fato
Nozione solitamente definita in correlazione o in contrapposizione a quelle di provvidenza, destino, libertà, determinismo; tuttavia, il precisarsi del concetto di f. come preordinamento irrevocabile di una serie di cause che racchiuda e determini in modo completo il compiersi di qualunque ordine di eventi, risulta da una complessa elaborazione storica mediante la quale sono venuti distinguendosi aspetti che la nozione, quale è posta inizialmente nel pensiero stoico, e segnatamente in Zenone (Inno a Zeus), non differenzia ancora. Il concetto stoico di εἰμαρμένη infatti esprime una connessione fra causalità e regolarità necessaria, mediante la quale si producono gli eventi, che implica, al tempo stesso, l’immanente provvidenza (πρόνοια) divina. F. e provvidenza sono cioè concepiti in modo unitario, non in opposizione. La nozione di provvidenza, infatti, non si riferisce a un intervento trascendente nell’ordine necessario della realtà (che nell’ottica cristiana può essere motivato anche dalla preghiera dell’uomo), ma a un principio interno alla realtà. La resa latina con il termine providentia, presente, per es., negli scritti di Cicerone o di Seneca, va intesa come «pre-vedere», piuttosto che come «pro-(v)vedere»; lo slittamento verso questa seconda accezione si attua in relazione a temi medioplatonici e plotiniani (Enneadi, III, 2-3), e soprattutto alle problematiche cristiane legate, altresì, alla questione del destino personale.
Nel pensiero stoico il concetto di f. permette di presentare il prodursi o determinarsi degli eventi secondo una prospettiva diversa da quella della causalità aristotelica (incentrata sul passaggio dalla potenza all’atto), ossia come necessario prodursi di tutte le vicissitudini che connotano il cosmo in quanto essere vivente, nel quale il divino è presente come «pneuma» e razionalità vivificante. Da ciò deriva il determinarsi degli eventi futuri e finanche la possibilità della loro pre-conoscenza mediante le tecniche divinatorie della mantica e dell’astrologia (di cui appunto il concetto di f. costituisce il fondamento). Questo è anche il quadro che viene tracciato, con accenti di sferzante polemica, nel De divinatione e nel De fato di Cicerone. Già Crisippo, tuttavia, che è fra i rappresentanti maggiori dello stoicismo, amplia la trattazione del problema della causalità intesa in senso deterministico, recuperando margini di contingenza all’agire umano, mediante l’introduzione, accanto alle cause «coessenziali», o perfette (συνεκτικαί), delle cause «incoative» (προκαταρτικαί), intese come presupposti necessari perché un evento ‘possa’ prodursi, ma non del fatto che esso effettivamente si produca. La ragione universale regge il cosmo mediante diversi ordini di cause, in tal modo il f. può essere causa anche in senso «incoativo» o «porcatartico», ossia non necessario, senza che la connessione causale venga contraddetta. Il problema dell’armonizzazione fra f. e libertà dell’uomo è affrontato da Cicerone e da Alessandro di Afrodisia (il quale muove da un’ottica aristotelica). Cicerone ricorre all’argomento del «ragionamento pigro» (ἀργὸς λόγος): se si è malati è inutile ricorrere al medico poiché il decorso del male è già stabilito dal f. (Cicerone, De fato, 12-13). Alessandro di Afrodisia discute, sulla base di Aristotele (De interpretatione, 9), se l’espressione «domani ci sarà la battaglia» possa essere già oggi necessariamente vera o falsa, quanto alle cause che la produrranno (De fato, 8-11). Sia Cicerone (De fato, 17) sia Alessandro di Afrodisia (De fato, 22) o anche, da diversa prospettiva, Seneca (Naturales quaestiones, II, 38), adottano soluzioni che contemplano la possibilità per l’uomo di adottare comportamenti liberi, seppure riconducibili, quali ‘concause’, al generale concatenarsi delle cause. Agostino polemizza contro il f. (esemplato dal f. astrologico) nel De civitate Dei (V, 1-7), e nelle Confessioni (IV, 4; VI, 6). Le sue tesi costituiranno riferimenti fondamentali per le discussioni legate alla libertà dell’uomo durante il Medioevo e ancora durante la Riforma, allorché si porrà la questione del libero arbitrio. Si tratta di temi in cui confluisce anche il dibattito sulla prescienza divina che attraversa tutto il Medioevo intrecciandosi nei secc. 13° e 14° nelle protratte polemiche sui ‘futuri contingenti’, ossia sul darsi, e in quale misura, della contingenza negli eventi futuri. Temi legati al f. in prospettiva più marcatamente cosmologica sono discussi nel Medioevo anche sulla base del Commento al Timeo di Calcidio (CXLI-CLXIV), ove viene ampiamente stabilita la dottrina del f. come sottomesso e contenuto all’interno della provvidenza divina (anche in relazione all’anima del mondo, che ne costituirebbe uno degli aspetti). Il termine f. è utilizzato anche da Tommaso per indicare il complesso delle cause finite preordinate, per il conseguimento di un dato effetto, da Dio, il quale, nella sua onnipotenza, è però libero di agire quando e come la sua sapienza ritiene opportuno.
Il problema del f. tornerà a essere discusso in ambito aristotelico, e autonomamente dal trattamento teologico delle questioni che vi sono connesse, negli ambienti dell’aristotelismo padovano e principalmente da Pomponazzi (Libri quinque de fato, de libero arbitrio et de praedestinatione, post., 1557; trad. it. Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione), il quale, recuperando le posizioni di Alessandro di Afrodisia (ma tenendo presenti anche temi ciceroniani e tutto l’ampio dibattito svoltosi fin dall’antichità), si pronuncia a favore di una tesi moderatamente fatalista in cui il riconoscimento degli ambiti entro i quali si danno comportamenti liberi e volontari dell’uomo, non attiene, e anzi è incompatibile con i problemi legati ai dibattiti teologici sulla prescienza divina e sul libero arbitrio. Nel sec. 17° il libertino erudito Naudé raccoglie nel testo sul f. che pubblica nel 1639 il precipitato della discussione epistolare alla quale il medico olandese J. van Beverwyck aveva sollecitato i dotti europei «de vitae termino fatali an mobili?» ossia attorno al tema se il termine della vita fosse fatalmente decretato o mutevole, tale testo documenta il persistere dei problemi legati al f. in un contesto culturale estraneo alle prospettive religiose e teologiche istituzionali. Nella concezione di Spinoza il f. è concatenazione delle cause e ordine necessario dell’intera natura; in quanto necessità universale esso non è più concepito in opposizione, ma come coincidente con la libertà nella sostanza unica che è Dio (cfr. Etica I, prop. 33, scolio 2). È in polemica con le tesi necessitariste che Leibniz tratta il problema del f. nella Teodicea (I, 55 segg.) distinguendo il f. «maomettano», ossia la concezione esemplata dall’argomento del «ragionamento pigro», dal f. inteso (in senso stoico) come concatenazione causale che non impedisce di determinarsi a compiere il proprio volere secondo ragione. L’antinomia fra predeterminazione e libertà viene risolta in base al principio dell’armonia stabilita. Leibniz, che richiama il dibattito epistolare lanciato da Beverwyck nel 1634, mostra un atteggiamento di non-ostilità nei confronti della concezione stoica del f. inteso come concatenazione causale degli eventi in base al disegno razionale divino (pur se lo reinterpreta nella prospettiva dell’armonia prestabilita). Tale apertura, che sembra in certa misura reintegrare la ‘predeterminazione’, origina una polemica nella quale viene coinvolto Wolff, seguace ed espositore sistematico della filosofia di Leibniz, accusato dal teologo J. Lange (1725) di sostenere, appunto, nella sua metafisica, una concezione fatalista di tipo stoico («fatalis necessitatis») assimilabile al necessitarismo di Spinoza. Da tale accusa Wolff si difende distinguendo la «necessità geometrica» o «metafisica» di Spinoza dal «nexus rerum sapiens» implicata dalla sua metafisica (cfr. Annotazioni alla ‘Metafisica tedesca’, 1724; §§ 18; 173; 190; 375; 391; Theologia naturalis, Pars posterior, 1737; §§ 528; 709). Kant, nella sezione dedicata ai postulati del pensiero empirico in generale della Critica della ragion pura (Analitica trascendentale, lib. II, cap. II, sez. III) riconosce le proposizioni «nulla avviene per un cieco caso (in mundo non datur casus)» e «nella natura non c’è necessità cieca, ma condizionata, quindi intelligibile (non datur fatum)» come leggi a priori della natura. Esse potrebbero anzi essere rappresentate come principi di origine trascendentale. In tal modo al caso non si contrappone il f., ma la necessità condizionale, ipotetica, ossia l’esistenza degli effetti da cause date, secondo leggi. La necessità del reale è cioè espressa dalla legge dell’esperienza possibile in base alla quale tutto quel che accade è «determinato a priori nel fenomeno» dalla sua causa. In ambito morale, l’alternativa fra necessità e libertà, è superata dal fatto che il determinismo, la necessità che vige nella natura è superata attraverso la libertà postulata dal soggetto trascendentale in relazione all’agire. Dopo Kant, è Nietzsche, con la ripresa di temi stoici quali quello dell’‘eterno ritorno’ e del fatalismo stoico, a recuperare la nozione di f. e a parlare di «amor fati» come unico atteggiamento lecito per l’uomo, nel 1° libro della Volontà di potenza.