FAUSTI, Bonifazio, detto il Montolmo
Nacque a Montolmo (o Mont'Olmo, poi Pausula, infine, oggi, Corridonia, in provincia di Macerata) intorno al 1576, da una famiglia di buona condizione sociale, a cui appartennero in quel tempo vari esponenti dell'Ordine francescano, tra i quali un Fausto Fausti, apprezzato quaresimalista, che ritornò nel paese natio verso il 1590, dopo essere stato tra l'altro guardiano del convento di Firenze. Da costui il F. apprese i primi rudimenti dell'oratoria sacra, che più tardi approfondì a Castelfidardo, presso Agostino Cassandri.
Entrato tra i minori conventuali, egli compì gli studi teologici fino al conseguimento della laurea nel 1599; successivamente cominciò la sua attività di predicatore e quaresimalista, che svolse in quasi tutte le più importanti città , italiane. E in questo esercizio non gli dovettero mancare plausi e ammirazione, se è vero che le sue prestazioni venivano richieste con largo anticipo e richiamavano i fedeli come a uno spettacolo lungamente atteso. Per due volte reggente dello Studio di Milano (dal 1602 con Francesco da San Marino e dal 1605 con Michelangelo Calcagnini) e più tardi della cattedra di Bologna (nel 1608 assieme con Prospero Cicconi), il F. fu tuttavia considerato un oratore facondo ma non dottissimo, "eccellente", secondo il Franchini (p. 141), nel "genere deliberativo, giudiciale e didascalico", ma non in quello "demonstrativo".
Il giudizio sulla sua attività risente del mutamento di tendenze verificatosi nell'oratoria sacra con la diffusione del concettismo. Il F., dal Lancellotti (p. 186) annoverato tra i seguaci di F. Panigarola, fu ritenuto dal Tesauro un epigono della vecchia scuola, in cui si era pure distinto il Bitonto (Cornelio Musso), che nel Trattato de' concetti predicabili (Il cannocchiale aristotelico) era biasimato per l'impropria mescolanza "di argomenti infiniti, alti e bassi" (p. 330), e l'affastellamento delle "citazioni più di Scrittura che di Scritturali" (p. 331). Da questo stile "più diffuso che luminoso", incapace di utilizzare le "figure" e i "simboli" disseminati nei testi sacri con "applicazioni" "acute e inopinate", il F. si sarebbe più tardi allontanato; e abbandonando la fluviale verbosità dei troppo austeri predicatori del tardo Cinquecento, avrebbe assunto a modello della sua oratoria gli "Spagnuoli", che attraverso Napoli avevano introdotto in Italia i "concetti predicabili", vale a dire la "novella maniera d'insegnar dilettando e dilettare insegnando" per mezzo di "argomenti ingegnosi" (p. 331). E lo stesso F. avrebbe confessato al Tesauro di avere "grandi obligazioni a' predicatori napoletani, i quali gli aveano insegnato a predicare con maggior diletto del popolo senza sudare" (p. 332).
Indicato da G. G. Sbaraglia (p. 195) come autore di Quadrigesimales conciones, che dovevano restare inedite, forse perché affidate alla forza dell'actio più che all'originalità delle argomentazioni, il F. assecondò tuttavia l'evolversi del gusto celebrativo e agiografico della Controriforma, cimentandosi anche nella composizione di panegirici, il genere più adatto a mostrare l'arguzia dell'invenzione e a suscitare l'adesione ammirata degli spettatori intelligenti. E di certo egli dovette riscuotere non poco successo anche in questo tipo di oratoria (che annoverava prediche in lode di s. Luigi Gonzaga, del S. Chiodo di Milano, della S. Sindone), se a Bologna nel 1611 in occasione delle feste in onore di Ignazio di Loyola venne pure incaricato di celebrare il fondatore dell'Ordine dei gesuiti.
Forma di panegirico ha pure l'orazione "recitata" nel duomo di Milano il 4 nov. 1604 (Oratione in lode del card. Carlo Borromeo, Milano 1605), in cui il F. celebra un grande protagonista della "pietà" controriformistica come il cardinale Borromeo, quando ne era stato già avviato il processo di canonizzazione. Anche in questa circostanza, comunque, egli si dichiara "ritroso e contradicente" alla pubblicazione della sua opera, che nel passaggio dalla parola alla scrittura, gli appariva devitalizzata della sua forza declamatoria. Non certo grandi erano del resto le risorse retoriche e dottrinarie del F., il quale vuol dimostrare che solo l'esercizio di tutte le virtù può formare un "uorno heroico" e che anche la mancanza di una sola esclude il possesso delle altre. La rappresentazione di Carlo come "degnissimo heroe" della santità cristiana è il nucleo argomentativo centrale dell'orazione; e attorno a questo assunto ruotano similitudini e analogie, sottili metafore e concettose argutezze. Per mantenere alto il dettato oratorio, il F. non ricorre all'aneddotica minuta, ma mira a definire quegli archetipi comportamentali che possono essere consoni all'eminenza della figura e alla nobiltà di una storia "sacra" cittadina, di cui il cardinale è visto come fervoroso continuatore. Lusinghevole verso la città che ha dato i natali al Borromeo (pur se ne viene ricordato il traviamento per esaltare l'azione redentrice del suo illustre figlio), il F. fa culminare la sua inventio nel parallelo tra Ambrogio, fondatore della Chiesa milanese, e Carlo, che con la sua azione pastorale ne ha ripetuto gesta e iniziative. Sempre solenne, fin dal divagante e retoricamente sostenuto incipit, il panegirico si inarca tuttavia verso il sublime soprattutto nel suo explicit, quando il F., fondendo il fasto celebrativo del trionfante cattolicesimo tridentino con lo splendore delle usanze marziali romane, invita i Milanesi a decorare con una lunga serie di corone ("civica", "castrense", "murale", "obsidionale", "ovale", "trionfale", "laureale", "militare", etc.) il loro santo campione, per il quale vengono finalmente "ritrovati" attributi e qualifiche che ne devono fissare la grandezza e promuovere il culto e la devozione dei fedeli con quel brillio dell'intelligenza analogica, che rivela l'appartenenza del F. alla nuova civiltà barocca.
Ammirato dalle folle, protetto e remunerato dai potenti (come il vicerè di Napoli, duca di Ossuna, o il duca di Savoia che gli offerse un vescovado), il F. mise la propria eloquenza anche al servizio temporale della Chiesa; e infatti fu inviato in missione in Francia da Paolo V, mentre Urbano VIII lo mandò al seguito del padre Franceschini ad Urbino, in una legazione che doveva trattare l'anticipato passaggio di quel Ducato alla S. Sede. Essendo stato ostacolato dal presidente del capitolo di Iesi del 1616 nell'elezione a provinciale del Piceno, il F. aveva poi rifiutato di recarsi a predicare a Malta. Predicò invece nel 1628 ad Assisi, dove, colto da febbri il giorno del venerdì santo (21 aprile), di lì a poco morì.
Oltre all'orazione in lode del Borromeo, del F. venne pubblicato anche il panegirico in onore di s. Ignazio (Bologna 1611), pronunciato nella chiesa di S. Petronio.
Fonti e Bibl.: S. Lancellotti, L'hoggidì overo Gl'ingegni non inferiori a' passati, Venetia 1646, II, p. 186; L. Wadding, Scriptores Ordinis minoris [1650], Romae 1906, p. 60; E. Tesauro, Il cannocchiale aristotelico, Venetia 1674, pp. 331 s.; G. Franchini, Bibliosofia e memorie letterarie di scrittori francescani conventuali ch'hanno scritto dopo l'anno 1585, Modena 1693, pp. 133-141; G. Colucci, B. F. da Monte dell'Olmo, in Delle antichita picene, Fermo 1791, XIII, p. XIV; G. G. Sbaraglia, Supplementum et castigatio ad scriptores trium Ordinum S. Francisci a Waddingo, aliisve descriptos (1806), I, Romae 1908, p. 195; P. Bartolazzi, Montolmo, Pausula 1887, pp. 178 s.; G. Natali, Letterati e artisti pausulani, in Nel I centenario della morte di L. Lanzi, in Atti e mem. della R. Deputaz. di storia patria per le Marche, n. s., VI (1910), pp. 120 ss.; M. Zanardi, Sulla genesi del "Cannocchiale aristotelico", in Studi secenteschi, XXIII (1982), p. 43.