca diffidenza e da tensioni crescenti (M. Abrate, P. Melograni, R. Sarti) perché il f., come avevano intuito fin dagli anni Trenta C. Rosselli (1932), G. Salvemini (1936) e A. Tasca, mirava ad affermare il primato della politica, per rendersi autonomo, nelle sue scelte e nelle sue decisioni, dalle forze economiche e dalle istituzioni tradizionali che lo avevano sostenuto nel suo consolidamento al potere. Pur considerando i numerosi aspetti di continuità, a livello sociale, istituzionale e culturale, con il periodo liberale, l'esperienza del f. segnò una profonda frattura nella storia dello stato unitario, perché arrestò il processo di sviluppo democratico compiuto, pur fra ritardi, difficoltà e resistenze, nel cinquantennio liberale, e diede corso a un inedito esperimento di "cesarismo totalitario" (E. Gentile) anche se attuato con gradualità, data la situazione di compromesso fra f. e istituzioni tradizionali.
Elementi per una definizione del fascismo. − Molti importanti aspetti e problemi del f., considerato come esperienza italiana o come fenomeno internazionale, devono essere ancora studiati e approfonditi. Allo stato attuale degli studi, i progressi che sono stati fatti nel campo delle conoscenze e nella consapevolezza critica sono stati decisivi e hanno consentito di porre su nuove basi la questione del f., anche se si è ancora lontani da soluzioni conclusive, per quel che ciò può significare nello studio e nell'interpretazione del passato. Tuttavia, anche se fra contrastanti interpretazioni sulle cause, la natura e la funzione del f., sembra prevalere, nella storiografia contemporanea, l'orientamento a studiare il f. non come un epifenomeno della reazione di classe, come un aggregato di negazioni o un rigurgito di secolari arretratezze contro la modernità, ma come movimento politico, sociale e culturale che si inserisce nei processi politici e sociali avviati in Europa dalla rivoluzione francese (R. Rémond), nei conflitti e nelle tensioni della moderna società di massa (G. Germani) e nella violenta accelerazione del processo di mobilitazione sociale e di modernizzazione prodotto nella società europea dalla prima guerra mondiale.
È ormai uno dei punti fermi della nuova storiografia che la vera matrice del f. fu la prima guerra mondiale, con la crisi sociale, economica e politica che essa produsse nella società europea, anche se alcuni elementi, che contribuirono alla formazione e allo sviluppo del f., specialmente a livello della cultura e dello stile politico, sono certamente rintracciabili in tradizioni politiche preesistenti: nel nazionalismo giacobino, nei miti e nelle liturgie laiche dei movimenti di massa dell'Ottocento, nel neoromanticismo, nell'irrazionalismo delle varie ''filosofie della vita'', nell'attivismo e nell'antiparlamentarismo dei nuovi movimenti rivoluzionari antiliberali, di destra e di sinistra, che operavano in Europa e in Italia alla vigilia della guerra. Il f. ereditò queste tradizioni − che di per sé non possono però esser considerate forme di f. o di protofascismo, perché si ritrovano anche nella genealogia di vari movimenti antifascisti − e le fuse con i miti, le esperienze e gli stati d'animo generati dalla guerra, producendo una nuova sintesi che milioni di uomini e donne considerarono accettabile ed entusiasmante per far fronte ai conflitti della modernità.
Da questo punto di vista, è possibile individuare gli elementi costitutivi per una definizione orientativa del f. − come movimento, ideologia e regime − che sia più adeguata allo stato attuale delle nostre conoscenze e del dibattito contemporaneo: 1) un movimento di massa, con aggregazione interclassista ma in cui prevalgono, nei quadri dirigenti e militanti, i ceti medi, in gran parte nuovi all'attività politica, organizzati in un partito milizia, che fonda la sua identità non sulla gerarchia sociale e la provenienza di classe ma sul senso del cameratismo, si ritiene investito di una missione di rigenerazione nazionale, si considera in stato di guerra contro gli avversari politici e mira a conquistare il monopolio del potere politico, usando il terrore, la tattica parlamentare e il compromesso con i gruppi dirigenti, per creare un nuovo regime, distruggendo la democrazia parlamentare; 2) un'ideologia a carattere ''antideologico'' e pragmatico, che si proclama antimaterialista, antindividualista, antiliberale, antidemocratica, antimarxista, tendenzialmente populista e anticapitalista, espressa esteticamente più che teoricamente, attraverso un nuovo stile politico e attraverso i miti, riti e simboli di una religione laica istituita in funzione del processo di acculturazione, di socializzazione e d'integrazione fideistica delle masse per la creazione di un ''uomo nuovo''; 3) una cultura fondata sul pensiero mitico e sul senso tragico e attivistico della vita concepita come manifestazione della volontà di potenza, sul mito della giovinezza come artefice di storia, e sull'esaltazione della militarizzazione della politica come modello di vita e di organizzazione collettiva; 4) una concezione totalitaria del primato della politica, concepita come esperienza integrale, per realizzare la fusione dell'individuo e delle masse nell'unità organica e mistica della nazione, come comunità etnica e morale, adottando misure di discriminazione e di persecuzione contro coloro che sono considerati al di fuori di questa comunità perché nemici del regime o perché appartenenti a razze considerate inferiori o comunque pericolose per l'integrità della nazione; 5) un'etica civile fondata sulla dedizione totale alla comunità nazionale, sulla disciplina, la virilità, il cameratismo, lo spirito guerriero; 6) un partito unico che ha il compito di provvedere alla difesa armata del regime, selezionare i quadri dirigenti e organizzare le masse nello stato coinvolgendole in un processo di mobilitazione permanente, emozionale e fideistica; 7) un apparato di polizia che previene, controlla e reprime, anche con il ricorso al terrore organizzato, il dissenso e l'opposizione; 8) un sistema politico ordinato per gerarchie di funzioni nominate dall'alto e sovrastate dalla figura del ''capo'', investito di sacralità carismatica, che comanda, dirige e coordina le attività del partito e del regime; 9) un'organizzazione corporativa dell'economia che sopprime la libertà sindacale, amplia la sfera di intervento dello stato e mira a realizzare, secondo principi tecnocratici e solidaristici, la collaborazione dei ''ceti produttori'' sotto il controllo del regime, per il conseguimento dei suoi fini di potenza, ma preservando la proprietà privata e la divisione delle classi; 10) una politica estera ispirata al mito della potenza e della grandezza nazionale, con obiettivi di espansione imperialista.
L'Europa fra le due guerre fu popolata da movimenti che condividevano o imitavano concezioni, istituti, motivi e atteggiamenti propri della sintesi fascista, avversavano il razionalismo, l'egualitarismo e la concezione progressista delle ideologie democratiche e socialiste, disprezzavano l'individualismo della società borghese liberale e il moderatismo della democrazia parlamentare, esaltavano il culto del ''capo'' e il ruolo delle minoranze attive capaci di mobilitare e plasmare le masse. Nel loro insieme questi movimenti formarono, al di là delle differenze sostanziali che li distinguevano, un fenomeno nuovo, "rivoluzione borghese antiborghese", secondo la pregnante espressione di G. L. Mosse, che caratterizzò la vita politica europea fra le due guerre mondiali ed ebbe seguaci e imitatori anche in altri continenti, proponendosi come una ''terza via'', nazionalista, totalitaria e corporativa, fra capitalismo e comunismo.
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