CAFFARELLI, Fausto
Della nobile famiglia romana dei Caffarelli, nacque probabilmente nel marzo del 1595 da Alessandro (conservatore di Roma nel 1608, militò successivamente nell'esercito spagnolo) e da Pantasilea (Panta) di Tiberio Astalli.
Conclusi i suoi studi nel 1616 con il dottorato inutroque, entrò al servizio della Curia. Il C. godeva della protezione del potente cardinal nepote di Paolo V, Scipione Caffarelli-Borgliese (pur appartenendo egli ad un altro ramo della famiglia Caffarelli), per cui aveva buone prospettive di una rapida ascesa nella carriera ecclesiastica. Fu subito nominato, con motu proprio del 1º genn. 1617, advocatus consistorialis, e precisamente alla carica che, dopo che Clemente VIII aveva annesso il ducato di Ferrara, era in effetti riservata ad un ferrarese. Ci sono note due occasioni in cui il C. comparve nella sua qualità di avvocato concistoriale: al pubblico concistoro celebrato il 5 maggio 1620 per ricevere l'ambasciata di obbedienza dell'imperatore Ferdinando II, e il 27 genn. 1622 ad un concistoro preliminare a una canonizzazione. Successivamente - nel 1622 o in data anteriore - fu nominato all'ufficio di referendarius utriusque Signaturae.Fu inoltre, dal 14 giugno 1621 al 1º luglio 1624, vicario del capitolo di S. Pietro, quale rappresentante di Scipione Borghese, che ai suoi molti uffici aveva aggiunto ancora nell'ultimo anno di vita di Paolo V quello di arciprete della basilica vaticana. In questi anni il C. risiedeva in uno dei palazzi della sua famiglia "in regione S.ti Eustachii, via Papae", l'odierna via del Sudario, come si deduce dalla datazione dei suoi atti ufficiali.
Poco dopo l'assunzione di Urbano VIII alla cattedra pontificia (1623) il C. fu nominato in concistoro, il 29 genn. 1624, arcivescovo di Santa Severina, per cui dovette allontanarsi dalla Curia romana. Poiché il C. aveva conseguito soltanto nello stesso mese gli ordini maggiori, fu necessaria una dispensa "super eo, quod non est in sacris ordinibus ante sex menses constitutus", ed inoltre un'altra per l'età ("super defectu 14 mensium a 30 annis"). Fu consacrato vescovo il 12 marzo 1624 dal cardinale Borghese e il 18 marzo ricevette il pallio. Sin dal 3 gennaio si era dimesso dalla sua carica di avvocato concistoriale.
Il C. giunse nel piccolo arcivescovato calabrese di Santa Severina il 6 giugno e qui trascorse i successivi dieci anni. Ma la grande distanza che separava la sua sede arcivescovile da qualsiasi centro di attività politica, il forte contrasto con le condizioni di vita cui era abituato, e certamente anche il desiderio di avanzare ulteriormente nella carriera ecclesiastica lo spinsero dopo pochi anni a manifestare il desiderio di poter tornare al servizio della Curia.
Nelle lettere che scriveva a Francesco Barberini, cardinal nepote di Urbano VIII, il C. ricordava spesso di essere disposto ad accettare un ufficio al servizio papale intendendo con ciò, presumibilmente, una nunziatura. Alla richiesta di donazioni rivolta ai vescovi da Urbano VIII nella grave crisi finanziaria del 1630il C. rispose inviando un regalo in danaro, anch'esso però accompagnato dalla richiesta di essere tenuto in considerazione in caso vi fosse da provvedere a un ufficio adatto a lui.
Nel 1634 il suo desiderio fu finalmente esaudito ed egli ottenne la nunziatura di Savoia. Il 24 maggio il C., insieme con Malatesta Baglioni nominato nunzio presso la corte imperiale, fu ricevuto tra gli assistenti pontifici nel corso di una solenne cerimonia religiosa vespertina nella cappella del Quirinale alla vigilia dell'Ascensione; il 17 e il 20 giugno furono emanati i brevi che gli conferivano i poteri di nunzio, e il 30 luglio il breve al duca Vittorio Amedeo 1 con la comunicazione ufficiale della nomina del Caffarelli. Il C. giunse a Torino, sua nuova sede, il 30 ottobre; il suo predecessore Alessandro Castracani vi rimase fino al 10 dicembre per introdurlo agli affari correnti.
Il C. assumeva la nunziatura in una situazione che si presentava oltremodo difficile. Numerosi conflitti di politica ecclesiastica, oltre che rancori personali, avevano teso fino ad un grado non più tollerabile i rapporti del duca col Castracani. Benché Roma gli inviasse istruzioni generalmente intese al raggiungimento di un accordo pacifico col governo ducale, fu difficile al C., inesperto negli affari diplomatici, stabilire rapporti di fiducia con la corte, avendo egli ereditato dal suo predecessore oltre a numerose dispute non risolte, anche la decisa antipatia del duca.
I contrasti che nel 1634avevano tanto acuito la tensione tra il governo ducale e il diplomatico pontificio erano di natura diversa. Più profondi e più difficili a risolvere erano indubbiammte i contrasti concernenti la giurisdizione ecclesiastica, soprattutto quella degli inquisitori, che covavano sin dai tempi di Carlo Emanuele I. A questi erano seguiti i tentativi statali di porre limiti all'immunità fiscale delle proprietà fondiarie della Chiesa in modo da escluderne quelle acquisite in tempi recenti, spesso solo nominalmentetrasferite alla Chiesa al fine di non pagare le tasse. Da tempo il vescovo di Vercelli, Giacomo Goria, si era reso odioso per la sua rude e bellicosa difesa dei privilegi della Chiesa, tanto che il duca era deciso ad ottenerne l'allontanamento dal vescovato. Negli ultimi tempi la questione aveva poi assunto un aspetto nuovo: mentre Vittorio Amedeo soggiaceva sempre di più all'influenza francese, il Goria, la cui diocesi si estendeva anche a territori nel Ducato di Milano, era considerato partigiano degli Spagnoli, aveva depositato il suo patrimonio a Milano e rifiutava di fornire informazioni militari al duca. Questi aveva già deciso di procedere con la forza contro il vescovo, quando l'ordine di intraprendere il viaggio ad limina, giunto improvvisamente al vescovo da Roma, salvò temporaneamente la situazione.
L'affare del vescovo Del Verme aveva aspetti più personali. Questi aveva lasciato, con autorizzazione pontificia, i suoi vescovati di Ravello e Scala nel Regno di Napoli, per regolare con Vittorio Amedeo una questione di eredità di casa Savoia; ma a Torino aveva ben presto saputo conquistarsi la particolare fiducia del duca sino a diventarne uno dei principali consiglieri politici. Poiché alla corte molti guardavano con sospetto al crescente prestigio di Del Verme, e ne desideravano l'allontanamento - tra questi anche la duchessa e l'ambasciatore francese - era inevitabile che la perentoria ingiunzione, inviata nel 1634al vescovo da Roma, di ritornare alla sua sede episcopale pena la scomunica apparisse frutto di un intrigo. Vittorio Amedeo interpretò il richiamo come un affronto personale, di cui attribuiva la responsabilità al Castracani, e trattenne presso di sé il Del Verme.
Alla fine dello stesso anno poi vi fu un ulteriore peggioramento dei rapporti, provocato dalla scoperta di un complotto per spodestare il presidente delle Finanze Cauda, in cui era implicato anche l'inquisitore di Torino. Una donna, presunta ossessa, aveva asserito che il Cauda aveva stretto alleanza col diavolo, e l'inquisitore, in base a questa testimonianza, voleva procedere contro il Cauda. Smascherata l'impostura, l'inquisitore fu posto agli arresti domiciliari, per cui il Castracani protestò energicamente contro questa violazione dell'immunità ecclesiastica. Le difficoltà connesse con la costituzione di una corte ecclesiastica accettabile anche dal duca, per il processo contro l'inquisitore, dovevano trascinarsi ancora per anni.
Infine, a questi problemi non risolti si aggiungevano anche dispute per questioni protocollari di precedenza, condotte con grande caparbietà. Il duca desiderava che il cerimoniale pontificio equiparasse i suoi rappresentanti a quelli della Repubblica di Venezia, per cui chiedeva per loro il titolo di eccellenza e che fossero ricevuti nella sala regia come i Veneziani. Il titolo di re di Cipro assunto dal duca nel 1633 non comportava però una simile elevazione di rango; purtuttavia egli continuava a ricercare occasioni utili per raggiungere il suo scopo. Questa fu la ragione per cui una questione di precedenza, che il C. tentò di dirimere sin dall'inizio della sua minziatura, quasi portò alla rottura delle relazioni con Roma. Il C. considerò offensivo il nuovo cerimoniale introdotto da Vittorio Amedeo per la cappella ducale, che assegnava ai cavalieri dell'Annunziata i posti entro il recinto del coro, ed agli ambasciatori quelli, un gradino più in basso, in chiesa. Ciò rappresentava una violazione della prassi fino ad allora vigente, ma era confonne agli statuti dell'Ordine. Ritenendo suo dovere opporsi alla innovazione, il C. non assistette alla messa natalizia. La reazione del duca fu assai veemente: egli ordinò al suo ambasciatore a Roma di non partecipare più alle cappelle papali ed alle udienze, e per molto tempo non ricevette più il Caffarelli. Era chiaro che il duca inaspriva consapevolmente il conflitto per poter chiedere, come prezzo di un successivo riavvicinamento, la sala regia. Roma, però, che voleva decisamente evitare tutto quanto potesse approfondire il contrasto, diede istruzione al C. di rassegnarsi all'ordine di precedenza della cappella ducale, e gli inviò il parere del maestro delle cerimonie pontificio Alaleone, che dichiarava onorevole il posto assegnato al nunzio. Purtuttavia il C. dovette attendere il giorno dell'Ascensione dell'anno 1635 per essere di nuovo ammesso alla cappella ducale.
Questo affare contribuì notevolmente a rafforzare l'avversione di Vittorio Amedeo per il nunzio. Fulvio Testi, che aveva visitato Torino nel marzo del 1635, riferisce che il duca si era lamentato amaramente dei nunzi, soprattutto del Caffarelli. I rimproveri più gravi non erano, ovviamente, indirizzati al C. personalmente, ma investivano l'opposizione della Chiesa contro le esazioni fiscali e gli annessi conflitti giurisdizionali. Per quanto riguardava il C. stesso, il duca l'accusava di avere incitato i suoi sudditi ad entrare al servizio di altri principi, di avere arrecato, con il contatto diiprecedenza, pregiudizio ai suoi rapporti col pontefice, di avere intercettato ed aperto lettere indirizzate al vescovo Del Verme ed allo stesso duca. Egli non ne aveva ancora le prove, ma stava raccogliendo con cura tutto quanto potesse essere prodotto contro il C. per poterne chiedere il richiamo al momento opportuno.
In tale situazione è comprensibile che il C. abbia esitato a comunicare a Vittorio Amedeo che il S. Uffizio aveva decretato contro di lui censure ecclesiastiche per l'imprigionamento tuttora in atto dell'inquisitore, e incaricato il C. di impartirgli l'assoluzione. Quando il nunzio finalmente si decise a tale passo, il mercoledì della settimana santa, Vittorio Amedeo si adirò violentemente, non permise al nunzio di concludere il suo dire, e asserì di ritenere che si trattava di una maliziosa invenzione dello stesso Caffarelli.
Contemporaneamente fece presentare al papa le sue proteste contro il nunzio. Invero, egli mitigò successivamente il proprio atteggiamento, spiegando il suo accesso d'ira col fatto che ignorava che il C. doveva non solo comunicargli il decreto del S. Uffizio, ma anche impartirgli l'assoluzione.
Anche nell'affare del vescovo di Vercelli insorsero nuove difficoltà. Questi era ritornato dal suo viaggio a Roma, ma Vittorio Amedeo gli vietò i suoi Stati, per cui egli stabilì la sua residenza in località appartenenti al suo vescovato ma site in territorio milanese, vicine al confine. Qui fu raggiunto ben presto da un nipote, da lui istituito suo vicario generale a Vercelli, ma anch'egli espulso dal duca. Allora la questione della nomina di un altro sostituto del Goria rese necessarie nuove interminabili trattative. Mentre Vittorio Amedeo chiedeva al papa la nomina di un vicario generale indipendente dal Goria, minacciando in caso contrario di procedere egli stesso alla nomina, Roma dava istruzione al C. di chiedere al vescovo di nominare di sua propria iniziativa un sostituto che fosse ben accetto al duqa. Ma tutti e quattro i candidati successivamente proposti dal vescovo furono ricusati, sicché alla fine lo stesso C. procedette alla nomina di un vicario generale non appartenente all'entourage del Goria. Il Goria non concesse però a questo l'ufficio, che voleva conservare vacante per il nipote; a tale scopo egli voleva incaricarne solo temporaneamente un provicario. Infine il sostituto nominato dal C. ottenne, con questa restrizione, anche la nomina pontificia. Il Goria fu autorizzato ad allontanarsi dal suo vescovato, e si ritirò a Milano.
L'affare del vescovo Del Verme comportava conflitti ben più gravi. Era evidente che questi voleva eludere ad ogni costo il suo ritorno in sede. Pretestava motivi che cambiava di volta in volta: si diceva malato, ma asseriva anche di temere di essere perseguitato dagli Spagnoli per la sua attività politica; si riteneva minacciato di tradimento anche a Roma. Non considerava sufficienti le garanzie offertegli in proposito dal Barberini. I rapporti del C. erano assai sfavorevoli al Del Verme: egli considerava le sue malattie di scarsa entità, e giudicava negativa la sua influenza sul duca. Quando, nel maggio del 1635, Del Verme venne citato a presentarsi a Roma dinanzi all'uditore della Camera, il duca ne attribuì la responsabilità al C. e fece nuovamente presentare le sue proteste contro il nunzio. Il duca rifiutava recisamente di concedere al vescovo l'autorizzazione a partire, ritenendo che proprio la citazione a Roma dimostrasse fino a dove giungeva il potere dei suoi nemici. Successivamente ammise che il rifiuto era dovuto anche ad un altro motivo: il Del Verme era a conoscenza della sua politica segreta, e perciò non se ne poteva separare. L'interdetto contro il Del Verme giunse al C. in novembre; inizialmente esitò a pubblicarlo, perché sembrava che la minaccia dell'interdetto e la garanzia per la sua sicurezza personale a Roma e a Napoli potessero indurre il vescovo al ritorno. Ma nel gennaio 1636 il C. dovette rendere pubblico l'interdetto, mediante affissione. Ora anche il Barberini riteneva probabile l'espulsione del nunzio. Ma ancora una volta non successe nulla, se non che Vittorio Amedeo per alcuni giorni non ricevette il Caffarelli. Il Del Verme rispose all'interdetto con un appello al papa, anch'esso reso pubblico mediante affissione. Solo verso la fine dell'anno il C. ricevette da Roma un monitorio di scomunica: era ancora in attesa di istruzioni per la relativa esecuzione quando improvvisamente, il 4 genn. 1637, il Del Verme morì. Senza che il C. potesse impedirlo, il duca lo fece seppellire nella chiesa di S. Maria degli Angeli a Torino e ne assunse l'eredità, che secondo il diritto canonico spettava alla Camera apostolica.
Nello stesso anno la morte di Vittorio Amedeo I, il 7 ott. 1637, comportò una importante svolta nell'attività di nunzio del Caffarelli. Sin dall'inizio i suoi rapporti con la ora reggente Maria Cristina (Madama Reale) e con il cardinal Maurizio, il più anziano dei fratelli del defunto duca, erano stati migliori di quelli col duca. Nei conflitti che ora insorgevano tra la reggente e i suoi alleati francesi relativamente alla proroga del trattato di alleanza militare di Rivoli, e vieppiù nella guerra civile che scoppiò nel 1639, il C. dovette assolvere al ruolo nuovo, politicamente rilevante ma estremamente difficile, di mediatore neutrale.
Maria Cristina mirava a non rinnovare trattato di Rivoli che impegnava i suoi Stati alla guerra contro la Lombardia, che scadeva nel 1638. Oltre alle gravi perdite subite - nella primavera del 1638 gli Spagnoli conquistarono Breme e Vercelli - essa era preoccupata per la futura indipendenza dei suoi Stati. La guerra la costringeva a cedere un numero sempre più grande di piazzeforti ai Francesi e portava ad un costante aumento dell'influenza francese in tutti gli atti della politica governativa. La reggente, la quale veniva sottoposta a pesantissime pressioni per rinnovare l'alleanza, si serviva nel frattempo del C. per avviare segretamente trattative con il governatore spagnolo Leganés. Queste non condussero ad alcun risultato, ma l'ambasciatore francese ne venne a conoscenza, sicché la reggente si vide costretta a smentire la propria responsabilità e ad attribuirne l'iniziativa al Caffarelli. Conseguentemente i Francesi considerarono il C. nemico dichiarato della loro politica e la loro diffidenza nei suoi confronti ostacolò gravemente tutta la sua futura politica di mediazione.
Nell'ambito delle misure politiche intese ad assicurare l'influenza francese nel paese, era stato severamente proibito il ritorno negli Stati sabaudi ai fratelli del defunto duca. Ma proprio l'evidente stato di dipendenza della reggente e il pericolo che la Francia sottoponesse al proprio dominio la Savoia e il Piemonte in caso di prematura morte del malaticcio Carlo Emanuele II, appena quattrenne, indussero il cardinal Maurizio e il principe Tommaso di Savoia Carignano, che allora combatteva per gli Spagnoli nelle Fiandre, a entrare in lizza per ottenere la coreggenza, che era stata loro negata, e per assicurarsi i loro diritti alla successione messi a repentaglio.
La guerra tra i principi, appoggiati dalla Spagna, e la reggente scoppiò agli inizi del 1639. Maria Cristina, in gravi difficoltà, chiese aiuto al papa, il quale incaricò il C. e il cardinal Monti di Milano di mediare un accordo. Non era più possibile arrestare le ostilità, ma da questo momento il C. perseguì tenacemente le trattative, grazie alle quali i rapporti tra le parti contendenti nonfurono mai interrotti del tutto. Le condizioni poste dai principi - mentre Tommaso, incontrando scarsa resistenza, occupava gran parte del Piemonte e si avvicinava a Torino - erano: rinuncia all'alleanza francese, partecipazione dei principi alla reggenza e conferma dei diritti alla successione al trono di Maurizio. Condizioni che la reggente ovviamente considerò inaccettabili, per cui il C. elaborò in aprile un proprio progetto di accordo, imperniato sul ritiro di ambedue gli eserciti stranieri dal Piemonte. Il deciso rifiuto dei Francesi rese però impossibili, allora, trattative su questa base.
Pur non sussistendo per il momento alcuna prospettiva di accordo generale l'attività di mediatore del C. sirivelò comunque utile, in quanto gli diede la possibilità di adoperarsi per scambi di prigionieri e perché i partigiani della parte opposta fossero trattati con indulgenza nei territori occupati. Dopo l'occupazione di Torino, nel luglio, il compito del C. divenne ancora più difficile per l'assenza della duchessa, ritiratasi col figlio a Saluzzo e poi a Chambéry. Purtuttavia egli ottenne allora un primo successo, seppure di breve durata: la sospensione dei combattimenti l'8 agosto, seguita dall'accordo su una tregua di 70 giorni (dal 14 agosto al 24 ottobre). Il C. si adoperò allora per avviare anche trattative di pace, recandosi a tale scopo presso la reggente a Saluzzo e presso il comandante francese a Pinerolo, ma riuscì soltanto ad evitare una prematura rottura della tregua. Un nuovo accordo di tregua, elaborato dal C. in novembre, non fu accettato dai belligeranti; ma il papa ritenne ora le iniziative del C. tanto promettenti da inviare in suo aiuto il segretario alla cifra romano, Antonio Feragalli. I due nunzi dovevano limitarsi a preparare future trattative di pace. Anzitutto, per risolvere i conflitti nell'ambito della famiglia ducale, essi studiarono la casistica delle varie reggenze di casa Savoia, in base alla quale elaborarono una bozza d'accordo, che fu inviata alle parti interessate nel febbraio del 1640. In base alle obiezioni e alle modifiche proposte dal cardinale Maurizio e dalla reggente, essi elaborarono una nuova stesura, che inviarono agli interessati. Neppure questo testo venne accettato senza ulteriori modifiche, ma le differenze che ancora permanevano non erano più insuperabili. La pace non fu però conclusa neppure allora, e ciò per l'atteggiamento degli alleati di ambedue le parti, che rifiutarono recisamente trattative di pace: i Francesi erano ora generalmente vittoriosi, e le loro forze si stavano concentrando per riconquistare Torino, mentre Leganés si preparava a porre di nuovo l'assedio a Casale.
Finalmente anche la duchessa fece propri i sospetti francesi circa la neutralità del C., bloccando ogni sua ulteriore attività. Il 3 luglio 1640 essa scrisse al papa che solo la parzialità del C. per i principi aveva impedito la conclusione della pace. La reggente gli rimproverava in primo luogo il fatto di essere rimasto a Torino quando la città era stata occupata da Tommaso, invece di seguire la sua corte, per cui il papa aveva apparentemente un nunzio presso suo cognato, ma non presso la sua persona, e lei aveva deciso di non riceverlo più.
Durante l'assedio il C. poté di nuovo impedire che fosse dato luogo alle rappresaglie minacciate dal principe Tommaso contro i madamisti di Torino; inoltre trattò con gli assedianti un accordo per impedire maggiori distruzioni.
Quando i Francesi occuparono la città, nel sett. 1640, il C. fu costretto ad allontanarsene; rimase alcuni mesi a Tigliole presso Asti, in attesa del richiamo, mentre il suo segretario Dentis provvedeva alla corrispondenza da Torino. Feragalli tornò a Roma in ottobre, il C. partì in dicembre. Finalmente la pace fu ristabilita in Savoia il 14 giugno 1642, senza il concorso del C., ma in base alle proposte di accordo da lui elaborate nella primavera del 1640.
Nel 1641 il C. dovette rimanere alcuni mesi a Roma per riferire sulle proprie esperienze, ma poi ritornò in Calabria nella sede arcivescovile di Santa Severina, e vi rimase fino alla morte. Indubbiamente era già malato nel 1647 poiché già allora, chiedendo di essere trasferito a Caserta, adduceva a motivo che questa sede era più vicina alla sua patria e che vi avrebbe potuto ottenere più facilmente le medicine di cui aveva bisogno. La sua richiesta non fu esaudita, ed egli morì a Santa Severina il 17 nov. 1651. Fu sepolto nella cattedrale.
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