FATIMITI (arabo Āl Fāṭimah "famiglia di Fātimah" o [alkhulafā'] al-fāṭimiyyah "[i califfi] fatimiti")
Dinastia shī‛ita, che dominò su gran parte dell'Africa settentrionale, dell'Egitto e della Siria dal sec. X al XII.
Sorta nel territorio degli emiri Aghlabiti (v.) per opera di un emissario del movimento degli Isma‛īliti (v.), di nome ‛Ubaidallāh, esso con la caduta degli Aghlabiti, non provocata direttamente da esso, trionfò nel 297 ègira, 910 dopo Cristo. In armonia con le dottrine ismā‛īlitiche, ‛Ubaidallāh affermava di essere l'imām rivelatosi col proposito di ricondurre la comunità islamica alla vera fede e all'unità, le quali dovevano stabilirsi, secondo i principî legittimistici della setta, sotto un califfo discendente da Maometto per mezzo della figlia di lui Fāṭimah (v.), moglie del quarto califfo ‛Alī: di qui il nome assunto dalla dinastia. In pari tempo ‛Ubaidallāh assumeva il titolo di al-Mahdī (v.) "il ben diretto", personaggio nel quale la dottrina shī‛ita riconosceva il restauratore messianico della vera fede, la cui venuta doveva preludere alla fine del mondo. Se la presunta discendenza da ‛Alī e Fāṭimah fosse o no storicamente accertata fu discusso dagli stessi contemporanei, ed è tuttora dubbio: a ogni modo essa fu creduta autentica da un numero grandissimo di seguaci.
Il trionfo completo del movimento fatimita avrebbe dovuto aver luogo, in base ai principî formulati, durante la vita stessa del Mahdī: questi invece, che aveva fissato la propria residenza in una città chiamata dal suo nome al-Mahdiyyah, sul golfo di Gabes, venne a morte (nel 322,934) quando il successo si era solo parzialmente delineato. Tuttavia l'entusiasmo degli adepti non venne meno e gli successe il figlio Muḥammad, che assunse il titolo califfale di al-Qā'im bi-amr Allā "colui che sostiene la causa di Dio" (non, come spesso è inesattamente tradotto, "il sostituto nella causa di Dio"): sotto di lui, e sotto il terzo califfo fatimita, continuarono a svolgersi aspre lotte con gli avversarî, appartenenti ad altre sette religiose ed esprimenti le tendenze separatistiche delle varie stirpi berbere; alcuni dei possedimenti africani andarono perduti (nella stessa Sicilia, in cui al dominio aghlabita si era sostituito quello fatimita, questo fu solo temporaneamente effettivo) ma largo compenso a tali perdite fu la conquista dell'Egitto, dove il califfo ābbaside di Baghdād esercitava soltanto un' autorità nominale, mentre il governo effettivo era tenuto dalla dinastia degli Ikhshīditi. La conquista dell'Egitto, la quale doveva preludere, nelle intenzioni dei Fatimiti, a quella dell'intero oriente musulmano, era già stata tentata senza successo: soltanto al quarto califfo, al-Mu‛izz, riuscì, per mezzo del suo valente generale Giawhar, di compierla definitivamente (358, 969), suggellandola con la solenne fondazione della nuova capitale, Cairo. In tal modo l'Egitto diveniva il centro del nuovo califfato, la cui politica seguitò a svolgersi con grande energia sia all'estero, mirando, come si è detto, all'unificazione dell'intero mondo islamico e in particolare all'abolizione del califfato abbāside, condannato come illegittimo ed eretico, sia all'interno, col proposito di condurre la popolazione, rimasta nella grande maggioranza fedele all'ortodossia sunnita, ad abbracciare il credo shīita. Di qui una serie di persecuzioni, più o meno violente a seconda delle circostanze e del temperamento dei singoli califfi, le quali culminarono sotto al-Ḥākim (v.), singolare figura in cui è ancora dubbio se debba ravvisarsi uno stravagante fanatico o un politico lungimirante. Sotto altri califfi, tuttavia, si ebbero periodi di calma e persino accenni a una tacita conciliazione delle tendenze contrastanti. Il carattere di rigorismo religioso impresso dai Fatimiti alla loro politica ebbe conseguenze gravi anche sulle condizioni dei cristiani e degli ebrei, i quali avevano goduto sino allora di una tolleranza molto superiore a quella che la legislazione religiosa concedeva loro in teoria e, specialmente come funzionarî dell'amministrazione finanziaria, esercitavano un'autorità spesso superiore a quella delle magistrature musulmane. Mentre i primi Fatimiti si mostrarono singolarmente favorevoli verso di essi, probabilmente in antagonismo con la maggioranza ortodossa della popolazione, sotto al-Ḥākim la persecuzione dei non musulmani assunse un carattere aspro.
Al rigorismo religioso fa contrasto (anche in ciò conformemente alla tendenza filosofica della setta ismā‛īlita) un vivo interesse dei Fatimiti per le scienze cosiddette "intellettuali" o "antiche", ossia quelle, come la filosofia, la matematica, la medicina, che facevano capo alla tradizione greca, in contrasto con le scienze derivanti dalla tradizione religiosa. Ad al-Ḥākim è dovuta la fondazione di una grandiosa università (dār al-ḥikmah) con annessa una ricca biblioteca, e gli studî di ogni genere ebbero da lui e dagli altri califfi impulso vigoroso, sì da fare dell'Egitto il centro intellettuale del mondo arabo, posizione che esso conservò anche dopo la caduta della dinastia. Pari all'amore per la scienza fu nei Fatimiti quello per le costruzioni e le arti decorative (v. qui sotto).
La politica d'espansione da essi perseguita, condusse i Fatimiti a occupare, con intervalli più o meno lunghi, buona parte dell'Arabia settentrionale-occidentale, comprese le città sante di Mecca e Medina, e a stabilirsi saldamente in Siria, impadronendosi tra l'altro di Damasco e della Palestina (è noto che in quest'ultima regione essi ostacolarono lo svolgersi dei pellegrinaggi cristiani, suscitando in Europa sdegni e timori che contribuirono al movimento delle crociate). Sennonché il possesso di parte della Siria condusse i Fatimiti a entrare in conflitto coi Bizantini, mentre le varie dinastie autonome della Siria, che riconoscevano l'autorità del califfo di Baghdād, non cessavano di contrastare loro i possessi già conquistati. Più grave si fece la situazione, quando i Selgiuchidi, verso la fine del secolo XI, cominciarono ad affermare la loro potenza in Mesopotamia e in Siria. D'altra parte, le provincie africane e la Sicilia andavano perdute: quelle con la formazione degli stati degli Zayridi e degli Ḥammādidi, questa con la conquista normanna. L'invasione della Cirenaica e della Tripolitania da parte delle tribù arabe stanziate in Egitto dei Benī Sulaim e dei Benī Hilāl (v.), scatenate dai Fatimiti per contrastare il passo ai loro nemici d'Occidente, fu soltanto un diversivo.
Nuova cagione d'indebolimento fu per i Fatimiti la conquista della Palestina da parte dei crociati e le lunghe lotte che ne seguirono, in conseguenza delle quali i Fatimiti perdettero quasi interamente i loro possessi in Siria. Frattanto anche la compagine del loro esercito, composto in origine di truppe berbere, andava modificandosi con l'assunzione di mercenarî negri e turchi, i cui capi finirono (col fenomeno del pretorianismo abituale negli stati musulmani) col diventare i veri arbitri dello stato. Le condizioni precarie in cui i Fatimiti vennero a trovarsi li indussero a ricorrere all'aiuto dell'atābeg Nūrad-dīn di Damasco (questa città era andata per loro perduta fino dal 468, 1076), che inviò in Egitto il suo generale curdo Shīrkū per combattere la minaccia dei crociati sullo stesso terriritorio egiziano. Ma questo intervento fu loro fatale: il nipote e successore di Shīrkū, Saladino, mentre sconfiggeva i crociati, abbatteva la dinastia indebolita (567, 1171) e, forte anche del favore del popolo conservatosi fedele all'ortodossia, restituiva formalmente l'Egitto al califfato di Baghdād, facendosene in effetto sovrano e inaugurando la nuova dinastia degli Ayyūbidi (v.).
Califfi fatimiti (noti generalmente sotto il loro titolo onorifico): ‛Ubaidallāh al-Mahdī (297-322 èg.; 909-934 d. C.); Muḥammad alQā'im (322-334: 934-945); Isma‛īl al-Manṣūr (334-341: 945-952); Ma‛add al-Mu‛izz (341-365: 952-975); Nizār al-‛Azīz (365-386: 975-996); al-Manṣūr al-Ḥākim (386-411: 996-1020); ‛Alī aẓ-Ẓāhir (411-427: 1020-1035); Ma‛add- al-Mustanṣir (427-487: 1035-1094); Aḥmad al-Musta‛lī (487-495: 1094-1101); al-Manṣūr al-Āmir (495-524: 1101-1130); ‛Abd al-Magīd al-Hāfiẓ (524-544: 1130-1149); Ismā‛īl aẓ-Ẓāfir (544-549: 1149-1154); ‛Īsà al-Fā'iz (549-555: 1154-1160); ‛Abdallāh al-‛Āḍid (555-567: 1160-1171).
L'arte Fatimita. - Monumenti architettonici di stile fatimita sì trovano quasi esclusivamente nel Cairo (moschee di al-Azhar, 970-72, al-Ḥākim, 990-1003, Giyūshī 1085, al-Aqmar 1125, Ṣālih Ṭala'i‛ 1160; v. cairo). Della fase iniziale, prima della conquista dell'Egitto, rimangono solo i resti della moschea di al-Mahdiyyah (Tunisia). Ma l'influsso fatimita si nota pure nei monumenti contemporanei dell'Algeria (v. qal‛ah benī ḥammād) e della Sicilia (v. palermo). L'impiego della pietra come materiale da costruzione, l'accentuazione delle facciate e l'introduzione del motivo delle stalattiti sono caratteristiche dell'architettura fatimita. Le parti decorative degli edifizî tanto religiosi quanto profani si eseguivano in pietra, stucco e legno: la nicchia del miḥrāb specialmente era spesso lavorata in legno scolpito (cfr. esempî di miḥrāb "portatili" nel Museo arabo del Cairo). Non rimangono avanzi delle pitture parietali menzionate dagli autori arabi, ma si riconosce la scuola fatimita nelle pitture del soffitto della Cappella Palatina in Palermo. L'epigrafia monumentale è puramente cufica; il naskhī apparisce solo in certi oggetti d'arte del secolo XII. Nell'ornamentazione profana c'è una predilezione per i motivi animali; la tolleranza manifestatavi è forse da mettere in rapporto col fatto che i Fatimiti erano sciiti e con le amichevoli relazioni da loro tenute coi loro correligionarî persiani. Animali iscritti in cerchi o in processione su fondo d'arabeschi, si incontrano dappertutto nelle arti minori di quel periodo, ma non sono rare neppure le figure umane, in genere bene osservate ma stilizzate a scopo decorativo (musicanti, ballerine, cavalieri, cacciatori, ecc.).
Fra le tecniche artistiche si distinguono anzitutto i lavori in cristallo di rocca (vasellame, pezzi per scacchi, impugnature, ecc.), unici in quell'epoca e molto apprezzati anche nel mondo cristiano con intagli ornamentali e figure d'animali. Nell'arte del vetro si continuarono e si perfezionarono i procedimenti dell'antichità, arricchendoli di nuove forme.
I ceramisti del Cairo eccellono nella produzione di maioliche a riflesso metallico, anteriori a quelle famose della Spagna e della Persia. Caratteristico per l'epoca è pure il vasellame di bronzo cesellato: acquamanili e incensieri fusi spesso a forma d'uccelli o di quadrupedi; il celebre grifone del Camposanto di Pisa è l'esempio più imponente di questa decorazione plastica. La scultura a rilievo fu usata con molta abilità sui cofanetti di legno o d'avorio, specie con rappresentazioni umane.
Finalmente bisogna ricordare l'importanza dell'arte tessile, organizzata in manifatture pubbliche (ṭirāz al-‛āmmah) e auliche (ṭirāz al-khāṣṣah), esistenti in parecchie città dell'Egitto e in fiore durante tutto il periodo fatimita. Si fabbricavano, continuando le tradizioni copte, anzitutto stoffe di lino, finissime spesso, con fregi di seta in lavoro di arazzo; e si conservano molti frammenti di tali tessuti con iscrizioni dedicatorie al sovrano regnante, oltre ai motivi tipici del periodo. Altre stoffe erano ricamate con seta o stampate con matrici di legno. Sono rarissimi i manoscritti fatimiti, e non si conoscono affatto esempî dell'arte della miniatura che doveva fiorire al Cairo nei secoli XI e XII. (V. tavv. CXLIX-CLIV).
Bibl.: Per la storia, v. E. Graefe, in Encyclopédie de l'Islam, II, pp. 92-96 e la bibl. delle voci arabi: Storia; egitto. Per l'arte, oltre la bibl. di cairo, v. M. Herz Bey, Catalogue du musée de l'art arabe, Cairo 1907; S. Flury, Die Ornamente der Hakim- und Azharmoschee, Heidelberg 1912; Aly Bahgat e Massoul, La céramique égypt. de l'époque musulmane, Basilea 1922, Cairo 1930; U. Tarchi, L'architettura e l'arte musulmana in Egitto, Torino 1922; E. Kühnel, Islam. Stoffe aus ägypt. Gräbern, Berlino 1927; G. Migeon, Man. d'art. musulman: Arts plastiques et industriels, 2ª ed., Parigi 1927; E. Kühnel, Der fatimit. Stil, in A. Springer, Handb. d. Kunstgesch., VI, Lipsia 1929, pp. 400-14.